1. D’autunno la città lo attende che tracimi di biondo, il Reno, proprio il Reno, lento macina la città annicchiata nella storia. Abbiamo portato passi curiosi sugli Urssprung ipocriti, così pronti a smottare, ora che è autunno e che anche qui (banalmente detto) cadono le foglie gialle nel parco e assediano Guglielmo Secondo sul cavallo di bronzo a fare l’inutile eroe di un freddo che sta per venire e che non è più che a Firenze o a Milano ma che per loro è “quaggiù”, perché l’inferno è sempre sotto come tra questi invisti muri alti che le parole non attraversano; migranti (così li chiamano adesso) come gli uccelli migratori, vengono e vanno, hanno anche amici deutsch, ma è tutto lì, nella probabile straprevedibile sera.
2. Nella suite, in agguato l’abbiamo trovata, nella suite royal, hotel Köln, ultimo piano, oltre la finestra esangue, algida, la cattedrale nera di nervosa pazienza, la signora infilzata nell’inguine della notte, nera sfiancata, di un destino a lungo covato. L’abbiamo sorpresa a guardia di una repressa luna tedesca, calante di un pieno mancante di spicchio, la superba, la frigida, cocciuta cattedrale nera ai cui piedi la città lecchina ricama un’ombra sbordata. Cosicché nel buio, del tutto sprofilati, infiliamo parole per toccarci (Albertusträsse, passeggiata nel pomeriggio preme recente e la gallerista parla spagnolo con gli Italiani), ora che la cattedrale ci sorveglia in agguato svelta ad avvelenare il tentativo di riposo, perché è un cuneo tossico nel non tempo di questa tedesca notte bastarda.
3. Il gomito di Franz per tutta la sera, rintanato nella manica nera di pelle nera, ha vibrato all’unisono col mio dirimpettaio. Come se niente fosse, ancorati allo sfioro, parlano come se niente. Il nostro tavolo naviga in fumo folto, ho la testa nel sauerbraten, la candita sulla purea di mele è rossa (ciliegia credo), ho voglia di stagnare col succo di mirtilli sul manzo stracotto. Le parole, non più di tante, vanno e tornano e vanno e dicono di un male che non passa per voce. Perché qui il sole è diverso e il cameriere sguscia veloce e beve ogni ultimo bicchiere nel kürbis e le parole ci tramano una rete esangue perché le voci vanno e vengono e non restano. Ce ne siamo andati a tarda, quando la furia da esilio era ormai sblenda e nel gomito a gomito il veleno era appaciato in vista di un assolo per placare la notte. A notte tarda ce ne siamo andati, con l’odore dell’amore tra uomini. Ce ne siamo. Tagliati nel fumo della birreria, tutti insieme come uccelli migratori. (da L. Gravina, M’attondo il giorno, 2001)
Biografia di Luciana Gravina
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