CARMEN MOSCARIELLO, Il profetico senso della vita nella poesia di Amelia Rosselli

Nell’ampio verso e nei ritmi dell’endecasillabo si muove il visionario e profetico senso della vita di Amelia Rosselli. Una polifonia, un ampio doloroso respiro sul suo destino segnato, ancor prima che nascesse, poiché legato a una famiglia, quella dei Rosselli, che fa parte di diritto della storia liberale e democratica del nostro Paese. Sappiamo che prese parte a tutti e quattro gli incontri del Gruppo 63 e di averli trovati alquanto ripetitivi, non congeniali al suo modo di intendere la poesia. È assente quel tecnicismo dal mondo visionario e per certi aspetti violento che riguarda la Rosselli: improvvisi versi esplosivi, una volontà di potenza e di orrore.

Non appartiene alla Rosselli la fragilità della quale molti critici parlano (il suo destino è pervaso, piuttosto, dalla lotta contro la fragilità); il suo percorso vitae è molto più complesso, le profezie dolorose vissute dai suoi versi rendono la sua vita e la sua scrittura una intricata analisi anche di molti aspetti della storia del Novecento. A una lettura superficiale di molte sue opere si può dire che il suo linguaggio è ermetico, incomprensibile, un trobar clus: per certi aspetti la sua scrittura fa pensare a una trobairitz, sprezzante, ironica, aspra, suscettibile, oscura; a una erede della lingua d’oc, ma la sua linea di studi è molto più complessa. Per comprenderla davvero bisogna abbandonare la linea del lapsus, niente nella vita e nella scrittura della Rosselli è involontario, anche l’involontario trova una categoria di ordine strutturale ben studiato e architettato:

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tua cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.

(da Variazioni belliche, Garzanti, 1963)

Studiosa di molte letterature, eccellente traduttrice di molti poeti inglesi e francesi, appassionata di teatro, lettrice di Faulkner, Bergson, di Pascal, scriveva e parlava il francese (la lingua della sua infanzia), l’inglese (la lingua di sua madre e anche la sua per aver soggiornato lungamente in Inghilterra e in America) e infine l’italiano, la lingua di suo padre e di sua nonna Amelia Rosselli, donna colta e raffinata letterata e a sua volta scrittrice. Amelia scelse l’italiano per la sua poesia, ma diede a questa lingua un vigore quasi sconosciuto, una timbrica a volte inebriata e inebriante. Non fu semplicemente innovativa, ma sperimentò per suo conto una lingua tria corda che potesse esprimere la complessità del suo sentire primordiale. Il suo verso tessuto dalle assonanze, da strumentali afasie, da gorgoglii, dagli studi musicali (pianoforte e violino) che avevano occupato trent’anni della sua vita, determinano una novità, un rifugio in strutture antropologiche che adattano il verso al suo sentire; dedica ad esso molta cura, ma rimane il fluido sgorgante, impetuoso, sincero, originale. Spesso i versi si presentano come un contorcersi di suoni o grida che lacerano.

Con Rocco Scotellaro

Amelia Rosselli è una grande poeta antiermetico, autrice che ha scelto una sperimentazione inesausta, del tutto originale e autonoma, frutto di un acceso e appassionato immaginario, di ampi studi letterari e musicali, di scavo psicoanalitico, di una razionalità coniugata all’irrazionale “urgente” e proliferante. La libellula assetata di luce, rimette insieme gli innumerevoli frammenti esistenziali per creare una poetica di prim’ordine, si inerpica la parola in gole senza ossigeno, nel dérèglement avaro e ironico. Il verso volge in anamnesi dell’assurdo, insofferente, primitivo, sgrammaticato, turbolento. Amelia Rosselli è un caso unico nella poesia italiana. Carlo Rosselli, Rocco Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Niccolò Gallo, Dino Campana, Antonio Porta sono nomi che entrano a far parte di diritto nella vita di Amelia Rosselli. Vivente leggenda di incarnazione della poesia come incontenibile forza oracolare:

C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.
C’è come un rosso nell’albero, ma è
l’arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch’essi pesano.
Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d’un destino
di uomini separati per obliquo rumore.

(da Documento, Garzanti, 1976)

Nata nel 1930 a Parigi dove la famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni politiche del fascismo, dovette ben presto (immediatamente dopo l’assassinio del padre) lasciare questa città per trovare rifugio prima in Inghilterra e poi in America (1940); qui per sopravvivere svolse anche lavori molto umili. Un episodio importante della sua vita è l’incontro con Rocco Scotellaro, lo conobbe a Venezia nel 1950, durante un congresso partigiano. Il fatto è raccontato in Diario oscuro, pubblicato dalla rivista «Braci». La poetessa lo ricorda ancora in un’intervista rilasciata a Giacinto Spagnoletti; dice: «Quando conobbi Rocco, avevo vent’anni e lui morì tre anni dopo. La nostra fu un’amicizia intensa, molto ricca e naturale, priva di forzature. Mi invitò al suo paese in Lucania, dove stetti una settimana sua ospite e conobbi sua madre». A Pasolini deve la presentazione della sua poesia al grande pubblico e al poeta deve anche un’attenta analisi critica della sua poesia, che si incentra sul concetto di lapsus, all’uso speciale che la Rosselli fa della parola poetica e del singolare ruolo di consonanti e vocali. Pasolini disse che il lapsus ora finto, ora vero rappresentava una profonda liberazione. Il lapsus consente alla buonora, di liberarsi del peso istituzionale – gravante su tutta la lunghezza dell’anima – e, nel tempo stesso, di rispettarlo. Non c’è molto in forma di lapsus che sia tanto cinico, feroce, ironico, sprezzante che non includa un sostanziale rispetto per la lingua e la istituzione d’uso. E, se mai ve ne fu, la tipica negatività che afferma.

Il fondo del libro della Rosselli – sono riuscito a dirlo, malgrado il suo totale rifiuto, la sua pazzesca coerenza che lo salda da tutte le parti come un molle fortilizio – è la grande cultura liberale europea del Novecento. E lo è con uno splendore del tutto eccezionale. Direi che non mi sono mai imbattuta, in questi anni, in un prodotto del genere, così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo. Per la poetessa la sua particolarissima grammatica poetica consiste nelle varie possibili formulazioni metriche, mai abbastanza rigorose, da potersi considerare come sistemi filosofici scientifici e storicamente necessari, inevitabili. La poetessa-musicista risente del pentagramma musicale, creando una tecnica che studiata nei particolari s’insedia di prepotenza in tutta la sua opera con vitalità e vigore, a volte con irrazionale casuale violenza, dando vita ad una poesia assolutamente vera e ispirata. Il Mito dell’Irrazionalità (mettiamoci le maiuscole) ha, con le poesie di Amelia Rosselli, negli anni sessanta, il suo prodotto migliore: lussureggiante oasi fiorita con la stupefacente e, casuale violenza del dato di fatto, ai margini del dominio. E il revival avanguardistico – così tetro presso gli eterni apprendisti di Milano e Torino – ha trovato in questa specie di apolide dalle grandi tradizioni famigliari di Cosmpopulis, un terreno dove esplodere con la funesta e meravigliosa fecondità dei funghi atomici, nell’atto in cui divengono forme. Oltre i limiti del risguardo non vado. E aggiungo che il tema dei lapsus è un piccolo tema secondario e irrisorio, rispetto ai grandi temi delle Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie: è solo un filo che ho seguito per poter produrre qualche effato su questo splendido testo. I suoi particolari usi sintattici, le sgrammaticature, il lapsus di cui diceva Pasolini, il verso chiuso, la forma cupa, l’apolide li chiarisce nello scritto Spazi metrici (1962). Nel dérèglement sono incorporati una consapevole follia, molte nevrosi vissute, analizzate e catalogate.

Bisogna con Pasolini, considerare che nella scrittura incise la malattia nervosa, l’assillato studio dell’inconscio, con approfondimenti che si riferivano non solo a Freud; la struttura poetica è data anche dalle molteplici sonorità delle numerose lingue che lei parlava, come pure lo studio della musica (violino e pianoforte), che occuparono gran parte della sua fanciullezza e giovinezza. Ella stessa dice: ha significato per me ritrovare – pur basandomi sulla formulazione metrica definita nel 1958 – il coraggio e forse anche il misticismo di quegli anni adolescenziali: razionalizzandoli fino alle ultime conseguenze. Spesso i risultati sono violenti, i contenuti sono dei veri e propri gridi raggiungendo un equilibrio tra la forma del tutto controllata e contenuto indotto o dedotto, mai automaticamente, ma con grande incidenza dell’inconscio o per provocazione soltanto letteraria, sia nell’insieme raggiunto. In questa poetica, seppur unica e originalissima, potrebbero leggersi lontani echi di Rimbaud, Mallarmé, Kafka, Pound e Montale. La donna e la poetessa convivono nel senso profondo e misterico. L’ironia, l’inconscio, la verità, la provocazione, la visionarietà e la scrittura di un verso molto tecnico creano una poesia senza argini, travolgente e giovane, violenta e amara.


Biografia di Carmen Moscariello


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