JOHN SUITER, Last post/L’ultimo comunicato

(traduzione dall’inglese di Alberto Rizzi)


Quando Ray Johnson si suicidò dal ponte di Sag Harbor, nella parte orientale di Long Island nel Gennaio 1995, era visto da 30 anni come “il più famoso tra gli artisti sconosciuti di New York”. Fu così chiamato la prima volta dal “New York Times” in occasione di una mostra di suoi lavori a Manhattan nel 1965. Per un altro, un tale articolo di una tale testata sarebbe stato il viatico per essere accolto tra gli artisti di moda; ma Johnson abbracciò il ruolo del “famoso sconosciuto”, con tutte le sue contraddizioni e lo mantenne abilmente per il resto della sua vita.

[…]

Egli viene considerato come un precursore del Post-moderno, per i suoi collage estremamente allusivi (che lui chiamò “moticos”); come l’inventore dell’Arte Postale (un genere artistico circolante grazie alla rete postale); come un pioniere della Pop Art (vedere i marchi da lui creati per Elvis e Lucky Strike a metà degli anni ’50); e come un importante maestro del “gesto a perdere”, in quegli eventi performativi che amava chiamare “nothings”, in opposizione agli “happenings”. E si sviluppò un interesse quasi a livello di culto attorno a Johnson, sia in rete che tra quanti aspiravano a entrare nei circuiti dell’Arte Postale, per l’attesa del suo “suicidio del Venerdì 13”: o “Raycidio”, come fu chiamato.

Anche i suoi amici e collaboratori più stretti concordano che Johnson pianificò la sua morte, la inscenò performativamente come il suo “nothing” finale; e che, a pensarci bene, questo suo progetto doveva datare da diverso tempo. La “leggenda” di Johnson, che nacque a Detroit nel 1927, risale a parecchio tempo prima: almeno dai tempi del “Black Mountain College” in North Carolina, culla dell’avanguardia post-bellica statunitense, dove Johnson arrivò nel 1945 e assorbì le influenze di Merce Cunningham, Jean Varda, Robert Motherwell, Willem de Kooning, Buckminster Fuller; e, in particolare, di Joseph Alberts, John Cage e dello scultore Richard Lippold, che poi divenne il suo amante e col quale visse in seguito a New York assieme a Cage e Cunningham.

Così che Bill Wilson, scrittore, collezionista e suo amico di lunga data, insiste: «Ray era già avviato verso il proprio suicidio, quando lo incontrai nel 1956». Johnson abitava all’epoca a Dover Street, ai piedi del Ponte di Brooklin, e ricorda anche di aver visto un suo vecchio disegno «con linee tratteggiate, che dalla spiaggia si dirigevano verso il ponte e poi verso l’acqua».

Durante il suo ultimo pomeriggio Ray guidò dalla sua casa a Locust Valley (Long Island) – dov’era vissuto per i precedenti 25 anni – fino al villaggio di Orient sulla lontana North Fork. Johnson aveva lasciato Manhattan per Long Island durante l’estate del ’68, dopo un traumatizzante periodo di 48 ore, durante il quale erano avvenuti: il ferimento dell’amico Andy Warhol da parte di Valerie Solanas; il venir rapinato sotto la minaccia di un coltello la stessa notte; e l’assassinio di Robert Kennedy la mattina successiva. Non tornò più in città, mentre da Locust Valley continuò a dirigere la sua sempre più vasta “New York Correspondence School”.

Johnson era stato un indaffarato corrispondente postale dai tempi delle Scuole Superiori, quando già allora iniziò a includere disegni e collage assieme alla parte scritta delle sue lettere. Quando la sua rete di amicizie crebbe fino a includere altri artisti – e alla fine chiunque fosse qualcuno sulla scena artistica newyorkese – iniziò a progettare percorsi precisi per tale corrispondenza. Dal 1968, quando la sua attività si materializzò nella sua “N.Y.C.S.”, tra le sue centinaia di corrispondenti c’erano Andy Warhol, Yoko Ono, James Rosenquist, John Cage e i de Kooning.

Alle 16 del giorno del suo suicidio, Johnson arrivò a Orient e chiamò il suo vecchio amico Bill Wilson: «Di’ a Toby che c’è un evento postale», gli disse. “Toby” era Toby Spiselman, l’amica più intima di Johnson e sua vecchia compagna di New York dalla metà degli anni ’50; per anni fu la “segretaria in carica” della Correspondence School. Johnson stesso le aveva parlato la notte prima e anche se non aveva fatto menzione del suicidio, lei sentì “che c’era qualcosa che non andava”. Soprattutto, Ray sembrava esser stato intento a esprimere i suoi profondi sentimenti per lei, in ciò che le sembravano essere parole di commiato: «Toby – le aveva detto prima di riagganciare – «Ricordati che sei stata amata».

Wilson, inoltre, ebbe la sensazione durante il colloquio telefonico, di parlare col suo amico per l’ultima volta. «Non fu un improvviso attacco di depressione» – disse Wilson poco dopo il suicidio di Johnson – «Ray pianificò la cosa con la cura di qualsiasi adulto razionale». Wilson è convinto che «almeno dall’anno prima del fatto… Ray Johnson intendeva morire un venerdì 13 all’età di 67 anni».

«Con Ray, non ti potevi sbagliare riguardo al fatto di immaginare qualcosa di troppo in ogni sua azione o oggetto artistico; perché aveva visto tutti i significati che uno poteva vedere, prima ancora che a quello balenassero in mente; e altri ancora», dice Frances Beatty, portavoce di Johnson e vicepresidente della “Galleria Richard Feigen” a New York. Per Beatty, che lo conosceva da quasi vent’anni, non fu solo quel pomeriggio a poter essere una performance di Johnson: «Ray performava sempre», dice.

Il villaggio di Orient presenta solo quindici strade, fiancheggiate da vecchi alberi e da case del XIX secolo; ed è l’ultimo e più orientale insediamento sulla North Fork di Long Island. Molto probabilmente Ray fu attratto lì per le fantasie che sarebbero state evocate per mezzo degli annulli postali da quel luogo. Come artista postale Ray alle volte andava in un particolare luogo solo per tale motivo: una volta guidò da New York fino in Pennsylvania, per spedire posta precisamente dall’ufficio di Intercourse.

Per coloro ai quali era familiare la metodologia di lavoro di Johnson, Orient ricordava ovviamente il suo interesse nei riguardi dello zen, del taoismo e di molti altri influssi asiatici nelle sue opere: i personaggi e i francobolli giapponesi nei collage; la “Buddha University” e la “Taoist Pop Art School” (due incarnazioni della “N.Y.C.S.”); il lato zen delle sue performance e dei suoi “nothings” e tutto il suo modo di pensare. Per quanti lo conoscevano bene, Orient porta alla mente vividi ricordi della “Orientalia Bookstore” a Manhattan, dove Ray ogni tanto lavorava allo scarico delle spedizioni di libri. Bill Wilson ricorda che «Per Ray, l’incartare e lo scartare libri non era soltanto un esercizio meditativo sulla precisione, ma anche un’inesauribile miniera di materiale per i collage».

Terminata la telefonata a Wilson e imbucati i lavori per Spiselman, Johnson lasciò Orient e guidò per otto chilometri verso Ovest fino a Greenport, dove prese un traghetto per Shelter Island, e camminò una decina di minuti per il porto; Shelter Island non è grande, in auto la si attraversa in una quindicina di minuti. Johnson la conosceva bene, avendoci passato due estati nel corso degli Anni ’80, assieme a Toby Spiselman e lavorando su una serie di ritratti.

Quando Ray raggiunse la striscia di terra di South Ferry erano circa le 17. In quel punto lo stretto tra Shelter Island e North Haven non è largo più di 500 metri. Mi è stato detto che in autunno si scorgono spesso le teste dei cervi affiorare nella corrente, quando grossi branchi nuotano nella bassa marea. Qui, sembra probabile, Ray vide il suo ultimo tramonto, come un fuoco d’artificio in rosso e arancio sullo specchio d’acqua di Shelter Island. Ci si chiede se Johnson avesse in mente la sua meta finale in quel momento. Aveva già deciso di buttarsi dal ponte di Sag Harbor, o era diretto ancora più a Sud? O se ne andava semplicemente attorno tra strade e traghetti, immerso nei propri ricordi e provando emozioni che rimarranno sconosciute?

Da North Haven guidò verso sud lungo la stretta e buia Route 114, attraverso i boschi invernali sempre più scuri, i fasci dei fari che illuminavano cervi che traversavano spavaldi la strada. Dopo pochi minuti poté vedere le luci della marina di Sag Harbor far capolino attraverso gli alberi; e la strada improvvisamente uscì dal bosco, arrivando sul breve ponte a doppia carreggiata che supera il braccio di mare tra North Haven e Sag Harbor: l’unico che avrebbe potuto raggiungere da lì in meno di due ore.

A Sag Harbor si registrò presso il “Baron’s Cove Inn”; i registri del motel mostrano che firmò alle 17:24; sotto “nome dell’impresa” scrisse “New York Correspondence School”. La stanza era pulita, illuminata e profumata: due letti, tre lampade, armadio, TV, una piccola tavola circolare, sedia, comò, un piccolo frigo con bicchieri ancora nel cellophane; le salviette ripiegate nel bagno, con il sapone e lo shampoo in un piccolo canestro di vimini. Vi rimase per novanta minuti. Non aveva bagaglio e non fece telefonate; affacciandosi alla porta, avrebbe visto la rossa luna invernale, quasi piena, spiccare pesante sull’orizzonte. Non lasciò nessun biglietto d’addio.

Poco prima delle 19 Johnson guidò dal motel al paese, il percorso di un minuto, e parcheggiò la sua vecchia Volkswagen di fronte all’emporio “7-Eleven”, a circa trenta metri dal ponte. Johnson lasciò l’auto, salì la rampa del marciapiede del ponte dal lato della cala e seguì la balaustra verso la metà della campata, dove l’arcata sale a circa sette metri dall’acqua. La marea stava crescendo sotto al ponte, riversandosi dalla baia verso Sag Harbor Cove. E poi? Tutto quello che sappiamo è che Johnson era solo. Si lasciò cadere dal bordo “come avrebbe buttato una busta nella cassetta delle lettere”, secondo Bill Wilson o come immagina un altro amico, David Bourdon, sarebbe saltato dalla balaustra come dal trampolino del suicida nella farsa di Renoir “Boudu salvato dall’annegamento”, ricordato come uno dei film preferiti di Johnson?

Ray era da solo sul ponte, ma sotto di esso due ragazzine stavano bighellonando e udirono il rumore del tuffo. Lo videro affiorare in superficie e l’osservarono nuotare verso il centro della cala; era assurdo, ma sembrava tutto a posto, perché non aveva invocato aiuto; stava nuotando sul dorso. Comunque corsero alla stazione di polizia, a due isolati di distanza, per raccontare ciò che avevano visto, ma l’ufficio era chiuso. Non riuscirono nemmeno a trovare un’auto di pattuglia e nessuno degli adulti che incontrarono per strada, sembrò dar peso a quello che dicevano. Alla fine andarono al cinema.

Inoltre, basandomi su quanto lessi riguardo alle metafore che Johnson vedeva nel “nuotare sul dorso verso il mare aperto”, mi sarei aspettato una vista più ampia. Ma Sag Harbor si trova protetto ai lati da due lingue di terra ed è a dieci chilometri di distanza dalla prima baia di dimensioni importanti. «È dubbio che un suicida si sia diretto verso l’oceano da lì», scrisse Robert Lowell, «ma chi può dirlo? Forse si stava dirigendo dall’altra parte della cala». E infatti, se anche Johnson avesse avuto dei dubbi una volta entrato in acqua, avrebbe potuto raggiungere facilmente l’altro lato di Sag Harbor: così che l’ultimo atto di Johnson, tanto seducente nella sua apparente nonchalance, fu tutto meno che casuale.

Chi si uccide con un colpo di pistola, muore in un attimo, dovendo solo mantenere quell’impulso suicida per l’istante in cui preme il grilletto; la morte per annegamento richiede tempo: anche nell’acqua a 4°C di Sag Harbor, nuotando tranquillamente sul dorso, Johnson avrebbe avuto almeno 15 minuti davanti (e forse persino un’ora) per pensarci su, prima che l’ipotermia avesse il sopravvento e lo portasse ad annegare.

Il suo corpo ondeggiò avanti e indietro (“cavalcò l’onda smisurata”, per citare un verso di Walt Whitman) il tempo di due alte e due basse maree durante quella notte di luna piena; e fu scoperto poco dopo il mezzodì nella piena luce del giorno seguente: galleggiava a faccia in su, i pugni chiusi e le braccia incrociate, come un Faraone, a una cinquantina di metri oltre l’imboccatura della cala di Sag Harbor.

Il caso di Ray Johnson non rientra in nessuna delle solite statistiche sui suicidi che io conosco. Non si conosce alcun tentativo del genere, in precedenza, da parte sua. Una crisi depressiva, indiziata principale nei suicidi di tanti pittori, poeti e compositori, non sembra esserne stata la causa e nemmeno era un malato terminale; non c’erano tracce di droghe o alcool nel sangue e un test per l’HIV diede esito negativo. Riguardo a possibili debiti, quando la polizia di Sag Harbor frugò il suo portamonete sulla spiaggia della cala, trovò sedici biglietti da cento dollari. Quell’ultima mattina Johnson aveva ritirato duemila dollari da un conto corrente bancario di centomila e inoltre aveva investimenti per altri quattrocentomila dollari.

Pare che questo denaro gli arrivò nell’ultimo scorcio della sua vita per eredità; ma come altri aspetti della sua vita, i particolari sono approssimativi. Tutto quello che si può dire è che visse in maniera davvero parsimoniosa, sia quando aveva denaro, sia quando non ne aveva. Vestiva con jeans e maglietta, guidava una Volkswagen vecchia di dieci anni e dormiva su un materasso ad aria, circondato da scatole di corrispondenza. Non aveva altro studio, se non quello della casa a Locust Valley; i materiali che usava per le sue opere, quasi tutti oggetti di scarto, gli costavano in pratica nulla. Il denaro non l’aveva cambiato e lui non lasciò alcuna disposizione testamentaria al riguardo: dopo la sua morte fu diviso tra dieci lontani parenti, che non l’avevano più visto da decenni.

Da dove provenisse il denaro, la maggior parte non ne derivò però dalla vendita di opere d’arte; Johnson vendette molto poco, mentre era in vita e quando vendeva, i suoi prezzi non si avvicinavano nemmeno a quelli dei suoi colleghi più ambiziosi. «Credo di aver venduto solo una mezza dozzina di opere per Ray durante i suoi ultimi otto anni di vita.» – dice Frances Beatty – «E più o meno uno dei suoi collage di piccolo formato poteva valere tremilacinquecento dollari; un lavoro grande – anche uno dei suoi migliori – probabilmente non andava oltre i diciottomila. Adesso siamo in una forbice compresa tra i cinquemila e i venticinquemila dollari».

«Il fatto è» – aggiunge – «che in vita non riuscivi a convincerlo a vendere nulla e così non c’erano le basi per quotare i suoi lavori. E perciò solo ora che i suoi lavori iniziano a vendersi bene a collezionisti e musei, il mercato per lui inizia a muoversi».

Il “ponte di Ray Johnson” ormai non esiste più: alcuni anni dopo il suo suicidio diede segni di cedimento, fu demolito e ricostruito. Una delle cose che mi colpiscono, guardando le foto del vecchio ponte di Sag Harbor, o passeggiando per la spiaggia dove fu trovato a galleggiare il corpo la mattina dopo, è la scala intima di quanto accaduto. Immaginavo il ponte ergersi con immense arcate, atte a rendere suggestivo il suicidio; ma Johnson era saltato da un banale ponte fuori mano, lungo meno di cento metri e alto appena sei dal pelo dell’acqua: troppo basso da superare anche per certe piccole imbarcazioni; e non abbastanza pericoloso da uccidere o anche solo stordire un uomo che vi si gettasse.

«Ray era molto ambiguo riguardo al mercato dell’arte.» – dice Richard Feigen – «Provammo per diciassette anni a metter su una sua mostra qui in galleria, ma lui non collaborò mai; non rendeva le cose semplici. Poteva piuttosto noleggiare un elicottero per sganciare una tonnellata di salsicce su Riker’s Island – e alla fine lo fece: l’elicottero lo pagai io – o montare una mostra in una galleria d’arte con assolutamente nulla dentro. Eravamo i suoi rappresentanti, ma non fu mai davvero “dentro” la “Feigen Gallery” nel senso preciso del termine. Era davvero un personaggio beat, stravagante e sfuggente. Ray sapeva rendersi impossibile; quando a metà degli anni Ottanta ebbe la possibilità di fare una mostra alla Guild Hall di East Hampton, disse al curatore: “Dovresti sentirti felice: renderò la tua vita un inferno”».

Al telefono Bill Wilson mi parla di uno dei “nothings” di Ray Johnson, uno strano omaggio a Walt Whitman che Johnson performò nell’ambiente con le casse automatiche di una banca di Long Island: prima Ray si riempì la bocca con un barattolo di burro d’arachidi Reeve’s e pezzi di cioccolato; poi iniziò a leggere da un libro di conversazioni con Whitman un paragrafo sulla corrispondenza: cioè “leggendo” a bocca chiusa, mentre contemporaneamente masticava e deglutiva cioccolato e burro d’arachidi. La performance fu registrata dal videomaker di Long Island Nick Maravell; Ray la chiamò “Smile”.

Più tardi individuai il libro dal quale Johnson aveva letto il brano, che diceva: «Non è che io sia un patito della corrispondenza, non lo sono mai stato; ho sempre scritto quando avevo qualcosa di preciso da dire, ma mai per il piacere di scrivere, o per quello di mantenere una corrispondenza. Una corrispondenza come quella tra Emerson e Carlyle sarebbe impossibile per me, anche se capisco che è una cosa giusta in se stessa e per loro: è una questione di gusti, di temperamento. Non credo di aver mai scritto una sola lettera “con intenti letterari”, né di aver discusso di libri o con letterati, scrittori, o artisti di qualsiasi genere nelle mie lettere: l’idea stessa mi disgusta. Mi piacciono le lettere che sono personali – molto personali – tutto qui».

«Il modo di leggere di Ray non fu neppure per un momento disgustoso.» – sostiene Wilson, che lo vide in un videotape – «Le parole erano incomprensibili, finché non si discernevano a poco a poco… È la dimostrazione che Ray vedeva, leggeva e sapeva molto di più di quello che poteva essere comunicato attraverso la sua arte, nella quale masticava idee e immagini, allo stesso modo in cui masticava quel burro d’arachidi. La performance conteneva un’apologia della sua arte e una teoria sulla conoscenza… Se lui sapeva più di quello che noi potevamo comprendere, solo mentre masticava qualcosa, cos’altro sapeva che noi non possiamo immaginare, dato che percepiamo solo per frammenti?»

Helen Harrison, una scrittrice di Sag Harbor, fu una delle prime persone a cui fu notificata la morte di Ray da parte della polizia, perché il suo era l’unico numero telefonico locale trovato nella sua agenda. Lei dubita fortemente che Ray stesse venendo a trovarla nella sera del suo suicidio: erano amici, ma non così intimi. Ci tiene a dire che se anche conosceva Ray da quindici anni, non lo conosceva davvero nel senso stretto del termine. Comunque, come si seppe poi, aveva parlato con lui solo qualche settimana prima. In quel periodo avevano fatto qualche pensiero di lavorare assieme, attorno a un’idea di Ray su un’opera attorno al teschio posseduto da Jackson Pollock.

Harrison è la direttrice del “Pollock-Krasner House and Study Center” – cioè la casa a Long Island dove Pollock viveva e il granaio trasformato in studio dove aveva creato le sue tele di quell’Espressionismo Astratto, conosciuto come “Action Painting” – a dieci miglia da Sag Harbor: «Jackson Pollock aveva questo vecchio teschio che teneva da qualche parte nello studio e Ray voleva farci uno di quelli che chiamava “shadow-portraits», racconta Harrison. Nei primi Anni Ottanta Johnson fece centinaia di questi “shadow-portraits”, includendo soggetti come Warhol, David Bowie, Edward Albee, Saul Steinberg; funzionavano così: il soggetto stava in piedi (mai seduto) di fianco contro una parete, sulla quale era stato attaccato col nastro adesivo un foglio di carta bianca. Ray accendeva una lampada a stelo in linea col soggetto, la cui luce al tungsteno creava un’ombra molto forte sul foglio; da dietro di essa Johnson aspettava il momento ideale, poi si lanciava in avanti, tracciando rapidamente con uno o due tratti il profilo della persona. «Rendeva la cosa piuttosto drammatica, comunque», conclude Harrison.

Johnson riempiva la silhouette che aveva creato con pezzi presi dalla sua enorme riserva di materiale per collage, prendendo questi ritagli a seconda dello stato d’animo e delle sensazioni che scattavano in quel momento: «Aveva scatole su scatole di roba di ogni genere, per riempire lo spazio creato da quel contorno», dice Harrison. «E così credo che questo fosse più o meno quello che voleva fare anche con Yorick», riprende, riportando il teschio su nello studio di Pollock. «Ma con Ray non si poteva mai dire: ha sempre lasciato che il caso giocasse il suo ruolo nel risultato; e poteva anche avere in mente qualcosa di completamente nuovo». Pollock aveva inserito il cranio in alcuni dei suoi primi lavori di un certo rilievo e poi l’aveva lasciato in giro per lo studio come una sorta di “memento mori”. E Harrison sostiene: «Certamente Ray avrebbe potuto essere in sintonia con queste associazioni».

Nel corso degli anni Johnson aveva realizzato poche opere con riferimento a Pollock, sempre in maniera ironica o satirica. Una era un ritratto del 1971 intitolato “Jackson Pollock”, che in effetti era la silhouette di Gertrude Stein (che Pollock adorava), una sottile interpretazione yin e yang sugli estremi dei ruoli di genere. Nel 1973, in un invio postale, Johnson fece un attacco ancora più diretto a Pollock e all’Action Painting, unendo una pubblicità di giornale per il supereroe giocattolo “Action Jackson” con il nome e altri dati di Pollock e lo scarabocchio di un cazzo gigante con la scritta “Questo scoiattolo ha le palle”.

Sviluppò l’avversione verso Pollock alla fine degli Anni ’40, quando arrivò a New York all’inizio della sua carriera e Pollock dominava la scena: non solo con le sue enormi tele e la fisicità del suo stile, ma con i suoi comportamenti stile Hemingway. La gente poteva essere affascinata da un artista che si comportava “da vero uomo”, che viveva alla grande e dipingeva quadri giganteschi; ma Johnson, ventunenne, gay, senza un soldo e che lavorava sul formato A4, no. Johnson riconosceva la grandezza di Pollock e lo chiamava “il Buddha pisciante” (che per lui era un complimento), ma come i giovani scrittori della Beat Generation volevano trovare una via per aggirare lo stile onnipervasivo di Hemingway, la generazione di artisti visivi cresciuta a cavallo tra gli Anni ’40 e ’50 lottava per liberarsi dall’influenza di quel sovradimensionato “Impressionismo Astratto”.

A quel tempo Johnson integrava il suo lavoro artistico con vari impieghi, incluso disegnare copertine per “New Directions”; il suo catalogo d’avanguardia era terreno fertile per Jackson, rendendolo in grado di lavorare creativamente con le immagini di icone letterarie come Rimbaud, William Carlos Williams, Djuna Barnes e Scott Fitzgerald. Ray disegnò molte copertine celebri per New Directions, incluse quella per “Nelle vene dell’America” di Williams e per “Illuminazioni” di Rimbaud.

Iniziò lavorando sui nomi e i volti delle celebrità con uno stile che anticipò il Pop di diversi anni: tagliando e mischiando nomi e parole (per es. RIM ART BAUD), unendo facce a marchi pubblicitari (James Joyce a “Lucky Strike”, James Dean e la “pipa di Magritte”). Dal viso androgino di Rimbaud a quello di Elvis Presley il passo era breve e Johnson iniziò a dipingerlo alla metà degli Anni ’50, scegliendo alcune foto sulle quali intervenne con acquarello rosso, aggiungendo poi quei segni enigmatici che chiamava “moticos”. Nel 1956, quando morì Pollock, un Ray Johnson allora ventinovenne avrebbe annunciato: «Sono l’unico pittore di New York, i cui “sgocciolamenti” non significano nulla»1.

Se ci potevano essere dei dubbi sul fatto che Ray avesse organizzato la sua morte come una pièce teatrale, questi svanivano entrando nella sua casa di Locust Valley il giorno dopo il suicidio. Per tutta la casa c’erano mucchi, pile, raggruppamenti e posizionamenti non casuali di oggetti, allusioni, messaggi, tutti imbevuti del personalissimo spirito di Johnson: “il poema visivo di Ray”, secondo Bill Wilson. L’effetto era quello di un elaborato messaggio sul proprio suicidio nel codice di Johnson, accentuato dal fatto che nessuno di quel suo pubblico finale aveva mai visto prima l’interno della sua casa.

Beatty ricorda che era come entrare nella caverna di Alì Babà, dove ogni cosa faceva parte di un puzzle tridimensionale. Era chiaro che si aspettava che noi fossimo lì, che si aspettava che tutto ciò fosse visto. C’era la sua collezione di cravatte, tra le quali ne spiccava una di Andy Warhol; una fila con le sue scarpe con una frase scritta metà su una scarpa, metà sull’altra; tutte le ciglia finte che usava nei collage erano perfettamente allineate sul suo tavolo da lavoro. In ogni stanza c’era qualcosa. Una delle esperienze più forti era entrare in una piccola stanza piena di opere incorniciate, tutte rivolte verso la parete, eccetto un grande ritratto della testa di Ray – dipinto da Chuck Close – che ti fissava.

«Era bizzarro, ma non sorprendente, che si fosse impegnato così tanto a pensare al modo in cui la casa avrebbe dovuto essere trovata. D’altro canto, ero arrivata al punto in cui non ero sicura se stavo davvero guardando una performance, o un esempio della tipica ossessione per l’ordine di Ray; di sicuro certe cose erano state posizionate in quel modo appena prima del suicidio; altre sembravano messe così da anni. C’era quest’accumulo di materiali, come strati archeologici, e dopo un po’ era impossibile dire dove un livello finisse e ne cominciasse un altro. Nello scantinato tutti i suoi attrezzi, gli scaffali e dei carrettini erano sistemati alla perfezione, ma c’erano anche pile di valige in cuoio alla Duchamp»2. Ne veniva da ridere.

Bisognava portar tutto via, perché i suoi eredi dovevano vendere la casa. Non volevo che quel lavoro venisse smantellato e nemmeno lo voleva Richard (Feigen): avrebbe dovuto esser lasciato tutto così, una sorta di museo di Johnson; ma dopo qualche settimana smontammo tutto. Però avevamo disegnato una griglia, per mostrare la posizione di ogni cosa e catalogato ogni oggetto in ogni scatola, registrato in video tutte le pareti di ogni stanza.

Il vecchio faro di Montauk, sull’ultimo promontorio dell’isola, è a circa venti minuti d’auto dalla casa di Pollock. Non è il posto per una deviazione dal tragitto verso un altro luogo: costruito com’è proprio in fondo alla lingua di terra di South Fork, può solo essere una meta, cioè “l’ultimo posto”, o “il luogo dove fermarsi”. Con le sue scogliere frastagliate e la sabbia rossastra che costantemente si alterna alle onde grigioverde del mare, Montauk Point dà molto di più che la sensazione di essere “la fine dell’isola”: in una brutta giornata come questa, col fascio di luce che fende la nebbia già alle 14 e la sirena che risuona nel vuoto, sembra piuttosto il termine ultimo dell’intero mondo popolato.

Ray non arrivò così a sud in quel suo ultimo venerdì, ma ricordo che negli Anni ’70 e ’80, Warhol aveva una casa non lontano da lì, fuori dal villaggio di Montauk, che Johnson deve aver per certo visitato in qualche occasione. Di sicuro Ray, sempre attratto dalle coste frastagliate, avrebbe scoperto questo luogo. Ma soprattutto penso ancora a Whitman, che venne qui molte volte e che fu ispirato da Montauk per alcune delle sue più oscure e ragguardevoli poesie; era questo che intendeva come oceano? «La vecchia megera sussurra a bassa voce la deliziosa parola morte»3. Ma Walt, che spesso si immaginò morto per annegamento, avrebbe compreso Johnson, per questa comunione d’animo con Ray, ne sono certo; e specialmente in quel suo ultimo pomeriggio.

«Anch’io, Paumanok / anch’io affiorai e cavalcai l’onda sconfinata / anch’io fui gettato sulla tua spiaggia, / anch’io, una scia di frammenti e detriti, / anch’io lasciai i miei relitti su di te, / sulla tua sagoma di pesce, oh isola»4.

Penso a Ray, che mastica burro d’arachidi e cioccolata, mentre legge i pensieri di Whitman sulla corrispondenza di fronte alla cassa automatica di quella banca dall’altra parte dell’isola, e sorrido. Me l’immagino impegnato a masticare a bocca chiusa, lasciando cadere una parola qui e una là, le sue frasi che a mano a mano diventavano sempre più intellegibili: «Mi piacciono le lettere che sono personali – molto personali – tutto qui».

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1 Lo sgocciolamento casuale del colore su tela (“drips”, o “dripping”), inventato da Jackson Pollock, era uno dei punti salienti della sua tecnica pittorica.
2 Allusione all’opera Scatola dentro una valigia di Duchamp.
3 L’autore dell’articolo non specifica da quale testo di W. Whitman sia tratta questa frase, o verso.
4 Traduzione di Rizzi. Nemmeno in questo caso l’autore dell’articolo ha specificato il titolo originale della poesia in questione.
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