Poesia come normalità o azzardo?
Il compito della poesia è stato sempre quello di ricercare qualcosa che non c’è (o non ci è dato – forse – sapere), un linguaggio della contraddizione, palinodico e giocoso, tragicomico, che non affabuli ma aggrovigli, che non addomestichi ma interroghi. Sul piano prettamente stilistico, un accumulo delirante di parole deliranti apparentemente giocose e comiche da scorticare, scardinare, aprire squarci, ogni qualvolta il risultato si avvii verso l’ovvio, non senza il gioco delle combinazioni. Una poesia come avventura nel mare della conoscenza per una mobilità linguistica che non prometta consolazioni, che non raggiunga mai la centralità di un qualcosa fatto passare per verità; mai patetica, né intimistica, né romantica, ma irriverente, demistificatoria, dissacrante per una fisica visione dinamico-allegorica del mondo, per un itinerarium corpis in mundum.
Dunque, la poesia ha sempre sperimentato nuovi territori, rompendo l’ordine costituito delle cose, rimarcando il caos per smentire tutte le possibili normative e lavorare sull’improbabile, contro la tentazione del senso, nel tempo inventariale. Da un punto di non ritorno, il caos è la linfa della poesia, ricerca come invenzione e autocritica, un’esplorazione nel vuoto della lingua, in quei meandri indefiniti e incalcolati, che urta le configurazioni dell’antica e recente memoria di una letteratura alternativa a quella ufficiale ormai obsoleta e vietamente mercificata, priva di ogni nota progressiva. E tutto ciò non può realizzarsi senza sperimentare nuovi linguaggi fatti di rimandi, riformulazioni, giochi allusivi ed allegorici, per un’invenzione continuamente inventata. Il tentativo è di frantumare dall’interno i falsi messaggi di una letteratura da mercanzia spicciola, sottrarre il testo alla facile fruizione, all’pnotismo e qualunquismo intimistico-emotivo, al consumo lirico di fasulle certezze, per un linguaggio ossessionato a riconoscere qualcos’altro nella babele di una quotidianità dove tutto è penosamente merce di scambio. Sennonché, da sempre la poesia d’avanguardia ha due strade davanti: una conduce all’élite, l’altra al museo. Nel primo caso, la scelta di tenersi fuori dagli schemi e dalla nullità dell’esistente, è una scelta consapevole, nonostante essa porti inevitabilmente al fallimento.
Secondo Bataille, la poesia deperisce lontano dall’impossibile. L’attualità letteraria di oggi si riscontrava già negli anni ’70, quando Felice Piemontese scriveva: «LA SITUAZIONE ATTUALE è fra le più desolanti. La Retroguardia culturale -, ormai, larghi settori della sinistra - domina su tutta la linea. Le forze di opposizione sono poche, disperse, disparate, pressoché prive di strumenti efficaci, spesso perfino coinvolte a loro volta, marginalmente, negli stessi giochi della Retroguardia. […] Molti filosofi (anche marxisti) continuano a fare i “conservatori dei valori ammessi”. […] In realtà il nostro rifiuto del “valori ammessi” non è fatto né in nome di un nichilismo astorico e irrazionale né richiamandosi a valori vigenti prima, bensì in vista di un cambiamento profondo e radicale della società che può avvenire solo in conseguenza dell’eliminazione del capitalismo»1.
Sin dal surrealismo, passando per la neoavanguardia, la poesia di ricerca è riuscita a resistere al richiamo del “successo”, denotando un’apprezzabile critica al valore stabilito, ai fondamenti, al pudore, alla morale, al linguaggio evanescente: insomma, criticando tutto quello che ci è stato trasmesso o tralasciato attraverso la storia e le tradizioni, attraverso quei meandri spazi fenditi da scarto e devianza, autonomi ed intriganti, dove è germogliata l’inutilità della poesia senza mai riuscire, tra l’altro, a ricercare una solida pista di decollo, dimostrando che l’alternativa culturale al pensiero dominante del potere, è una vita possibile. Il rischio è cadere nella trappola della domanda e dell’offerta cui ci si può opporre solo con l’istanza di un’opera commercialmente impraticabile, ma di rottura. È a questo punto che la poesia d’avanguardia è destinata al museo: «L’avanguardia si leva, strutturalmente parlando, contro la mercificazione estetica, e infine, come si è descritto, vi partecipa dentro: a livello sovrastrutturale, essa ha il suo nemico dichiarato nel museo, che, da ultimo, come nelle peggiori favole, se la divora tutta tranquillamente. Poco consola che essa riesca a risorgere, in nuova figura, dalle sue stesse ceneri: resta il fatto che risorge soltanto per essere divorata un’altra volta»2.
Oggi, questa sua peculiarità appare come un fantastico ricordo: il poeta non vuole più rischiare “l’incomprensione”, rinunciare ad una falsa speranza di essere “riconosciuto” dall’esistente che ha troppo da fare a smerciare fasulle certezze per accorgersi della sua presenza. Intanto si continua a fare poesia (ed è un fatto rassicurante, oltre che terapeutico), a fingere di cercare un’ “elaborazione di pensiero” che resista all’incertezza umana o all’usura del tempo (e non è più un fatto rassicurante), rigurgitando “l’ordinanza” di nuove cose, nuove sensazioni che la poesia tanto attende, da molto tempo oramai, senza considerare l’essere, almeno solo marginalmente.
In questo turpiloquio qual è la garanzia per un poeta? Una poesia della normalità o dell’azzardo? D’altro canto, se proprio uno vuol cimentarsi nel definire la poesia, resta da dire che la poesia è rifiuto di collocazione, è allontanamento di falsi oracoli, pronti a scambiarsi l’ignoranza, la menzogna; la poesia è mutamento continuo, è deflagrazione verbale, irriverenza e dissacrazione, è sgretolamento delle cose, delle trame, all’istante! È l’analisi (il)logica, infine, per un progetto di rifacimento, dove la scritta “lavori in corso” sia indelebile.
In realtà pochi sono in grado di riconquistare validità di linguaggio, d’abbandonare ogni agio, ogni forma imposta, d’allontanare il cosiddetto “coraggio-sacrificio” per generare qualcosa di veramente accettabile, di trarre un’originale alternativa da opporre al qualunquismo in atto, dove si è perso il gusto delle contrapposizioni, vero motore delle novità. E non spaventi il fatto che il “nuovo” sia ancora legato ai prodomi della neoavanguardia o addirittura della tradizione. D’altronde, se un poeta non ricerca il nuovo, si consuma nell’ovvio, negli epigoni.
Ma cosa si è fatto per la cosiddetta “poesia nuova”? Niente o quasi niente, se si esclude una presenza ingombrante di personalismo, d’intimismo, di individualismo abusato e patetico; ad una labile strategia d’attacco abbiamo mirato in questi ultimi anni, a una strategia (quando vi è stata) che tenesse ancora in grande considerazione il fatto che in poesia amore deve ancora far rima con cuore. Ci attende una grande catastrofe, catastrofe che in parte è già avvenuta. (Giorgio Moio)
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Luigi Auriemma – In una società ostile come quella attuale la poesia, come tutte le forme di espressioni artistiche, non può essere aliena a ciò; la sua vitalità e la propria efficacia la deve trovare, per quanto mi riguarda, nelle forme più “assurde” della sperimentazione. La poesia (la) si deve interrogare continuamente fino al punto da mettere in pericolo la sua stessa esistenza. Oggi non serve una poesia che calca sentieri già percorsi, già sperimentati e non attuali. Personalmente ciò che mi porta a interrogare la poesia e l’arte visiva è, che non mi è ancora chiaro, l’incolmabile enigma di Caino e Abele: perché un UOMO uccide il proprio FRATELLO? perché una VITA ne uccide un’altra? Di quale parola o segno si nutre questo MISTERO, che si verifica dalla comparsa dei primi uomini sulla terra e dura fino ai giorni nostri? È in questo MISTERO terrificante che si annida l’attualità della poesia. Finché l’UOMO ucciderà suo FRATELLO la poesia sarà tragicamente attuale.
Le mie poesie e le mie opere (visive) nascono dalle profondità di questo abisso e dal tentativo di colmarlo.
Bruno Di Pietro – 1- La questione va affrontata dal lato di chi scrive da una parte e dal lato di chi legge dall’altra. Perché la poesia è un mezzo di comunicazione.
2- La poesia è un evento inspiegabile sia per chi scrive – in relazione al risultato – che per chi legge, in relazione allo “stupore”. Quando ho letto Eliot per la prima volta era più di mezzo secolo fa . E mi si riconoscerà che i Quattro Quartetti facili non sono. E probabilmente non ci capii molto. Ma La primavera di mezzo inverno è una stagione a parte ce l’ho stampato nel cuore e nella memoria. Lo stesso dicasi per La terra desolata di cui capii pochissimo ma Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni non lo ho mai più dimenticato. Perché? Non lo so, ma lo “sento”. Quando ho letto Ungaretti per la prima volta ero ancora più piccolo. E molte possibili “letture” dei testi non le possedevo. Eppure «Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore» o Moammed Sceab ce li ho stampati nel cuore e nella memoria. Perché? Non lo so. Ma lo “sento”.
3- Leggere poesia è “predisporsi all’ascolto” con il cuore. “Mandare a memoria”, “par coeur” come dicono i francesi. E Pound diceva che senza “emozioni” non c’è poesia. In sintesi, da lettore (e sottolineo “lettore” perché tale mi qualifico) ciò che fa la differenza è lo “stupore” che in me provoca un verso, anche un unico solo verso. Il resto è studio e approfondimento. Forse ha ragione Vladimir Jankélévitch quando dice che «La poesia è l’arte di fare del nuovo con la cosa più vecchia del mondo: non con parole straordinarie, ma con la lingua di tutti»3. Alla sola condizione di indurre nel lettore quello “stupore” che motiva il “ri/cordo” (“cor-cordis” “cuore”, in latino). E quel “fare del nuovo” deve appartenere sia all’”intenzione” di chi scrive che alla “es-tensione” di coloro che leggono. Insomma, come per l’amore, la combinazione è un affare di “chimica”.
4- Purché questa combinazione accada la questione della “forma espressiva” è secondaria. E da diversi anni ritengo che il vero nodo da sciogliere sia relativo al “significato” più che al “significante”. Siamo alla fine di una civiltà. Forse alla fine del genere umano. Vorrei che un Poeta riuscisse con la parola a farmi immaginare un “nuovo inizio”. Una Aurora.
5- Ovviamente non sono stato “chiaro”.
Ma si può spiegare l’inspiegabile?
Elena Deserventi - La poesia è tradizione e novità. Come ogni forma artistica deve fare i conti con il passato ma anche sperimentare per cogliere lo spirito dei tempi che cambiano. Non è detto che la metrica e le figure retoriche e la rima siano obsoleti, dipende da come si inseriscono nei versi, o che le forme bizzarre o astruse siano espressione di novità creativa Credo che oggi la poesia debba rinnovare con “sapienza” la tradizione, immettendola in contesti diversi, senza ribaltare tutto e ottenere caos invece di novità autentica. Le cose umane cambiano, le parole mutano, ma se non sono in grado di cogliere la trasformazione nella tradizione, si legano a una moda transeunte.
Donato Di Poce – (Trucioli di Scrittura e Appunti di Metapoetica). Scrivere e vivere dopo Rimbaud - Scrivevo e annegavo in un mare di paradossi / Tacevo e feci naufragio tra i silenzi / Incontrai la mia follia creatrice / E mi rise in faccia. // Fui profeta del nulla / E il nulla mi restituì / Il seme della poesia. // Divenni una cometa spenta / Che accendeva un cielo di stelle. // Non volevo più parlare / Ma non potevo più tacere. (Milano, 8/12/2022 - 01/01/2023). Questo libro, Sulle tracce della poesia4, nasce da anni di letture critiche, filosofiche e poetiche sulla scrittura, soprattutto dell’amata triade BBB francese (Blanchot, Barthes, Bachelard), dall’ossessione del gran rifiuto della scrittura all’apice del suo successo di Rimbaud ed alcune mie riflessioni (che ho scoperto costanti nel tempo sulla scrittura e sulla poesia). Ne sono usciti trucioli di scrittura e appunti di metapoetica, aforismi e poesismi in cui cercavo di non perdermi nel labirinto di parole, di non restare impantanato nel grado 0 della scrittura e negli specchi infranti della poesia.
Ma peccherei di presunzione se non citassi il mio debito letterario e poetico a Sbarbaro (Trucioli) e Leopardi (Lo Zibaldone). Assediato dalla fame di vita, dalla mia trincea di silenzio, ho cercato di rompere il muro delle parole e a terra sono rimasti frammenti quasi aurorali di scrittura e di pensieri, sempre con un occhio attento all’Altro e all’Oltre della scrittura, attento a incunearmi in quegli interstizi e spazi vuoti tra la vita e il pensiero, il sogno e la scrittura.
Il libro dunque ha una lunga incubazione e un grande drenaggio esistenziale e poetico anche se scritto in un tempo relativamente breve, tra il 2021 e inizio del 2023, si compone di tre parti: la prima dal titolo Lampi di scrittura, rendiconto emozionale di dieci giorni durante una vacanza nella splendida Sicilia, la seconda La scrittura infinita, un ripensare gioioso a volte empatico, altre in antagonismo con la rilettura a distanza di trenta anni dell’amata triade BBB francese (Blanchot, Barthes, Bachelard), la terza Sulle tracce della poesia, ultima e più recente, partita con una rilettura dell’amato Rimbaud e in concomitanza della scrittura dei miei ultimi libri su Pasolini (L’Pasolini l’ossimoro vivente), Artaud (Artaud, il poeta e il suo doppio), e il Rinascimento (Rinascimento: La danza delle idee).
Una considerazione che mi preme sottolineare è che ho sempre avuto presente e creduto nella citazione latina “verba volant, scripta manent” e che la scrittura e la poesia sono una terapia e autoterapia al male di vivere, che ci aiuta a capire chi siamo, cosa vogliamo, a diventare noi stessi e sentirsi liberi. Infine una considerazione finale sul fatto che tra le virgole del pensiero si sono insinuate api di senso, ronzii di silenzio, spifferi di verità che accompagnano il nostro vivere e il nostro sentire tra memoria e desiderio.
Infine credo che la scrittura e la poesia sono un ponte emozionale, un nido di conoscenza da cui spiccare il volo verso il mondo e abbracciare l’Altro. Un modo per restituire la bellezza e l’amore che percepiamo, inseguiamo, aspettiamo e che a volte costruiamo dentro i nostri mondi separati, le nostre mille bolle di solitudini, le nostre nuvole d’inchiostro.
Questo libro, seppur denso di paradossi e di ossimori che sembrano negarsi e contraddirsi, tuttavia mi lascia una strana sensazione di freschezza e di stile, una danza delle idee che mi procura una strana felicità mentale seppur corroborata da una malinconica, flaianesca irriverenza, che mi chiede ancora una volta di tacere prima di scrivere, di continuare a seguire le tracce della libertà e della poesia, nonostante la tracotante violenza dei cinici al potere, l’indifferenza e l’invisibilità verso gli ultimi, che vivono nel limbo della vita e della scrittura cercando di estrarre il diamante grezzo della poesia dal fango della realtà perché sanno che “Prima di scrivere una parola sola / Bisogna ascoltare tutto il dolore / La bellezza e silenzio del mondo”.
Milano, 17/1/2023
Gianluca Garrapa – È insito nell’essere parlante adattarsi al vuoto del mondo.
È insito nell’essere mondano sciogliersi in versi diversi perché mai smette di esserci come Cosa irraggiungibile. Perché sempre mortale, sempre l’uomo aggirerà la necessità di proteggersi. C’è la fame e la malattia, la gioia e il corpo. Finché il corpo dell’uomo sarà quello che conosciamo, avremo disposizione a sperimentare altri corpi che ci diano l’ebbrezza di non essere corpo. L’ebrezza dell’equilibrismo è molto simile a quella della comicità e della sperimentabilità. Tentare di dire l’impossibile è sempre sperimento. Non c’entra la lirica o la metrica. Non c’entra la forma. La poesia, in quanto non genere protesico del desiderio, in quanto paralume del sogno e parapendio dell’anima o del corpo in transito perpetuo tra vita e morte, la poesia è sempre esperimento: il bambino che sperimenta, che cade. Il poeta cade sempre. Non sa camminare che per esperienze successive.
Oppure. La poesia è indisposta e indisponente, ma chi la scrive la predispone o in un senso o in un altro. Proprio perché la società è sempre avversa alla poesia, è necessario che il linguaggio prestabilito del potere sociale sia antipoetico perché la poesia possa, sperimentando o meno, opporsi come desiderio al godimento della legge. Credo che: sì e no: la poesia sperimenta forme sempre nuove. Sì perché è proprio del legame che unisce poesia e società la costruzione di forme. La differenza tra il sì-sperimentare e il no-sperimentare è irrilevante se in entrambi è il gesto desiderante che muove alla scrittura. In forse è proprio questo: in una società, avversa o meno, la poesia è forse disposta dal desiderio a contornare quel vuoto costitutivo dell’essere parlante che è l’uomo? È qui il nucleo e la periferia: se c’è desiderio anticapitalista e inconsumabile o godimento mercantile consumistico. La poesia non desiderante è indifferente che ci sia o meno, che sperimenti o riepiloghi i canoni. Se la poesia è desiderante allora ha anche un valore infinito sia che si avvicini dallo sperimentalismo non gratuito e fine a sé stesso, o anche sì, sia che si accosti da uno studiato epigonismo non passivo, o sfacciatamente coveristico.
Desidera, mostrami il tuo desiderio: ogni forma è sempre, sperimentalmente, nuova.
Luciana Gravina – Quando dico poesia, a volte penso a Omero, al primo poeta dell’Occidente, e al famoso primo verso dell’Iliade, Atrèides te ànas andrõn kai dîos Akilleùs, che col ritmo e l’alternanza sillabica pensati e organizzati secondo una norma, segna il confine oltre il quale tutta la poesia si costruisce, divenendo uno degli strumenti attraverso cui l’umanità elabora la sua produzione di senso. E poiché la sua natura è tale da strattonare le emozioni, insidiare le percezioni e, a volte, anche dare gomitate al cervello, mette in campo meccanismi convenzionali complessi, ricercati, riconducibili a un contenitore detto Retorica. É così che racconta dell’uomo, ne dice il rapporto col sé e col mondo, coi suoi demoni e coi suoi paradisi. Il fascino maggiore di questo linguaggio è l’appartenenza ai codici estetici, gli stessi delle arti visive, della musica e di altre forme, e che sono in continua evoluzione, come tutto ciò che appartiene alla storia. I poeti, e in genere gli artisti, operano in permanente condizione di ricerca, modificano i loro strumenti di decodificazione del mondo secondo i sistemi di approccio alla conoscenza della società, che li muta e li mutua dal progresso culturale e tecnologico. Questo è sempre accaduto. Certo oggi la sfida della tecnologia avanzata sembra insostenibile, e la nostra società così instabile, aggredita da un insostenibile diluvio di informazioni e provocazioni esistenziali sembra aver messo nell’angolo la poesia che, tra le altre arti, è la cenerentola. È vero, carmen non dat panem, e non ne ha mai dato. Nel migliore dei casi ha procurato Mecenati generosi e la cultura del nostro tempo, così centrata sul capitale e sulle dinamiche finanziarie, forse della poesia non si accorge nemmeno. Eppure io vedo il popolo dei poeti numeroso e bene agguerrito. La poesia può oggi maggiormente alimentare un ruolo di denuncia e non solo, perché in effetti la poesia può dire tutto. Credo che mai la poesia aveva goduto di una possibilità di scambio e di diffusione come quella fornita dai mass media: le riviste on line, gli ebook, i social, gli incontri a distanza. La comunicazione odierna diffonde velocemente mutamenti culturali, sperimentazioni audaci, l’evoluzione rapida dei costumi, del gusto, del comportamento sociale. Il popolo dei poeti non può che essere attento e stare in condizione di ricerca permanente. Certo, c’è pure che gira intorno a sé stesso e si guarda l’ombelico ma, per quanto mi riguarda, cerco di non giudicare. Tutto ciò mi fa pensare che la Poesia non abbia nessuna intenzione di cedere le armi, che è pronta per andare avanti nella sua storia e nella Storia attraverso tutte le sperimentazioni possibili.
Izabella Teresa Kostka – La scrittura poetica è un sublime processo creativo ed emotivo, nato nella mente e nella sfera della sensibilità umana. Con lo sviluppo dell’umanità, essa ha bisogno e cerca nuovi mezzi di espressione, corrispondenti ai tempi attuali. L’arte poetica si trasforma in termini di metrica, linguaggio e stile, ma rimane fedele all’impulso creativo, cioè all’ispirazione derivante dalle emozioni vissute. Ha bisogno di nuove modalità per esprimere pienamente i “propri tempi”.
Patricia Luongo – La poesia fa da sempre parte dell’esistenza dell’uomo e dalla società in cui ha vissuto, vive e vivrà; ed è inoltre l’arte di comporre versi in cui vengono espressi i sentimenti, le emozioni, i tormenti dell’uomo e della società in cui vive.
La poesia, l’uomo, la società hanno sempre camminato a pari passo.
Ogni epoca ha lasciato una traccia importante sia nella società che nella poesia. Vi è un percorso da seguire il quale si trasforma continuamente. È inevitabile che vi siano nuovi generi poetici caratterizzati da svariate influenze e sperimentazioni.
Ogni epoca poi ha avuto la sua scuola o corrente poetica, ha avuto i suoi movimenti ed innovazioni. Come vi sono stati in passato, dalla scuola siciliana ed il dolce stil novo, e tantissimi altre correnti poetiche fino ad oggi, anche ora stiamo vivendo un periodo poetico e una nuova fase poetica che consapevolmente o inconsapevolmente sta avendo luogo.
Com’è? Quali i cambiamenti e innovazioni? Forse ora non abbiamo i mezzi necessari per definire il periodo poetico attuale?
Le risposte? Solo il tempo potrà rispondere.
Marco Palladini – Se guardo all’odierno panorama poetico mi pare indubbio che da molto tempo siamo in presenza di una fase di stanca, di ripiegamento, di palese regressione culturale. Non ci sono idee nuove, né visioni di prospettiva. Si rimastica il passato, si ribobola il già fatto e già pensato, certamente compaiono di continuo nuovi poeti, che però innovativi invero non sono, le singole poetiche guardano ad un canone che predilige voci rassicuranti, convenzionali, che rispondono a una medietà-mediocrità semplificatoria, a-problematica e non conflittuale. Anche nel campo poetico si percepisce che sulla cultura ha vinto la comunicazione che vuole figure da imporre come personaggini mediatici di facile favella e di gradevole ascolto (ieri Alda Merini, oggi Franco Arminio), declinati sui buoni sentimenti e sul politicamente corretto.
L’orizzonte editoriale del mainstream rifugge dalle energie culturali alternative, gli esponenti della ricerca ivi non hanno diritto di cittadinanza. E laddove sopravvivono, lo fanno in piccole riserve, spesso di autoconservazione, che non incidono nel sistema. Del resto, va detto che anche le avanguardie invecchiano e quelle novecentesche hanno fatto il loro tempo, hanno dato, secondo me, tutto quello che potevano dare. Rimane certo la loro lezione etico-estetica e politico-culturale, ma essa andrebbe totalmente rimeditata e riorientata nella epochè del XXI secolo. Ma è un compito che spetterebbe alle nuove generazioni, non possono assolverlo gli artisti e i poeti nati nello scorso secolo. Il punto cruciale mi pare proprio questo (ne parlo da oltre vent’anni): che la giovane generazione è arresa al sistema, neppure riesce a concepire un vero antagonismo versus l’establishment, ha assorbito in partenza l’input della ricerca del consenso e della personale visibilità e del compiacere il potere. A creare e ad alimentare il dissenso e il conflitto critico non ci pensa proprio.
Del resto, pure la critica letteraria se non è pressoché sparita, è quanto meno completamente depotenziata e ridotta ad essere marginale o irrilevante. Il mercato, lo ripeto da sempre, ha bisogno di organizzatori e promotori di consenso, giammai di propalatori di dissenso. Gli eteropensanti non sono ammessi o contemplati. Sulle gazzette nazionali e sui siti ufficiali si recensiscono soltanto i prodotti allineati o obbedienti ai diktat della comunicazione e del conforme. Anche la similcritica è oggi una forma di intrattenimento depensante.
Una qualche ricerca poetica, lo ribadisco, certo in qualche modo sopravvive, ma si è fatta, secondo me, in gran parte, liminare ed epigonale. Non vedo novità estetiche o epistemiche reali, in gran misura si rimasticano, nel migliore dei casi, modalità creative sperimentali che vengono dal passato. D’altronde, è dalla fine degli anni ’70 e primi ’80 del secolo scorso che sento parlare di Tradizione del Nuovo, brillante ossimoro per significare che l’onda novista, neoavanguardista si era stabilizzata, acquietata e tendeva a farsi canone, maniera, ripetizione del già visto (pure la scrittura asemica non è certo una novità). Non era, del resto, stato Man Ray a dire già negli anni ’30 ai suoi amici dadaisti che “si è all’avanguardia una sola volta nella vita”? Appunto.
Parafrasando poi Gianfranco Contini, mi è accaduto più volte di ribadire che non esiste la poesia, ma esistono i poeti. L’istituzione “poesia” la lascio volentieri agli accademici. L’ultimo poeta che ha avuto un impatto sulla opinione pubblica, sulla verbosfera sociale è stato Pasolini. Ucciso lui (quasi mezzo secolo fa), la voce dei poeti è sfumata, si è ridotta a rumore di fondo nel macroscopico “palaver” (Enzensberger dixit) mediatico. Non la ascolta più nessuno. Anche quella di poeti (penso a Sanguineti) che pure avevano una forte coscienza politica. La mutazione antropologico-culturale preconizzata da Pier Paolo ha fatto strame del ruolo pubblico dei poeti. Non c’è che da prenderne atto. Il poeta, un vero poeta è sacro come diceva Moravia, ma insieme oggi appare una figura residuale, patetica. Se devo parlare per me, mi do un senso come portatore e diffusore di “linguavirus” contro i linguaggi cristallizzati del potere. Un untore, insomma, sognando il ritorno di tempi migliori.
Susanna Pelizza – Io penso che Poesia sia essenzialmente ricerca letteraria, più che emozione e sentimento, si è sempre alla ricerca di una nuova lingua, anche se risulta arduo e difficoltoso, «la lingua è quella Puttana che ho da fare diventare vergine», diceva H. Auden. Io credo che oggi come oggi non sia tanto importante la sonorità, la forma metrica, ecc. quanto più che altro il messaggio trasmesso, quello che si vuole o si tenta di trasmettere. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, per me è importante l’aggancio con il passato, non tanto dal punto di vista formale quanto contenutistico, addotto le cosiddette Vetustas del Manganelli, ma più per informare un pubblico incolto ai processi lirici, che per destrutturare il linguaggio come faceva il Manganelli...
Una volta scrissi al grande critico Giorgio Barberi Squarotti dicendogli appunto che cosa fosse per lui la poesia e mi rispose «difficile dirlo, più facile dire che cosa non è. Non è lamento, semplice emozione, petulante ripetizioni di termini. In sostanza non è facile effluvio amoroso». Credo che la poesia debba diversificarsi dalla vanificazione spettacolare di oggi, proponendo Cultura: in sostanza cosa differenzia la poesia dalla Canzone se non un processo Culturale? Credo che sia banale dire quella poesia mi ha dato emozioni, lo può fare benissimo anche una sinfonia musicale, credo che sia più esatto dire quella poesia mi ha fatto riflettere…
Lamberto Pignotti – (Frequenze poetiche). «La poesia, nonostante una società avversa, è disposta a sperimentare forme sempre nuove di espressioni», innanzitutto perché la società le è sempre stata, variamente, avversa, e poi perché la poesia in quanto tale nasce per sperimentare proprio forme sempre nuove di espressioni, per cercare di vedere e di far vedere mondi e modi diversi. Del resto «i poeti sono veggenti», va ripetendo da tempo immemorabile un luogo comune forse un po’ troppo largheggiante nei confronti di chi iniziò a scrivere versi, magari sulle foglie affidate allo spirar dei venti. Ma sì sa, la poesia è nata alquanto misteriosamente tra mitologie e orfismi; i poeti vedono, stravedono, fanno vedere… Ma che cosa può vedere, e far vedere, oggi un poeta? Oggi l’occhio, questo organo sensorialmente impigrito e tendenzialmente passivo, preferendo tenere a bada ciò che lo circonda, è così abituato a non vedere o a stravedere, è talmente programmato a prevedere, che in parecchi casi si convince di aver visto anche senza aver esercitato effettivamente la sua funzione. Se le necessità pratiche dell’individuo, l’andamento consueto delle cose, l’enciclopedia economica del sapere, le griglie dell’ordine sociale × in una parola: l’abitudine × inducono l’occhio a guardare il pre-visto e il già visto - la «realtà virtuale», così come appare nella quotidianità - con la sostanziale conseguenza di fare a meno di guardare davvero, all’occhio che vuole esercitare la sua funzione si pone il problema di reagire all’abitudine. Tutte le volte, dunque, che l’abitudine spinge a ficcare l’occhio addestrato al posto prestabilito, vale a dire «l’occhio giusto al posto giusto» in modo che lo sguardo risulti più o meno un mero riscontro della realtà, è opportuno per il poeta domandarsi responsabilmente se non sia piuttosto il caso di «ficcare l’occhio giusto al posto ingiusto», o magari di «ficcare l’occhio ingiusto al posto giusto». Ciò non per arrivare a costruire una visione distorta del mondo, ma per far sì che lo sguardo non si limiti a scivolare sulla realtà.
Alberto Rizzi – La sperimentazione è connaturata al “fare arte” in qualsiasi campo, a prescindere dal livello della società nella quale le arti vengono agìte. Non credo quindi che questa disposizione d’animo verrà mai a mancare negli artisti, nemmeno per quanto riguarda la poesia.
Il degrado sociale farà sì che ci sia meno poesia di qualità; o che – pur rimanendo più o meno invariata la quantità di materiale di valore prodotto – i testi fatichino di più a “venire alla superficie” dei mezzi di comunicazione, specie di quelli in rete.
Rimarrà più o meno invariata anche la percentuale di lettori in grado di capire detta sperimentazione; e anche per loro ci sarà forse maggior difficoltà a reperire lavori all’altezza delle loro aspettative, a prescindere dal livello di sperimentazione richiesto. Sempre più la distribuzione di tali lavori sarà demandata a strutture esterne al cosiddetto “mercato”; fino a vedersi un ritorno in auge dei “circoli” elitari - in qualsiasi forma, anche se quella “in presenza” è alla fine l’unica che conta - che tennero viva la cultura e l’arte (e la sperimentazione in tali campi, visto che stiamo parlando di essa) nei secoli passati.
Quanto al come, francamente non saprei: è vero che io, pur definendomi non uno sperimentatore, ma “uno scrittore che utilizza le sperimentazioni altrui”, di sperimentazione ne feci: tale si può considerare tutta la mia non numerosa produzione di poesia visiva (perché per forza di cose, la contaminazione tra due generi diversi non può che basarsi sullo sperimentare); ma anche nel campo della poesia lineare la peculiare impaginazione dei versi è frutto anch’essa di sperimentazione; e così dicasi almeno per la raccolta “Luoghi accettati”: che, scritta in anni ormai lontani, fu utilizzata a un certo punto come test per le mie deformazioni sonore della parola.
Ma poiché tale sperimentare non era fine a se stesso (non si basava sul “vediamo cosa succede se…”), ma verteva sulla ricerca di modi adatti a rendere visivamente la ritmica del testo e a meglio sottolineare l’importanza di certi termini, frasi ecc. all’interno del medesimo, per agevolare la comprensione del lettore, davvero non so dire quali strade percorrerà la sperimentazione pura; fermo restando – come sempre – l’investigare il potenziale artistico dei nuovi mezzi di comunicazione, che man mano compariranno sulla scena.
Antonio Spagnuolo – La domanda contiene secondo me già una risposta, perché da qualche tempo si propongono scritture così dette poetiche, che vanno dal verso senza limiti a vere e proprie prose, che nulla hanno a che fare con la poesia, intesa nella giusta accezione del vocabolo, che rispecchia nei secoli il componimento che gioca esclusivamente sulla sillaba.
La poesia, da quella classica alla contemporanea, dovrebbe e deve mantenere sempre la capacità di realizzarsi con un ritmo preciso delle sillabe, in un adagio musicale che la rende orecchiabile, leggibile, ripetibile. Se manca il ritmo e il sottofondo musicale non è poesia, ma semplice scrittura in prosa.
Ora come scegliere forme nuove di scrittura poetica?
La maggior parte dei giovani che attualmente tenta di stravolgere il verso non fa altro che ricalcare gli esperimenti che già hanno avuto vita dal futurismo, all’ermetismo, allo sperimentalismo, ai movimenti culturali degli ultimi anni ’80 dello scorso secolo. Dimostrando così che non hanno studiato, assimilato, maturato tutto quanto è già stato fatto. Anche il gioco delle metafore, che attualmente si propongono, non è altro che una esercitazione da licealista che cerca di intimidire l’incauto lettore.
Anche se la società odierna è avversa e non ama, non cerca, non legge la poesia, è un bene che ci sia qualche tentativo di esondare, ma ciò dovrebbe essere affidato ad un bagaglio culturale del poeta di valida esperienza, già saturo dei storia che precede.
La vera poesia è legata all’inconscio, e l’inconscio è il luogo della poesia. Luogo che attende il simbolo per urlare l’emersione da una serie indefinita di soggiacenze ed aggregare affioramenti che possano proiettare emozioni multicolori. La poesia allora diviene nel ritmo la tappa dell’informe che cerca la forma, del caos che cerca l’ordine, della speranza che cerca l’esperienza, dell’impossibile che cerca il possibile, semplicemente un messaggio in bottiglia che vive della speranza di un possibile dialogo differito nel tempo.
La vera poesia non ha bisogno di cercare forme nuove di espressione, altrimenti perde la consistenza pura che la realizza come canto.
Ben venga allora ancora l’endecasillabo, unico verso che riesce a creare ritmo e musicalità irripetibili.
Ilia Tufano – (La poesia che cambia)
1- un reading di poesia è per me quello che per altri, i cosiddetti melomani, un concerto. Penso questa frase mentre leggo la domanda che Giorgio Moio ci rivolge, ma, per rendermi conto almeno in parte di ciò che voglio dire, ebbene, devo pensarci almeno un poco. Cos’è per me poesia? Di certo non qualunque cosa si faccia con le parole. Mi piace che le parole suonino, ma in un modo speciale, come avviene quando le sillabe si sciolgono e poi si raggruppano secondo un ritmo mai sperimentato e con loro vibra, ondeggia anche il senso, che ai suoni si collega, in ogni lingua in un modo tutto suo. E la sintassi che schiera le parole, come ebbra, spezza le sue rigorose riquadrature, si muove come incantata dal suono.
Ma, sbaglio se dico che la poesia non è stata sempre questo incandescente crogiolo? Un tempo, anche se le parole sono ieri come oggi di natura instabile, anche se sono sempre state cariche di tensioni emotive, pronte a sfumare di significato, a contraddirsi, a passare dal singhiozzo al grido, dal sussurro all’invettiva, bene, però, un tempo la metrica serrava i ranghi. Le cadenze, sapientemente collocate, sempre in punti certi, costruivano volute e movimenti sempre su stessi ritornanti, le rime poi, ribadivano questo movimento circolare del verso, della strofa, della composizione, che si dava un tempo prestabilito, sia che fosse un sonetto, una canzone o addirittura un poema epico.
Oggi, come nella musica contemporanea, il ritmo non ritorna su se stesso, rifugge la prevedibilità così come la figurazione, almeno quella che è rigorosamente mimetica. Amiamo fratture, scomposizioni e persino rumori e questo non da adesso, almeno da un secolo. È brutale dire che tutto ciò corrisponde al mondo, alla società nella quale viviamo? E che la poesia esiste, come tutte le cose, poi, soltanto cambiando? Ed in futuro, quale vita avrà la poesia, se pure ne avrà?
Il futuro è per definizione ignoto, eppure non possiamo evitare di interrogarlo, come un tempo la Pizia, che rispondeva con frasi ambigue, addirittura contraddittorie o le lasciava comporre e scomporre dal vento, come la nostra Sibilla. Eppure il futuro lo costruiamo attraverso le scelte che facciamo oggi, che abbiamo fatto ieri. Almeno così crediamo e forse oggi il problema è proprio
2- qui quando si ci trova di fronte all’Intelligenza Artificiale ed agli sviluppi che promette.
Non è da oggi che le nostre forme della comunicazione sono cambiate a ritmo sempre più veloce, ed avviene, è stato detto e teorizzato, che mentre cambiano gli strumenti della comunicazione i contenuti, ciò che si vuole comunicare, cambia inevitabilmente. Tempi, modi, forme ma anche interessi, gusti dipendono dalle modalità della comunicazione, più di quanto non si voglia ammettere. Ed anche la società stessa dipende dagli strumenti che usa per produrre, per governarsi e per comunicare.
Se ho capito, poco so per esperienza diretta in questo settore, l’Intelligenza Artificiale impara e poi organizza ciò che ha appreso, seguendo gli schemi acquisiti ed è in grado di dipingere un quadro come avrebbero fatto Picasso o Raffaello. Per la verità dipinge come hanno fatto Picasso o Raffaello, non come avrebbero potuto fare se avessero vissuto in altre stagioni o soltanto se avessero vissuto venti anni ancora. Questo nessuno lo sa né lo può ipotizzare. Allo stesso modo può scrivere alla maniera di Ungaretti o di Moravia, inevitabilmente attenendosi a ciò che essi hanno scritto. Si tratta quindi di comporre il nuovo rimescolando il già visto. Può scrivere articoli, mettendo insieme notizie, magari secondo un punto di vista che le viene assegnato. Immagino la stessa cosa avvenga se le viene chiesto di scrivere una poesia.
Ma, il nuovo, non solo come ciò che ancora non si è visto, ma nuovo anche nel senso di ciò che è in grado di operare cambiamento nella società, così come nella vita del singolo individuo, nasce, credo, non confrontando testi, ma come elaborazione della sofferenza e del bisogno, quindi è frutto del corpo, individuale e collettivo, e di tutto ciò attraverso cui questo si esprime: la vita psichica, le emozioni, le parole. Ed infine la poesia.
Oggi la poesia vive faticosamente ed in povertà in un mondo in cui la pubblicità ed altre forme di comunicazione di massa svolgono il ruolo che le hanno sottratto, quello cioè di collante ideologico, di strumento di potere (pensiamo al ruolo della poesia al tempo di Omero, nelle corti del Rinascimento, fino a tempi più vicini a noi, quelli del poeta-vate). Inevitabilmente oggi la poesia è un residuo, una forma di resistenza. Però non è un ruolo da poco se riesce a rianimare una lingua sempre più stereotipata, sempre meno ricca, sempre più
3- piegata all’unica logica dell’utilità. È ancora la voce del disagio, della sofferenza, dell’immaginazione e dell’impegno gratuito, quando sa esserlo.
Oggi è inutile scrivere una poesia perché non è un curriculum, non è una reclame né un serial né un salotto televisivo e neppure un romanzo, di quelli scritti e corretti per essere premiati. La poesia sa ascoltare la voce dei morti, come dice un poeta e sa ascoltare il silenzio, cosa che è quasi impossibile nella nostra rumorosissima civiltà. Potrà continuare a svolgere questo ruolo nell’epoca dell’intelligenza artificiale? Vedo il rischio dell’appiattimento. Vedo il rischio che il modello di comunicazione e di creatività attraverso cui opera la macchina, cioè comporre il già detto in modi che lo facciano nuovo, diventi l’unico modello possibile in quanto l’unico desiderabile. Magari fuori resteranno gli urli, le trivialità, le lagrime, che non sono da comunicazione corretta, pardon, da Intelligenza Corretta, sono il residuo di quella cosa primitiva, superata che è il corpo. E conteranno niente. Il linguaggio della poesia, che è ancora per noi quello che sedimenta e talora fa rivivere secoli di creatività, che lavora a lungo per trovare l’espressione giusta, che esplora la parola come fosse un corpo amato od anche il proprio corpo, un’attitudine che si eredita e si impara con molto lavoro e molta sofferenza, avrà un futuro? Avrà ancora senso praticare questa poesia inevitabilmente difficile e scomoda? L’Intelligenza Artificiale non sarà al servizio di una società senza conflitti e proprio per questo senza libertà né vera creatività? Peggio ancora questa potrebbe non essere neppure una normalizzazione imposta ma il normale adeguarsi della poesia al modo di operare del prodigioso attrezzo, che imporrebbe senza ferire ma seducendo e sedando la sua Egemonia Culturale.
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1 Felice Piemontese, La normalità e la sfida, in «Uomini e Idee», Anno XVIII, n. 1, Napoli, aprile 1975, p. 26 e segg.
2 Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, IV ed., 1978, p. 65.
3 Vladimir Jankélévitch - Béatrice Berlowitz, Da qualche parte nell’incompiuto, Einaudi, 2014, p. 171.
4 I Quaderni del Bardo, 2023.
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Può anche o ancora dirsi “avversa” la società attuale? La domanda che potrebbe essere elusa poiché si potrebbe adattare ad ogni epoca relativamente alla “poesia”, oggi non lo è più “tanto”. Il tempo della comunicazione “veloce” non consente di intuire o riconoscere il “canone” poetico. Nel magma della società liquida, nella lividissima palude che è la “piattaforma” nel “popolo di informatissimi idioti” ( Ferrarotti) non si scorge orientamento, scuola, poetica, genere, e ancora di più “responsabilità semantica”. Mi sono dedicato una vita allo studio del nostro Novecento. Ora leggo quasi solamente classici. Ottimo tuttavia riparlarne.