LAURA D’ANGELO, Stagioni (prose poetiche)

Il mio canto d’aprile

Considera che la felicità non viene mai da fuori, ma da dentro, e che nessun cielo può farti felice se non cambi te stessa, se non cambi il modo di guardare, se non cambi il modo di accettare, di mettere da parte, di perdonarti, di perdonare. 

Considera che a volte ci si deve rassegnare. A cosa è servito piangere, urlare, scalciare, fare la guerra, fare la fame, rinunciare, questo non lo so dire, so solo che farsi del male è totalmente infantile, non cambia le cose, semmai le peggiora, e per di più, è drammaticamente inutile, non serve a nulla, solo a sfiorire.

A cosa serve soffrire, se con il tempo anche le lacrime sfiniscono e sfumano e lasciano solchi che diventano rughe, evaporano pure le paure alla luce del sole, svaniscono, e così quello che era un desiderio diventa la nebbia dei giorni, la foschia dei ricordi. Eri un desiderio e sei diventato un ricordo. Ti guardi intorno cercando vecchi sogni e invece raccogli frammenti e pezzi di sbiaditi contorni.

Considera che la felicità non ha bisogno di grandi scenari, può essere una scintilla improvvisa, un brivido di bene, la luce del sole tra i rami. Può essere un incontro, un sorriso, un nome nuovo, un gesto gentile, un fiore che si stacca dal ramo e nel vento ti viene a stupire. Considera che se ti viene incontro e non sa come finire, è ancora l’amore, l’inizio di tutto, il mio canto d’aprile.

*

Ai tramonti ci si bacia

Che sia un bel mare intorno perché il mare è il posto per salpare, è la meta per approdare. Che sia un mare il posto per sentirsi felici, per trovare il proprio posto e per un po’ dalla meraviglia lasciarsi cullare. Che sia la luce giusta, il verde degli smeraldi sul fondale, chi si ferma in riva e ha lo sguardo triste, chi si ferma in riva e non è più bambino, la bambina di ieri che cerca la donna di oggi, il soffio del vento che per un po’ porta via tutto, anche il sopore, il tormento. 

Che sia lo sguardo per vedersi, per ricordare, per nasse piene di salsedine e stelle marine sul fondale. Che sia un posto all’ombra, un rifugio e un riparo da quello che brucia, quello che fa male. Per le ustioni non esistono cure o rimedi, bisogna solo saper lasciare andare, eppure questo sole adesso lo voglio tutto, chi si ferma ai tramonti è solo perché ai tramonti ci si bacia. 

*

L’autunno che arrivava

L’autunno che arrivava lento, in un avvolgente imbrunire. L’odore pungente del freddo, lo sgomento improvviso per qualcosa che finisce, la dolcezza del posto che ti accoglie, il calore che acquieta e intenerisce.

L’autunno che arrivava lento in realtà cambiava tutto velocemente. Svuotava le strade, cambiava i giochi dei bambini, stravolgeva abitudini e armadi, i sorrisi, qualche lacrima, qualcuno nasceva e qualcuno all’improvviso invecchiava.

L’autunno che arrivava lento restava fuori dai palazzi, riempiva di luci le finestre delle case, era il tempo della lentezza, dell’attesa, della pianificazione, il tempo dei bilanci, dei nuovi slanci o soltanto del riposo e dell’attenzione, la cura del sentire, del guardare, la cura del tepore, della rassegnazione.

L’autunno che arrivava lento era gentile perché ti dava un motivo per rallentare, ma era anche un po’ spietato, nella sua malinconia struggente che conosce il linguaggio delle cose vere. L’autunno che arrivava mi piaceva sorprenderlo per strada, in un soffio di vento, all’angolo di un’attesa svanita, di una abitudine dolce, mia.

L’autunno che mi sorprendeva nei quadernoni con le foglie arancioni e marroni, aveva le castagne al profumo di rugiada e ruggine e la pioggia dimessa e sottile, l’autunno che potevi immaginare come un vecchietto canuto dall’incedere quieto e dal profilo un po’ curvo per il peso dei giorni, ammiccava mansueto al fluire dei sogni. L’autunno che mi veniva incontro nei passi dei grandi non aveva rime e versi per filastrocche e giochi e canti di altalene e voli d’istanti.

Era l’autunno mesto del mare addormentato e sospeso nel suo giro infuocato di polvere e sale, l’autunno più spesso e più tenero per il vizio d’amare, l’autunno come la fine e l’inizio, lo stupore struggente dell’amore persempre, l’autunno parlava e, anche adesso, si faceva ascoltare.


Biografia di Laura D’Angelo


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