GIORGIO MOIO, Rileggendo “Poesie del fuoco” di Franco Capasso

Questa lacerazione sottile

Questo fuoco senza riparo

            Questa caduta

Questo andare senza riconoscermi

          Ormai cammino senza riconoscermi

        Il fuoco              ha cambiato i miei connotati

        Il fuoco ha reso un deserto

la mia anima

Spesso corro verso il mare

senza trovare il mare

Spesso corro verso la montagna

Sono così solo da sembrare

un albero denudato

– da sembrare un cumulo di cenere

Mille desideri ora m’asserpano

divorandomi

Mille pensieri ora mi solcano

senza darmi la sensazione

della freschezza e della serenità

Sono definitivamente malato

        Forse sto per morire

        Io non so più scegliere

Non so più definire la mia vita

così chiusa in questo retaggio (p. 23)

Franco Capasso (Ottaviano, 1934 – Pompei, 2006) è stato un poeta con una produzione ultra-trentennale, uno dei poeti più importanti che Napoli abbia avuto negli ultimi anni, ma che ha raccolto ben poco per quello che ha dato. Una dozzina di volumi pubblicati: Punto barometrico, Orme sul lago salato, Febbre, etc. La lontananza forzata dalla sua terra (si era trasferito a Terracina (LT) per motivi di lavoro), l’ha sempre vissuta come una condizione di esiliato che ha minato lo spirito di questo poeta, quasi autodidatta, che ha fatto del corpo, cioè della materia, e della sofferenza interiore, il suo modus operandi, una pazzia linguistica che canta l’istante, l’insofferenza banale della quotidianità, una vita lacerata in una società ostile: «Capasso è il poeta del canto dell’istante e del momento quali energie che urgono dall’esterno e dall’interno (Nietzsche) per mettere alla prova l’elezione di essersi detto “persona poetica”, “essere poetico” insofferente del banale e della quotidianità, del luogo comune, “essere poetico” che si ribella alla ferocia dell’abbandono del pensare e del poetare, che rifiuta la solitudine passiva pur anche per nostro peccato o errore» (E. Bonessio di Terzet, Sulla poesia di Franco Capasso, in «Vico Acitillo 124 – Poetry Wave»).

Forse Poesie del fuoco (Marcus Edizioni, 2000), il volume di cui ci occupiamo e da cui abbiamo estrapolato la poesia in testa a questo scritto, risente anche dell’allontanamento “forzato” dalla sua città, vissuto quasi come un esilio. E glielo notavi sul viso e negli occhi quando ci veniva a trovare o lo incontravi a Napoli in qualche riunione letteraria. Tra l’altro non è facile accettare di vivere in un contesto che non riesci a sopportare o lo sopporti a mala pena. E lo sentivi dire “scrivo per resistere o semplicemente per affermare che esisto”; “scrivo quel che penso perché non ho favori da restituire”. D’altronde la vita è una commedia dove ognuno è chiamato a recitare la propria parte.

«Franco si sentiva, ed era, sostanzialmente un esule o un esiliato, non del mondo, nel quale pure è stato per più di settant’anni, ma della vita tout court. Esiliato dalla vita perché egli non si riconosceva all’interno di una società in cui operava ma nella quale non si è mai integrato in modo radicale, nel senso di mettervi radici stabili e dimorarvi. Si sentiva ed era –  come altri poeti che egli riconosceva come suoi fratelli, in modo particolare Rimbaud – un angelo caduto nell’inferno della società e della vita. E gli angeli caduti soffrono con dignità o forse addirittura con malcelato compiacimento la loro condizione di esiliati, quasi tormentandosi del destino avuto in sorte, ma anche orgogliosi di appartenere a quella che si può definire una sorta di aristocrazia dello spirito» (Raffaele Urraro, La poesia di Franco Capasso, in «urraroblog», settembre 2008).

Dunque è il fuoco il tema ricorrente di questo volume e della sua intera produzione poetica, unitamente alla metafora della febbre, il fuoco-anima che si ribelle e s’invola alla ricerca della parola come terapia del corpo e della mente di un’esistenza fallimentare. «Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco. Il fuoco è l’ultra-vivente. Il fuoco è intimo e universale. Vive nel nostro cuore. Vive nel nostro cielo. Giunge dagli abissi della sostanza e si offre come un amore. Ridiscende nella materia e si nasconde, latente, sopito come l’odio e la vendetta. Tra tutti i fenomeni, è veramente il solo che possa ricevere in modo così chiaro i due valori contrari: il bene e il male. Il fuoco splende in paradiso. Brucia all’inferno. È dolcezza e tortura» (Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1973, p. 117).

Ma non ci troviamo di fronte ad una poesia fallimentare, tutta rivolta al negativo. Qui il senso plurimo del linguaggio, “sul filo della memoria”, diventa una terapia per superare le difficoltà della propria esistenza: «qui si rifonda la realtà | la muta tenzone del fuoco | non verrai oltre la porta chiusa | il leone del deserto digrigna | la città assisa sui porfidi | squillanti agonie | di tenebre | aspettando | qui raccolta l’essenza di tutti i fiori | qui la storia si dipana | in un filo di memoria | presso il lago | locuste guerriere/ fanno la guerra al sole».

È vero: ci troviamo di fronte ad una poesia instabile, lacerata, discontinua, persino viscerale, allucinata, irrazionale, ma consapevole della sua condizione di disagio, che non ha mezze misure; sgangherata, dissipata che si convoglia verso l’ignoto spazio del vuoto, della disillusione ad alimentare il fuoco del corpo, della mente, dell’anima: «Questa poesia tratta del fuoco: ‒ sottolinea Marcello Carlino nell’introduzione ‒ e non solo perché il fuoco vi è tema che torna, ora esplicito e diretto […], ora franto e disseminato (e come pulsante, intermittente: un rovello che è impossibile rimuovere e che preme e riesplode, sfuggendo a qualunque controllo, a qualunque delibera di programma). Il fuoco è anche metafora, e motore e quintessenza, dell’autobiografia che di questa poesia è l’origine prima ed è, forse, il fine ultimo: e dunque un esistere letto, e proposto, in chiave di tensione che sale, di febbre che brucia, di quiete che è porto sempre lontano» (p. 5):

‒ “… Spesso mi ritrovo nel fuoco della riva” (p. 11);

‒ “… Mi dissero del fuoco… Una voce mi chiamava ed era il fuoco” (p. 14);

‒ “… Me ne andavo per il fuoco lento… della luna” (p. 18);

‒ “… Quel fuoco mai spento… ardiva la notte (p. 27);

‒ “… In quel fuoco violento… in cui è bruciata la vita” (p. 31);

‒ “… Il fuoco mi ha bruciato tutto” (p. 43).

«Il dolore è così cieco / che non sai più distinguere il bene dal male / E allora ti fai trasportare dagli eventi» (p. 17), dalla tragicità della vita. Capasso sa che ogni lacerazione, ogni parola delirante è desiderio di non scegliere, di catturare l’imprevedibile nello squilibrio disagio esistenziale dove le immagini frante e a volte violenti, ci dicono che non c’è riscatto, né resurrezione se non attraverso il caos dell’avventura poetica. D’altronde la poesia deve saper dire sempre del disagio che incontra sul suo cammino: la gioia è quello di sapere che il disagio non spaventa. Non ci sono certezze né assolutismi nella poesia, ma una precarietà e una coscienza del fallimento, e questo Capasso lo sa bene, avendolo provato sulla sua pelle. La poesia è sempre nel di-venire: esponendosi nel farsi si mostra sostanza diversa dalla circonferenza del dato.

Poesie del fuoco nasce da un fatto tragico che incrinò la già debilitante esistenza di Capasso: l’incendio di una tenda di casa sua che si propagò per tutta la stanza dove erano custoditi i suoi libri, una memoria culturale di quasi mezzo secolo; una tragedia che sembrava un ammonito e una certezza: la poesia è dolore e fuoco, rovina di un’esistenza. «Le mille vicende della mia vita / sono finite in un rogo / Araba Fenice / dalla mia storia distrutta / dai miei testi bruciati / che non potrò più riscrivere» (p. 41).

In fondo la poesia è dannazione, consapevole fallimento, utopia che non ha soluzioni né risposte, riconducibile alla canonizzazione della dannazione. La poesia è utopia perché è solo un punto di partenza: quando arriva alla meta è destinata al museo: “… ogni parola ha la sua luce e il suo spessore… disdegna il declino del tempo senza tempo”, tuttavia.

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