GIOVANNI CARDONE, La Napoli del Primo Novecento

Molto è stato scritto e, soprattutto, molto è stato prodotto nel corso in ambito napoletano e, più generalmente meridionale, nel campo della ricerca artistica. Molti sono stati premiati dal successo e la loro opera è riconosciuta con grande meritata considerazione. Certamente è difficile dare una giudizio sulla visione stilistica e di stili che diedero un indirizzo fondamentale per l’arte tardo ottocentesca dove le personalità come Pitloo e Giacinto Gigante, pur nelle differenze furono i maggiori esponenti del tempo. Questo concepire l’arte ci permette di capire tutti i fenomeni che sono venuti dopo in particolar modo nel Primo e nel Secondo Novecento a Napoli . Nel 1900 a Napoli ha luogo una grande mostra, l’Esposizione d’Igiene che doveva rilanciare l’immagine della città partenopea offuscata dall’epidemia di colera scoppiata nel 1884. La mostra avrà fra gli architetti nomi importanti del Liberty italiano come Giovan Battista Comencini. L’epidemia di colera aveva fatto scattare un Piano di Risanamento e Ampliamento della città di Napoli che fu l’occasione per avviare un programma di ammodernamento della città. Il piano, tuttavia non fu esente da ingerenze speculative e non fu realizzato in tutte le sue parti nei tempi previsti. Di qui l’esigenza di un nuovo piano urbanistico nel 1914 a firma di Francesco De Simone, dopo che, per effetto della legge sul “Risorgimento economico della città di Napoli”, era stato sancito lo sviluppo del polo industriale di Napoli a oriente, mentre dal 1907 l’apertura dell’Italsider a Bagnoli inaugurava un polo industriale anche a occidente.

Filippo Palizzi

La legge del 1904 aveva attirato capitali stranieri, e il censimento del 1911 registrava la lenta ripresa di Napoli. Fra il 1880 e il 1915 Napoli vive una breve dorata stagione all’insegna della belle époque, dove si registra la compresenza e talvolta il conflitto fra umori antichi, da ancient regime, e spinte moderne, nostalgie aristocratiche e rivendicazioni modernistiche. L’inizio del XX sec per molte scuole italiane, si connota per la compresenza di due tendenze: la persistenza di una forte tradizione ottocentesca e il tentativo di uscire dai condizionamenti della storia per cercare strade sperimentali più impervie. Il filone più tradizionale è rappresentato a Napoli dai seguaci di Palizzi e Morelli. Il naturalismo rimane per la maggior parte dei giovani artisti di inizio secolo. Caputo ci ha lasciato una testimonianza precisa di questa loro esperienza, e ancora, in alcuni appunti frammentari ci informa del sodalizio con gli altri compagni di avventura: Scoppetta, De Lisio o Balestrieri. Nel 1900 all’Esposizione Universale fu premiato fra gli altri il quadro di Lionello Balestrieri, Beethoven2, cui a lungo è rimasta legata la fama del pittore. Il dipinto, di forte impronta romantica ebbe all’epoca un successo clamoroso. Le ragioni di questo successo sono da ricercare più che nella qualità pittorica dell’opera, che non si discostava dalle convenzioni tardo-ottocentesche, soprattutto nel soggetto, che riguardava un gruppo di bohemiens riuniti nello studio di un pittore e intenti ad ascoltare uno di loro che suonava Beethoven al pianoforte. A garantire il successo era il ricordo del romanzo di Murger Vie de boheme. Balestrieri anche in seguito continuerà con i suoi soggetti a sfondo letterario secondo le indicazioni di Morelli per approdare a una svolta decisiva solo negli anni 1920, quando per un breve periodo aderirà al Futurismo.


Il legame con il grande autorevole patriarca dell’arte napoletana ci viene testimoniato anche dal dipinto Gli ultimi giorni di Domenico Morelli che riprende lo schema compositivo, con la disposizione dei personaggi in controluce rispetto alla finestra dello sfondo, della seconda redazione del Tasso e Isabella d’Este che aveva sancito il successo del Morelli. Il contatto con la vita parigina indusse i nostri artisti a rinnovare il loro repertorio con scene urbane e, soprattutto, Scoppetta, con figure femminili animate da uno spirito indipendente che traspare dall’aria fra maliziosa e sbarazzina con cui sono ritratte nuove icone di una società moderna che si sta evolvendo rapidamente e sta dando inizio alla loro emancipazione Figura di donna e Ritratto di signora con paravento. Napoli all’inizio del nuovo secolo non ha più la centralità che aveva rispetto al meridione. Tuttavia, ha ancora mantenuto un certo potere di attrazione dei giovani artisti del Sud, grazie all’Accademia di Belle Arti. Una precoce indipendenza sarà rivendicata dall’area del salernitano compresa la costiera. Quest’area ha dato i natali a diversi artisti interessanti, molti dei quali una volta completata la formazione accademica a Napoli, sono tornati al loro territorio di origine. Fra questi, Mario e Pasquale Avallone, Antonio Ferrigno, Luca Albino, Biagio Mercadante. Spiccano Pasquale Avallone e Biagio Mercadante per le loro ricerche sulla luce e sui riflessi.


La produzione giovanile di Avallone fu influenzata da Gaetano Esposito e da Stanislao Lista. Il viaggio di istruzione in Italia con visita alla Biennale di Venezia, vinto a conclusione del suo percorso accademico lo mise in contatto con gli umori simbolisti appena venati di qualche inflessione liberty. Le numerose opere sono improntate a quei modelli secondo una formula che mescolava realismo e simbolismo. Nel 1917 viene premiato alla mostra della Promotrice “Salvator Rosa” di Napoli per il trittico Le madri: il dolore per le tante vittime della prima guerra viene rappresentato da Avallone dalla coralità da tragedia greca delle due scene laterali, mentre nel pannello centrale spiccano i giovani nudi offerti alla patria come vittime sacrificali.


A Napoli la lezione impressionista con i suoi colori puri e la pratica della pittura en plein air poteva essere ripresa dai vari Curcio, Viti, Villani, De Corsi, Scognamiglio e così via, dando un fondamento più rigoroso alla famosa tradizionale tavolozza brillante della pittura napoletana. Un’esposizione nel 1909 rappresentò una novità creando allarme negli ambienti accademici ma suscitando stupore e simpatia fra gli intellettuali napoletani. Le novità maggiori comparvero nel settore delle “mezze figure dove emersero Viti, Galante, De Nicola e soprattutto Curcio con quattro mezze figure fra cui Coquetterie e Lydia. L’occasione di un viaggio a Roma era poi offerta spesso dalla mostra annuale della Società Amatori e Cultori di Belle Arti. In queste mostre che ospitavano spesso artisti stranieri, trovarono spazio diversi napoletani. Un richiamo molto forte rappresentò l’Esposizione Universale del 1911, indetta a Roma per il cinquantenario dell’unità d’Italia. Da tutte queste mostre erano escluse le frange più rivoluzionarie delle avanguardie, mentre vi rientravano gli epigoni del Realismo, dell’Impressionismo, del Postimpressionismo insieme alle tendenze tardo-simboliste, liberty e secessioniste. I futuristi si interruppero; anche a Napoli i secessionisti stabilirono una “distanza” dalle novità dei futuristi. Si delineava così una politica di opposizione moderata equidistante dalla tradizione accademica e dal radicalismo futurista, che si limitava a propugnare una revisione dei linguaggi, senza sfiorare le ideologie e la politica. Fra gli artisti napoletani che si distinsero c’era senza dubbio Pansini che dimostrava di aver assimilato la lezione di Hodler e Moser: insieme a quella di Renoir per quanto riguarda la stesura a macchie del colore.


Pansini insieme a Manfredi Franco e a Gennaro Villani figura, oltre che nella sala campana, anche in quella degli italiani di Parigi. Villani, nella sala campana esponeva il dipinto Autunno in villa che dalla fotografia pubblicata nel catalogo d’epoca lascia intuire tonalità sobrie e una vena malinconica. Nella II Esposizione del C.N.A.G. , l’aerea veneta aveva ben tre sale (Trieste, Verona e Venezia) e la sede prescelta fu l’Istituto di Belle Arti. Si registrava una prevalenza di napoletani. Fra i napoletani si distinsero Curcio con dipinti senza titolo, contrassegnati solo da numeri, ad attestare l’importanza della ricerca pittorica, più del soggetto; Ricchizzi espose un dipinto dai significati piuttosto ambigui, Il tricolore e un ritratto Lo scultore Saverio Gatto. Cominciava poi ad emergere la figura del giovane Viti con Settecento e un Ritratto. Una cronaca di questo apparsa su «Vela Latina» ci informa su alcune presenze di rilievo: oltre a varie signore, si citano Ferdinando Lo Russo, il barone Chiarandà, Libero Bovio, poeti fra cui Achille Macchia e soprattutto i pittori Ricchizzi, De Gregorio, De Luca, Villani, Curcio, Viti, Terracina, De Nicola, Ciletti e altri. Il clou fu costituito dall’intervento di Boccioni che trattò della evoluzione delle arti plastiche universali, ne apprezzò il tentativo di rinnovamento e anche il coraggio di voler dialogare con i futuristi, ma li accusò di essere troppo avanguardisti e di aver fatto un’esposizione troppo elegante. Era da questi temi che sarebbe scaturito il famoso Manifesto futurista ai pittori meridionali pubblicato su «Vela Latina».


Con la guerra l’attività culturale rallentò, ma non cessò del tutto. Finita la guerra, gli artisti desiderosi di incontrarsi e riprendere un’attività espositiva di un certo livello cominciarono a riunirsi al caffè Gambrinus. Diedero vita a un’associazione autofinanziata allo scopo di promuovere tutte le azioni possibili per arrivare a ottenere un Palazzo delle Belle Arti. Nel 1920 si organizzò nella Galleria Principe di Napoli una esposizione giovanile. Nel 1920-21 aveva avuto luogo la cosiddetta “Mostra dei grigio-verdi”, con l’intento di celebrare il patriottismo degli ex combattenti e offrire loro l’opportunità di ricominciare: si registravano tendenze tardo impressioniste o naturalistiche, accanto a testimonianze liberty e secessioniste. Veniva emergendo una nuova generazione di giovani: Luigi Crisconio, Raffaele Limauro, Nicola Fabricatore, che diventerà uno dei protagonisti del “ritorno all’ordine”, e poi ancora lo scultore Antonio De Val, Franco Girosi, Enrico Siniscalco. Nel 1919 era stata fondata la Compagnia degli Illusi, una libera associazione a carattere letterario, a opera del poeta e avvocato Mario Venditti. Aveva sede al rione Amedeo in quella che era stata la Sala Nobile e aveva spiccati interessi anche nel settore artistico e musicale. Nel 1935 dovette mutare il nome in Compagnia degli Artisti (in quanto l’altro era troppo disfattista). Fu nella sede della Compagnia degli illusi che nacque il progetto della prima Biennale napoletana, a opera di Guardascione, Panisini e La Bella. Nella Biennale napoletana la tradizione aveva un peso ancora schiacciante. Qualche critico era consapevole della complessiva arretratezza della situazione napoletana. Michele Biancale nei giovani cercava le radici, il legame con la tradizione, e nell’arte di una regione pretendeva di individuare il genius loci, col risultato di valutare con entusiasmo un pittore garbato, ma nulla di più, come Ezechiele Guardascione e di guardare con qualche sospetto a Galante giudicando il suo tipo di pittura esteriore. La Biennale napoletana, ospitata a Palazzo Reale, si concluse con un bilancio in attivo che consentì al Comune di acquistare un nucleo di opere ai fini di una costituenda Galleria Civica d’Arte Moderna.


Per un paio di anni i rapporti con Roma, che si erano stretti dai tempi delle Secessioni, continuarono attraverso la rivista «La Fiamma», che in occasione della Biennale napoletana le aveva dedicato un intero numero. La rivista si fece promotrice di due mostre Primaverili, la prima a Roma nel 1922 e la seconda a Napoli nel 1923, ospitata da Eugenio Corona. La galleria Corona è una delle poche istituzioni mercantili private che incontriamo in questi anni accanto alla galleria Canessa, a Giosi, alla Bottega d’Arte e alla Bottega di Decorazione. Napoli era per i futuristi una tappa fondamentale; fu scelta da Marinetti come quarta sede, dopo Trieste, Milano e Torino, per una storica serata tenuta al Mercadante il 20 aprile 1910. Vi parteciparono i poeti Marinetti, Palazzeschi, Altomare e Mazza e i pittori Boccioni, Carrà e Russolo.

Francesco Cangiullo

Nell’ambiente napoletano chi aderì precocemente al futurismo fu proprio Francesco Cangiullo che riuscì a coniugare tradizione napoletana e avanguardia futurista. La sua ricerca proponeva un equilibrio difficile e personale fra la napoletanità e l’avanguardia. Anche prima di aderire al futurismo, Cangiullo, figlio dell’ebanista Gennaro, era stato un outsider, uno spirito libero, sostanzialmente autodidatta, formatosi al di fuori di tutti i cenacoli artistici e letterari. Entrato in contatto con Marinetti, fece parte presto della direzione del movimento futurista, stabilendo saldi legami con Boccioni, con Balla, e anche con Palazzeschi, Papini ecc… Intanto dopo aver aperto una galleria a Roma nel febbraio 1914, Giuseppe Sprovieri aprì nel maggio successivo un’altra sede a Napoli nel palazzo Spinelli, in via dei Mille. Cominciò così la conquista del pubblico napoletano attraverso un’intensa attività di mostre e conferenze cui collaborò anche Cangiullo. La prima esposizione di pittura futurista presentava ventinove opere, tutti dipinti che a Napoli si vedevano per la prima volta. L’attività della galleria cessò per il sopraggiungere della guerra. Il rapporto fra Napoli e il Futurismo si interruppe così sul nascere e la cultura futurista non ebbe il tempo di penetrare in quella napoletana. Eppure non erano mancati momenti di agganci significativi. Citiamo la collaborazione di Cangiullo al «Corriere di Napoli» dove poterono confluire vari scritti e documenti del Futurismo. Anche una rivista come «La Tavola Rotonda», si era interessata al Futurismo e ne aveva seguito gli sviluppi con recensioni, resoconti e talvolta riproduzioni di qualche manifesto. «La Diana» di Gherardo Marone, che negli anni della guerra è stata una sede importante, che ha ospitato poeti futuristi, oltre ad aver avuto il merito della scoperta di Ungaretti. L’interesse per i futuristi di Ferdinando Russo e della sua rivista «Vela Latina» non fu immediato; è infatti solo nell’estate del 1915 che Ferdinando Russo propose a Cangiullo di collaborare e di procurare scritti di altri futuristi. Molti accettarono e cominciarono così d arrivare dal fronte a «Vela Latina» poesie, manifesti, sintesi teatrali di Marinetti, Cangiullo, Carrà e così via.


Fondata l’11 dicembre 1913 «Vela Latina» dura fino al 15 dicembre 1918. Dopodichè l’incalzare degli avvenimenti bellici, la difficoltà di procurarsi la carta e le generali condizioni di disagio provocheranno l’inevitabile chiusura della rivista. Attraverso «Lacerba» fra il 1913 e il ’14 Cangiullo pubblica vari interventi, influenzato dalle teorie dei manifesti di Boccioni, applica alla pagina comporta tipograficamente la tecnica compositiva futurista fondata sulle linee-forza. La sua capacità innovativa che gli faceva firmare nel 1921 il “Manifesto del Teatro della Sorpresa” con Marinetti e le sperimentazioni di poesia sonora con Poesia programmata, doveva fare i conti con una regia di Marinetti discriminatoria e accentratrice, fino al punto che Cangiullo fu indotto a uscire dal movimento nel 1924. Nel futurismo non si riconosceva più. Negli anni successivi preferì rifugiarsi nel limbo della pittura napoletana tradizionale. Rimasto sempre in contatto con i pittori napoletani, lo ritroviamo spesso fra i presentatori di mostre e i prefatori di piccoli cataloghi di autori. Mentre Napoli entrava in stretto contatto col Futurismo, anche Firenze si accostava a questo movimento grazie a Primo Conti, a Soffici e a riviste come «La Voce», «Lacerba», «L’Italia futurista».


A Firenze era arrivato anche Emilio Notte, un artista che avrà molta importanza per Napoli. In questi anni giovanili Notte era attirato da due grandi maestri del secondo ’800: Courbet e Cézanne. Dal primo ricavava lo stimolo a trasformare il dipinto nell’occasione per una denuncia della miseria e del degrado di un’umanità di emarginati Il soldo, dal secondo una vocazione costruttiva della forma così potente da non essere nemmeno ammessa all’adesione al Futurismo. Tale adesione, che sarebbe culminata nella redazione, insieme a Venna, del manifesto “Fondamento lineare geometrico”, pubblicato su «L’Italia futurista» si è tradotta nell’adozione di formule sintetiche, più che analitiche, dove il concetto di movimento si applicava solo alla superficie delle cose, senza intaccare la presenza solida dell’oggetto, che diventava “oggetto-ambiente” Ragazza su prato. D’altro canto Notte traeva i suoi soggetti dalla realtà rurale o da quella della periferia urbana più emarginata, Vento e lavandaie, La carrozzella, Il burattinaio, piuttosto che dalle tematiche del progresso della macchina.

Il sopraggiungere della guerra creò una frattura. Alla fine degli anni ’20 si verifica quanto meno un cambio di scena: da una parte si rilevano le prime avvisaglie di un “ritorno all’ordine”, dall’altra si verifica una ripresa delle ricerche futuriste, ma su base nuova. Da Capri tre pittori napoletani lanciano il “Manifesto del Circumvisionismo”: Carlo Cocchia, Antonio D’ambrosio e Guglielmo Peirce. A questi si aggiungeranno Luigi Pepe Diaz, Gildo De Rosa e Mario Lepore. La loro produzione dispersa, ricca di riferimenti spesso confusi al Futurismo, al Costruttivismo russo, al cezannismo, è stata documentata negli ultimi decenni da varie opere di ricostruzione storica, Nel loro programma gli artisti napoletani si collegano idealmente al Cubismo e al Futurismo e accettano i risultati distruttori dei movimenti di avanguardia. L’insistenza sul tema del “lirismo” e la presenza dell’idea di una “circolarità” e “integrità” della visione trova delle rispondenze nelle prime formulazioni teoriche dell’Aeropittura. I circumvisionisti organizzarono la loro seconda mostra presso la “Compagnia degli Illusi”. Ebbero delle interessanti occasioni espositive.


Intanto dal 1929 era attivo un altro gruppo, l’U.D.A. (Unione Distruttivisti Attivisti), formato da Paolo Ricci, Carlo Bernard e Guglielmo Peirce. Dei circumvisionisti alcuni artisti si accostarono all’Aeropittura, ma fu un fatto episodico. è indicativo di ciò il giudizio espresso da Antonio Maraini su «La Tribuna», in occasione ella retrospettiva postuma di Curcio nella Biennale romana del 1923: «Curcio rifletteva le qualità e i difetti dei napoletani: vivacità luminosa di colore e indulgenza verso effetti un po’ facili, un po’ casuali». Forse proprio questo pregiudizio è all’origine dell’assenza quasi totale degli artisti napoletani dai grandi circuiti. Per reagire a questa situazione, gli artisti napoletani avrebbero creato delle aggregazioni. Comincia la penetrazione nel settore culturale da parte del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Segno evidente della fascistizzazione della cultura si è avuto a Napoli nel 1925 con la conquista del quotidiano partenopeo più rappresentativo «Il Mattino»; segnali del mutamento di clima dovettero apparire presto, se un artista come Edoardo Pansini che aveva riposto qualche speranza nei “fasci”, nel 1923 prese le distanze dal P.N.F. attraverso la sua rivista «Cimento». Negli anni successivi, rimase coerente, rifiutando di iscriversi al Sindacato; per questo motivo fu escluso da molte occasioni espositive ufficiali, riuscendo a mantenere in vita, almeno fino al 1936, la sua rivista.

Alberto Chiancone, La partita a carte

Nei primi anni alcuni artisti napoletani aderirono al fascismo spontaneamente. Quando poi nacquero le esposizioni Sindacali, tutti gli artisti si trovarono nella sgradevole condizione di essere ricattati; solo gli iscritti al Sindacato potevano esporre. La situazione si irrigidì ulteriormente dal 1938, quando vennero promulgate le leggi razziali: ormai gli artisti avevano pochi margini di libertà. Tuttavia ca detto che c’era un gruppo di artisti maggiormente coinvolto con il regime, che ha fatto parte degli organismi direttivi delle mostre e che ne ha ricavato certamente dei vantaggi. Ruggero Orlando ragionando in prospettiva europea afferma: «è meraviglioso come sentano l’influenza ottocentista di Monet e di Cézanne, filtrata e nuovamente creata in Italia». Il dibattito artistico aveva, dunque, individuato in Monet e in Cézanne i numi tutelari dei due principali filoni di ricerca, uno che puntava sul “colore” e l’altro che privilegiava il “volume”. Anche a Napoli è possibile in questi anni rintracciare tali due linee. Col tempo prevarrà il filone orientato verso la sodezza plastica e volumetrica, anche grazie alla lettura novecentesca di Cézanne promossa da «Valori Plastici». Tale rivista era ben nota a Napoli a vari artisti, soprattutto a Girosi che ne tenne conto per le sue scelte sia pittoriche che teoriche. Infatti Girosi era molto selettivo nello stabilire sintonie con artisti vecchi o giovani. Dal suo punto di vista, la situazione dell’arte napoletana appare inadeguata. Girosi voleva individuare una linea “moderna”, che potesse costituire una valida alternativa a quella futurista che nel frattempo era stata rilanciata con l’appoggio di Marinetti, e che fosse in grado di esprimere i tempi nuovi, secondo una visione organica al fascismo.


Di fronte al problema di come liberarsi del peso di una tradizione ottocentesca, gli artisti napoletani risposero in modo diverso. Una via d’uscita fu rappresentata dalla ricerca di stimoli nella tradizione secentesca. Era allora possibile per i pittori individuare tante diverse strade di ricerca che consentissero di saldare insieme modernità, tradizione, senso di appartenenza a un territorio, partecipazione ai dibattiti che si andavano svolgendo in Italia, recupero del mestiere, superamento dei condizionamenti accademici e ricerca di sintonia con i propri tempi, ma senza eccessivi “avanguardismi”. Tutto questo sarà riassorbito dal regime. Lionello Balestrieri, tornato a Napoli da Parigi per ricoprire l’incarico di direttore dell’Istituto d’Arte “Filippo Palizzi”, si diede da fare per organizzare, fin dal 1925, un’associazione di ispirazione fascista. Riuscì a impiantare nella città partenopea il Sindaco Interprovinciale Fascista di Belle Arti, ricoprendone la carica di segretario.


Prima delle Sindacali si erano già avute iniziative. Nel 1927 si forma il Gruppo Flegreo, composto da artisti giovani e da esponenti della scuola ottocentesca sopravvissuti al loro secolo invitti come “soci onorari” con l’intento di riscattare la tradizione meridionale. Con l’accusa che il Gruppo Flegreo non aveva un programma chiaro, si formò con una contrapposizione violenta un altro gruppo di artisti che si riuniva al “Caffè Tripoli” a Piazza Plebiscito e che si era denominato degli Ostinati: vi appartenevano Girosi, Chiancone, Viti, Galante. Probabilmente la presenza di Balestrieri fece guadagnare agli Ostinati, come ricorda Brancaccio, l’appellativo di “futuristi”. Gli artisti napoletani si avvicinarono più alle soluzioni di compromesso, con il forte recupero del naturalismo, proprie del passaggio da 900 a 900 italiano. Gli artisti che diedero vita al Quartiere Latino erano giovani, meno giovani e giovanissimi: Giuseppe Uva, Saverio Gatto, Paolo Prisciandaro, Ettore Lalli. Di quest’ultimo sono stati rinvenuti tre dipinti intitolati Terrazza napoletana2, aventi come soggetto la terrazza con gli studi dei pittori del Quartiere Latino. Recentemente di questo artista si è rinvenuto un piccolo gruppo di quadri degli anni ’30 in una collezione privata. Di Prisciandaro pubblichiamo un paesaggio con I monti di Roccarainola, dove spesso si recava presso una famiglia di amici, molte opere sono andate disperse. Negli stessi anni apriva i suoi battenti anche la Bottega di Decorazione sotto i portici di S.Francesco di Paola in locali messi a disposizione da Giulio Parisio e con la direzione di Carlo Cocchia. Fra gli spazi privati a carattere commerciale vanno segnalati la galleria di Eugenio Corona e la Galleria Canessa, con sede quest’ultima in Piazza dei Martiti e con una filiale a Parigi agli Champs Elysées e un’altra a New York.


Tuttavia, queste gallerie non avevano la forza di imporre gli artisti napoletani nel mercato nazionale e internazionale. Notte, che invece veniva da Firenze e Roma, e che, arrivato a Napoli nel 1929 per insegnare all’Accademia, aveva già al suo attivo una rete di rapporti su tutto il territorio nazionale. Lino Pesaro, nel 1929 organizzò una mostra importante tenuta da nove artisti napoletani. Egli è una figura ben nota agli studi per aver lanciato in Italia gli artisti di 900 con la prima mostra del 1923. La Prima Mostra del Sindacato Fascista Artisti della Campania si inaugurò nel maggio 1929. Si faceva appello alla qualità come all’unico discrimine per l’accettazione delle opere. Dell’organizzazione della mostra si occupava il Direttorio provvisorio del Sindacato formato da Lionello Balestrieri, Brancaccio, Casciaro, Galante, Saverio Gatto ecc… Il vero vantaggio di stare nel Direttorio del Sindacato era quello di essere con maggiore certezza invitati o accettati nelle Quadriennali, nelle Biennali di Venezia e anche in quelle mostre itineranti all’estero. In Campania la prima sindacale aveva come obiettivo quello di stabilire un ponte con le novità che si venivano profilando in sede nazionale e a questo scopo aveva addirittura assorbito l’attività della Società Promotrice “Salvator Rosa” che infatti chiuse. Da un lato si dava spazio alla novità del tutto moderata degli orientamenti di Novecento Italiano. Dall’altro non si chiudevano le porte alla seconda e terza ondata del Futurismo che aveva ancora qualche slancio.

Eugenio Viti

Accanto a questi due gruppi resisteva poi ancora numeroso lo schieramento degli artisti della vecchia guardia. Cipriano Efisio Oppo apprezza più dei maestri giovani. Anche Alberto Consiglio interviene su «L’Italia Letteraria» e su «Volumi» e distingue fra i giovani almeno tre raggruppamenti: i novecentisti, Viti e i suoi seguaci e gli indipendenti. Sulla rivista «Volumi» appare un contributo di Antonio Maraini che accoglie con grande favore quello che considera un approdo dei giovani napoletani alle istanze dell’arte italiana più “moderna” che ha restaurato l’importanza della “figura”, contro la tendenza avallata dalla tradizione impressionista che aveva invece privilegiato il “paesaggio”, arrivando a sostenere che a colpo d’occhio si potevano distinguere gli artisti della vecchia generazione, soprattutto paesaggisti, dai giovani, per lo più “figuristi”. La seconda novità positiva che riscontrava era la capacità che i giovani napoletani avevano dimostrato di poter sfuggire all’insidia più pericolosa, quella della luce sfolgorante del sole meridionale cui era subentrata la formula impressionistica che aveva dato grande spazio a quella luce che mangia le forme, sbianca il colore, e annulla la percezione plastica e cromatica delle cose. Non considerava novecentisti Cortiello e Crisconio, ma nemmeno Viti, Fabricatore, Barillà e nemmeno Balestrieri. Viti era arrivato a Venezia con delle opere che dovevano apparire moderne, nella prospettiva di Biancale, in quanto ben robuste dal punto di vista della costruzione plastica e venate di una sottile inquietudine metafisica, e mi riferisco ad Adamo ed Eva, a La schiena e soprattutto al dipinto L’album bianco. Allo stesso modo non sembrava né scadente, né indeciso, nemmeno Girosi che esponeva Sogno, un’opera che era piaciuta molto e che sembrava partecipe di una sorta di Realismo magico. Tuttavia Biancale su alcune questioni generali aveva certamente ragione. Era vero che non esisteva una “scuola” napoletana in senso stretto, in quanto la situazione era molto frammentaria. Nel 1935, quando ormai il regime si è assentato, si nota subito che un tema di dibattito come quello del regionalismo risulta superato.

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