Né poesia della sconfitta / né sconfitta della poesia
*
Mais eux, ils sont vaincu par le
sang de
l’agneau, et par la
parole dont ils sont
rendu témoignage :
Ils n’ont pas aimé leur vie
jisqu’à craindre la
mort. (Apocalipse, 12/11)
*
La storia della letteratura, ci addita rischi di sopravvivenza storica per un autore negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Certamente, si dovrebbe un monumento al poeta sconosciuto, come al milite ignoto, perché certamente esisteranno cataste di versi ignorati in cantina. Uno di questi è Franco Capasso. Dopo la sua morte, Gaetano Romano, direttore della “Metart”, è il solo che ha cercato di sottrarlo alla polvere, a parte il suo editore e amico Alessandro Carandente. Lo ha fatto nelle Scuderie del Palazzo Mediceo in Ottaviano (NA), dedicandogli la mattinata di domenica 11 maggio 2014, intitolata “Franco Capasso. Un poeta in viaggio”.
Franco Capasso è nato ad Ottaviano (NA) il 20 febbraio1934, è morto il 22 febbraio 2006 a Pompei. Ha fatto parte della redazione di «Pianura», di «Oltranza» e di «Secondo Tempo». Ha pubblicato le raccolte di poesia: Punto barometrico (Pianura/Itinerari, 1976); Germinario (Edizioni Altri Termini, 1979); Il segno e l’incisione (Il Bagatto, 1980); Orme sul lago salato (Edizioni Altri Termini,1983); Febbre (Edizioni Ripostes, 1985); Storie di vite con ripiani (Alfredo Guida Ed., 1991); Natàlia (Edizioni Ripostes,1993); Poesie del fuoco (Marcus Edizioni, 2000); Codici (Signum Edizioni d’arte, 2001); Miraggi (Edizioni Fermenti, 2001); Dei colori (Marcus Edizioni, 2004); infine, postumo, Mappe segrete (Marcus Edizioni, 2007). È morto di cancro all’intestino. Ho saputo della sua morte solo dopo due mesi da Sebastiano Vassalli, grazie ad una telefonata. Lo vedevo molto di rado dopo il suo trasloco in Terracina. L’ultima volta, a casa mia, nel dicembre del 2000. Aveva in mano Le poesie del fuoco. Erano state scritte dopo aver perso casa e libri in un incendio. Non fui accogliente, ero fuori di testa. Avevo le mie gatte da pelare e che gatte! Ho potuto ritrovare Franco solo dopo, in quella foto da comunicando, incorniciata in argento, su di una lastra umida di cemento, nell’antica ma cadente tomba di famiglia. A Boscoreale, dove viveva in quel periodo, ci vedevamo tutte le volte che tornava dai giri di lavoro. Sosteneva se stesso e la famiglia, facendo il rappresentante di generi alimentari, nel Lazio. Mi sorprendeva sempre, rispetto alla sofferenza letta nei suoi versi, quel suo modo di porsi sereno, a volte, irridente. Lo faceva sempre, anche in mia compagnia. C’era sempre sulle sue labbra un mezzo sorriso beffardo. Durante il lavoro, proponeva ai commercianti, in tal guisa, vini e poesie, con ironica semplicità. Sorprendeva me come Vassalli, che pure era stato il padre putativo. Durante i lavori al Presbiterio di Pisnengo, mentre ero ospite, tra una pennellata e l’altra, mi sorprese una domanda di Sebastiano: «Salvato’ ma tu ci credi alla sofferenza di don Ciccillo?».
Spesso, veniva a cercarmi per disintossicarsi dal quotidiano, e parlavamo dell’Avanguardia e di Ciro Vitello: «Mi ha insegnato a mescolare le carte, mi ha aperto nuovi orizzonti» diceva, e continuava parlandomi dei suoi amici, di Felice Piemontese, di Franco Cavallo, di Raffaele Perrotta, di Gian Battista Nazzaro e tanti altri. Ne andava fiero. Io entravo in un mondo magico. Una volta, a casa mia, mentre ero intento a scrivere una poesia, sottraendomi il foglio, mi fa: «Vuoi vedere come si procede?» e si diede a scomporla cambiandole i connotati. La cosa mi divertì al punto che gliela dedicai a sua vergogna! In altra occasione venne con la sua bella “Mercedes” nuova: «Andiamo, fammi compagnia, aiutami a guidare» e via, verso Sasso Marconi, dove c’era una riunione della redazione di «Pianura». Durante il viaggio si addormentò come un bambino tranquillo, mentre, alla guida, io mi godevo, stupito, quella salda vettura che avanzava tranquilla pure sulla strada innevata degli Appennini. Dio, quanta grazia di Dio! Era generoso Franco, anche se poco ricambiato! A Sasso Marconi incontrai per la prima volta Sebastiano Vassalli. Franco, lo ospitava con gioia e generosità a Boscoreale, io una sola volta a Scafati; in quella occasione mi disse che non trovava più in Franco lo stesso slancio di una volta. Io lo consolavo ridendo, e gli ricordavo che lui era nato a Genova e viveva tra le risaie del Novarese. «L’aria di Napoli ‒ dicevo ‒ è differente da quella che si respira a Genova; A Napoli il fuoco del Vesuvio condiziona anche il clima marittimo!».
Ma Vassalli gli era molto affezionato perché, pur in freddo con lui, mi scriveva chiedendomi: «Mi piacerebbe sapere che cosa gli ha preso a Franco Capasso», ma poi aggiungeva, «probabilmente lo so». Erano giorni pieni di speranza quelli, in quel febbraio del 1983. Fu il pittore Vincenzo Balzano di Boscoreale (NA) a parlarmene per la prima volta una quarantina d’anni fa e poi a farmelo conoscere. Ricordo che a vederlo, ebbi l’impressione di una persona clownesca. Col tempo, rafforzandosi il rapporto fra noi, mi resi conto che il suo, era l’atteggiamento di chi vive una scissione, uno sdoppiamento del suo essere, venditore per conto di aziende nel quotidiano, ricercatore di una sua identità nel profondo. Diventammo amici. Non pubblicava libro che non mi portasse a leggere compiaciuto. Sembrava che, una volta stampati, i suoi versi riducessero l’impatto con il suo vissuto indigesto. Lo rividi un’ultima volta nel dicembre del 2000; era venuto a farmi leggere le sue “Poesie del fuoco”. Non gli offrii la solita ospitalità. A pensarci, oggi me ne dispiace molto. In quel periodo, ero troppo distratto dalle gravissime notizie avute da qualche giorno sulla salute di mia moglie per rendermi conto del suo disagio. È morto il 22 febbraio del 2006 nella clinica di Pompei, a due passi da casa mia. Ne ho avuto notizia solo due mesi dopo, da una telefonata di Sebastiano Vassalli del tutto casuale.
Per cercare di individuare bene la sua poesia, bisogna comprendere fondamentalmente alcune cose: Egli la pratica come una sorta di amaro farmaco: la pagina, diventa “l’alter ego” con cui cerca di dialogare per alleviare le pene. Il linguaggio, diventa una conquista necessaria, non solo alla sua scrittura ma, soprattutto, al suo stare nel mondo perché ha bisogno di annullare la sua insufficiente formazione di base. Infine, bisogna mettere sul piatto anche la sua romantica aspirazione alla gloria letteraria: è la sola cosa che può riscattare quella vita da diseredato.
Capasso debutta nel 1976 con Punto barometrico, un volumetto nato alla corte di Vassalli. Per certi aspetti, è lì il migliore Capasso, in quei versi che nascono dalla necessità di tirar fuori tutto quanto gli preme dentro, per evitare il peggio. È una poesia istintiva, immediata, necessaria. Il linguaggio è preso in prestito, da letture rimediate, anch’esse istintive, di poeti come Baudelaire, e Mallarmé ma specialmente Rimbaud. È un linguaggio che tuttavia diventa suo perché la forza magmatica del suo dover dire travolge ogni intenzione formale. Ha un notevole successo di critica, persino inatteso. Sicuramente meritato. In quel momento, nessuno in Italia canta in modo più graffiante ed originale. Ma Capasso, non può accontentarsi del suo istinto. Novello Alfieri, inizia una stagione di letture disperate, perché consapevole dei suoi limiti. Desidera fortemente conquistare un posto di rilievo nel mondo dei poeti “laureati”. Vorrebbe una sorta di rivincita nei riguardi di quei letterati che lo ascoltano con sufficienza quando non lo deridono. Si avvicina alla poesia di Paul Éluard e di Apollinaire, conosce le teorie sulla dissociazione psichica di Freud, e quelle dell’automatismo espressivo ai limiti della coscienza di Breton. Si affascina davanti alle pitture psicoanalitiche di Dalì ed alla costruzione dei volumi e delle prospettive di Picasso.
Nel 1979 pubblica Germinario. Il poeta sembra aver dissodato il terreno per la semina. Qui inizia la sua stagione sperimentale: il verso si disarticola, l’immagine diventa frammentaria, i toni dissonanti. Il linguaggio si rinnova per gemmazione come un albero che fruttifica: il frutto maturo, cade sul terreno dissodato, si corrompe e germoglia diventando altro da sé. I punti prospettici si moltiplicano, il soggetto riecheggia sé stesso sfaccettandosi indefinitamente, la struttura propone molteplici angoli di lettura.
Della stessa natura la raccolta del 1980, Il segno e l’incisione. In questo caso il Nostro analizza la capacità che ha il linguaggio di incidere coi suoi segni sulla realtà scavandola profondamente. E’ una ricerca a testa bassa, disperata, una commistione di cubismo, surrealismo e autoanalisi. E’ la liberazione totale del proprio io da ogni vincolo, etico ed estetico. La sua poesia diventa un masochistico piacere di autoflagellazione. Il poeta compone vestendo il cilicio, denudando la propria anima, irridendola e mortificandola. Capasso fa tutto questo scrivendo come un vulcano in eruzione: compone a ritmo continuo, spinto dalla necessità disperata di dire. Forse perché si rende conto del tradimento feroce che la scrittura produce. Il linguaggio, certo, incide come un coltello, ma, solo l’anima del poeta, non la realtà circostante. Si sente tradito da quel verso che non lo affranca.
Il poeta diventa un povero cristo, e, la poesia, la sua croce.
Questo è in fondo Franco Capasso poeta, un povero cristo, che trasferisce tutte le sue malattie con disarmante innocenza, nel verso. È trasgressivo, il solo, fra quelli (pochi) da me conosciuti, in tutta la seconda metà del novecento che identifica la propria vita con la poesia, facendone un sudario di parole dirompenti, aggressive, eroiche. La sua sensibilità lo porta ad essere naturalmente aperto alla lezione surrealista.
Come recita Eluard «(…) le réduis à n’être qu’une porte / ouverte par laquelle entre la vie (…)». Egli continua imperterrito a scarnificarsi, rincorrendo sé stesso e la forma, in simbiosi, come a volere attraverso il martirio, azzerarsi insieme alla lingua. L’impressione è che, di fronte, c’è un poeta in viaggio che cerca il mezzo capace di costruire non solo, il vestito all’anima, ma di farsi esso stesso, anima. In questo momento della sua vita, resta un barlume di speranza: ancora pensa di poter incidere e segnare, rimuovere e sostanziare.
Arriviamo al 1984. Capasso pubblica Orme sul lago salato. Il poeta è stanco di verifiche. L’urlo disperato della sua poesia non sembra aver provocato echi. Eccolo allora rassegnato, stanco, più dimesso, non meno disperato. Il verso si fa più lineare, meno furibondo: diventa più pensoso. Fotografa lo “status quo”: «Solo qualche traccia di vita su di un lago di lacrime disidratate». Per certi aspetti ritorna il Capasso di Punto barometrico, almeno nella sua condizione interiore: il vulcano, ancora attivo, trattiene il magma perché le precedenti esplosioni hanno chiuso tutte le bocche. In questa raccolta, Capasso prende fiato, collassato:
È successo un tempo
Io non volevo vivere
come ho vissuto
Per viaggiare
Mi sarebbe piaciuto
il sole che è fermo nell’equinozio
E sono stato lungamente
giorni e notti come il mare
Morì mio padre
Io conosco la morte
che mi appartiene
Caddi così nella paura della febbre.
Quel sole fermo all’equinozio, è la pausa desiderata rispetto al suo stato quotidiano, e cioè, al monotono ritmico andirivieni delle onde del mare. La distanza dal vissuto sta nel primo verso, si ha poi una negazione ed infine la coscienzadel suo stato nella chiusa: «(…) Caddi così nella paura della febbre». Questo è il meccanismo che muove la raccolta. C’è costante un movimento che si ripete come un vissuto già vissuto ed una disperata dichiarazione di coscienza finale od iniziale:
Il buio si ripete nel suo buio……….
…………………………………….
dove tesse l’ombra l’agonia
oppure
Il mio cervello è una pianura desolata…….
…………………………………………….
vi fiorisce in un bianco disperato
oppure
Mi muovo lentamente….
………………………….
sotto un cielo
inesistente.
oppure
La pianura mia un tempo spaziava fino al mare…….
………………………………………………………
ora mille uccelli vi volano bassi per morire.
oppure
il silenzio folleggia nella mia testa….
………………………………………
e giochi alla farsa col mio destino.
È ovvio che non c’è solo questo, in questa raccolta, tuttavia, secondo me, è la parte più poeticamente rilevante.
Nel 1985 con Febbre si chiude questo ciclo. È quello dell’artista e dell’uomo che lotta disperatamente, tra innumerevoli sconfitte, e tuttavia, lotta: appare eroe romantico, anche se un po’ scapigliato. Nel 1991 stampa Storie di vite con ripiani; nel 1993 pubblica Natàlia.
Il poeta ha smesso di lottare. È vinto. La sua sconfitta si riversa tutta sul verso.
La sua scrittura procede per lampi, come nella pazzia. Si sente accerchiato dalle sue ossessioni che, talvolta, concedono momenti di lucidità. Il poeta ha smesso di cantare, urla tutta la sua disperazione. Non sente riecheggiare il suo grido. Ecco allora che la sua poesia si fa lamento atonico e protesta. Il suo fragile io, si frantuma in mille personaggi all’interno di una scenografia apocalittica. Il paesaggio complessivo è privo di sbocchi.
Nel 1999, un incendio in casa Capasso non semplifica le cose. Il poeta è così martoriato da non avvertire più le varianti al dolore. Egli, semplicemente, trasferisce nella sua poesia la cronaca della sua maledizione. Nascono le Poesie del fuoco che vengono stampate nel 2000. Bisogna premettere che il fuoco ha sempre surriscaldato la poesia di Franco Capasso. È stato sempre presente in ogni sua raccolta, o come fonte di calore per una cova, o come cancellazione correttiva: una sorta di lavacro, di fonte battesimale. Quello che più mi preme evidenziare di questa raccolta è l’aspetto retrospettivo. In questa, l’io del poeta già passato nel frullatore delle raccolte precedenti, è ridotto ai minimi termini. L’anima del Nostro, assieme ai suoi libri e scritti inceneriti, tuttavia cova, ed utilizzando la memoria che distanzia, è costretta a sortire rinnovata. Il poeta, pur disilluso, sente di dover rinascere. In fondo quel fuoco accende un poco la speranza. Simbolicamente, bruciata la vecchia anima, si può sperare di formarne una nuova di zecca.
È tutto bruciato
e bisogna ricominciare
Tutte le sofferenze patite
non sono bastate
Ci voleva anche il fuoco!
Metà del mio spirito è bruciato
L’altra metà aspetta di risorgere.
Così recita la poesia n. 53. È tutto bruciato e … In questa congiunzione, nella pausa, nel sospiro profondo del poeta, io colgo tutto l’intero significato della raccolta.
C’è tutta la rassegnata, ineluttabile necessità di riprendere la salita verso il “Golgota”. Forse anche per questo, per quelle pupille ancora abbagliate dalle fiamme, nel 2003 pubblica Miraggi e nel 2004 Dei colori.
Intanto, ha saputo di avere il cancro all’intestino. Come sempre, la sensazione di vuoto che deve aver provato, è travasata nella sua poesia. Il mondo perde completamente la sua concretezza e la forza gravitazionale, è un vuoto informe ove ballano miraggi e colori. A seguire le vicende della vita di Franco Capasso, si è portati a pensare a Mario Lunetta che lo vestì, a suo tempo, dei panni del poeta maledetto. Certo, la vita, a Franco non ha riservato né gioie né soddisfazioni. Gli ha fatto però un gran dono, offrendogli il materiale per alimentare quella che per me è la voce poetica più originale della seconda metà del ʼ900.
E’ morto a Pompei di cancro all’intestino. Era nato ad Ottaviano nel 1934.
Il suo amico editore, Alessandro Carandente, correndo l’anniversario della morte, gli ha curato la pubblicazione e la stampa di un libro. Si tratta di Mappe segrete (Marcus Edizioni, 2007). Questo libro postumo, ha avuto a corredo, la mirabile prefazione di Marcello Carlino.
Di Capasso, forse, si può aggiungere persino che, se pure non ancora attiva, la sua malattia era insita in lui, da lui cullata ed allevata. Era un esule senza identità, una sorta di marziano privo di difese immunitarie. Per lui il treno “non fischiava mai”. Non c’era nessuna possibilità che transitasse la locomotiva pirandelliana perché egli non si riconosceva nel suo concreto esistere, né si adeguava:
Non conosco la mia provenienza
Appena conosco mia madre
Spesso mi sono voltato indietro
Per conoscere la mia origine
Sempre mi sono ingannato sul dubbio di me stesso (recita una poesia a p. 60 di questa raccolta).
Ed ancora:
voce non fiorisce in quel cieco budello
Vive solo l’occhio e la luce dell’occhio
Ci faremo sentire con le nostre grida
Strani alfabeti saranno il nostro delirio. (p. 60)
Egli in definitiva, è incapace di urlare perché l’urlo fisico sta fuori del suo io che, invece, è in prigione, dentro al suo viscere e nel suo sangue. Certo, egli ha tentato di farlo sortire, per non morire strozzato. Ha tentato con “segni e “incisioni” con “suoni e colori”.
Ha rilevato soltanto un sudario: l’ombra del passaggio su quel lago dove le lacrime sono evaporate. Questo, forse, in conclusione è il motivo vero della sua poesia: un bisogno, innanzi tutto, terapeutico, ma anche il puntiglioso tentativo di riconoscere, di stanare le ragioni della sua maledizione:
Mi guardo in silenzio
Mi soffermo negli occhi
Mi soppeso
Cerco di guardare lontano
Il lontano non esiste
se sono qua come l’uccello malato
Fa freddo ma non è gelo polare
Gli alberi sono forme di cielo
tessiture
maglie
Mi guardo
Mi leggo
sono assente
non mi riconosco
Vorrei scriverti per dirti che sto male
Incomincio a scrivere mi blocco
Non serve dirti della mia malattia
Così vale la pena di andare via
alzarsi
camminare
fino al mare (p. 138)
La sua parola, sempre strozzata, è bastonata, nel tentativo di piegarla alle necessità gnoseologiche. È il lavoro che fa il fabbro sull’incudine, quando modella il ferro incandescente. È una poesia di fuga da ogni legge fisica e gravitazionale, da qualsiasi imperativo categorico o pratico: è una fuga tutta interna. Ad ogni modo, la vita ha violentato Franco Capasso uomo e poeta. Bisogna leggerlo, perché anche se dotta, qualsiasi recensione non può che realizzare un’ulteriore violenza alla sua poesia.
mi tiene la morte
:il mio dramma
rivivo
ad ogni circuito
tragitti ellissi monocorde
sulle ruote
rosso semaforo
disintegrarmi
:cadere nel buco
non esistere
imponderabili budella dell’essere
:magma-pus del mio vivere
escremento del mio io irridente
etisico ad eiaculare
mortale-menzogna
sradicante voglia di non vivere
sputo-sangue-marcio
nei crogioli umano-divenire
non è mia la voce
una <<eco>>
essere a chiamarmi
da ABISSI
(da Punto barometrico, Pianura/Itinerari, 1976).
*
A
La luce nuda guarda il soffitto
striscia verme galattico
inerme becera
non ha vettori
ritorna stellare
cade si squarcia risorge
:è livida insepolta
scrolla i venti
marini
inverni
<<detriti>>
bava intorno agli occhi
vettrice i itinerante
rotte senza porti
si distende
B
:gomene relitti in fondali
panchine ormeggi
catene
prore almanacchi stellari
sulle rive orizzonti iridati
:brandelli
sui litorali
celesti
proto-cellule-corrotte-seviziate
:primo-elemento-atomo-della-luce
scomposto rotola nei cicli
nei cieli si perde…
(da Germinario, Altri Termini, 1979)
*
Non voglio ricordare.
La vita è un passo più in là,
mia madre grassa e bianca.
Di me non ricordo granché.
Dietro finestre posavano i miei occhi.
La luna nel lume ingrediente.
Saltavo dal letto gridando.
(da Poesia della voce e del corpo, (Estate a Napoli ’80)
*
Mi coprirà la terra e il sale alla bocca fiorirà.
La voce mia ha un nome come la voce
e la luce avrà un nome come la luce
e il vento avrà un nome come il vento
che non saprò decifrare come il mare.
(id.)
*
Scavo con unghie il bianco mallo del sole,
e cammino tra lagune d’ombre
e gli occhi sono freddi specchi
e l’anima è un foro nella pietra.
Non serve più la misura,
chiuso nel tuo cuore di foglie,
le unghie si fermano nella durezza.
(id.)
*
Per Ciro Vitiello
Mi dico di morire
e infine dico che voglio vivere.
Sono stato sempre così in questa eterna contraddizione.
Non si può amare tutto e non si può avere tutto
e non si può raccogliere tutto.
Il seme crescerà e fermenterà nella terra.
L’acqua piovana e le stagioni avranno pure un loro scopo.
I mari non sono deserti.
E la mia voce qualcuno l’ascolterà.
(id.)
*
China nella notte
Rupestre il dire della voce
il sogno la venustà delle parole
e la luna pendula
cade sui passi avvolti per l’ombra.
Luna chiara
Luna rorida vermiglia al passo
cade sul mare e s’addormenta
Oh luce di giada!
Luce che corre e si posa sullo smeriglio
della polvere
Racconti la tua storia
sui resti che brillano di noi
come un fuoco appena rosso
sulla china
della notte
(da Dei colori, Marcus ed., 2004)
*
Risonanze
Chiuso distilla la luce
dal ramo fiorito
Tace guardando il luogo perduto
La terra reietta gira
distillando la voce del bosco
Poi corre ma non corre
claudica verso la fonte luminosa
che si allontana verso la notte
Prima di spegnersi
sonnambulo erra incielandosi
in quell’effusiva risonanza
di echi
(id.)