Ci sono libri belli che nascono dall’ispirazione, e libri bellissimi che addirittura la travalicano – perché queste opere non sono solo architetture letterarie, riti espressivi, ma, molto di più, positure etiche, prodigiosi, sublimi o drammatici bilanci epocali… L’Aquila ferita, terremotata e tutt’altro che ricostruita o cicatrizzata di Anna Maria Giancarli, è un purgatorio in atto di progetti e dissidi, promesse civiche e tradimenti politici, (in)civili:
Tu sei pianto di pietra
patetico sfinimento
complicazione in proporzione
alla metamorfica situazione.
Tu sei perimetro ed area
d’un tempo arbitrario
astronomico visionario
tu sei meccanico orologio
incastro sortilegio necrologio
tu sei sopra l’orizzonte
e sotto e fuori e dentro
come acqua di fonte
…
Il grande coraggio umano e insieme intellettuale di Anna Maria – la sua geniale trovata creativa e insieme missione filiale (id est, maternale) sta nell’aver preso in mano questo suo stesso cuore pulsante, sogno angustiato, radice offesa – e averlo relazionato, indagato, sezionato, microscopizzato in vitro sulla pagina, come un germe o morbo o gene originario, inesorabile lascito ancestrale…
La parola poi
come rianimarla?
La parola pensiero
qui geme rovesciata
giace scucita
nonostante L’Aquila
e le sue voci
nel recinto della zona
rossa, fuggono i suoni.
Parimenti al linguaggio, al lessico – e allo stile – di una Scrittura, che come sempre in Lei (poetessa di un continuo, esistenziale Stato di emergenza; e rigorosa accusatrice, musa engagé dei perfidi, usuali Trucchi del reale: sue indimenticate raccolte sul finire degli anni ’90), tanto più s’immaiuscola quanto meno si perde in distinguo specialistici, debiti accademici, lacerti culti; e torna, eterno e schietto omaggio all’identità che si ribella e si rivela, ecografia dell’anima, confessione del corpo, spostamento irredento ma illuminato d’ogni canone, orizzonte e limite, mappatura o segreto che ci abita, in cui dimora il Logos, risiede l’Ethos, s’annida quest’Aquila ferita, fiera e artigliante il cielo, calma solo sui picchi, e umiliata ora, laggiù, dalle crude, nefaste macerie…
Eppure voli in alto volteggiando
tra rapine
audace uccello imperiale
appena fuori le mura
di pietra indorata dura
assisti allo scempio
profilo uccellante fremente agiti
nere ali delirante
Ruderi ancora tutti, tuttora ammassati, del suo Tempo e di tutta la Storia, che nessun progetto di Futuro ha più il diritto di nominare senza sciupare la parola, l’onestà sopravvissuta, l’alibi stesso che s’infervora e si sillaba spe-ran-za…
La Giancarli risale questi ruderi, queste macerie – Lei scrittrice, impennata e pasionaria da sempre – come se l’intero Linguaggio, le, ci fosse oramai franato, smottato o sbriciolato in adempimento lezioso, retorico, se disgiunto da una fede commossa, struggente (avrebbe detto Graham Greene) nel Fattore Umano…
pacha mama terra buona madre terra
che nutri germogli ospiti la vita
se tremi incuti terrore distruggi inaudita
i sogni i bianchi merletti della città costruita
l’aquila altera di roccia precipita straziata
quale vento asciugherà di lacrime la pioggia
quale sole scalderà il dolore compresso
in eterni secondi ladreschi avvinghiati al cuore
Al di là, dunque, d’ogni aderente e impellente tomografia assiale computerizzata, scintigrafia ossea dei luoghi, prima ancora che delle persone (sì, l’unico lessico praticabile ci sembra quello chiesto umilmente in prestito alla Medicina, all’emergenza sanitaria!), la più pura unità di misura di quest’immane, infinito sfacelo – di questa tragica, neodantesca Comoedía dell’Umano – resta forse e solo la Poesia.
motus terrae contorce chiese palazzi fontane
cancella esistenze scompiglia vissuti oscura il cielo
azzurro terso che fascia col flusso del tempo
monumenti piazze e case pulsanti d’energia
silenziosi i vicoli medievali mostrano ferite
e s’allargano crepe lesioni anche nei cuori
di chi porta negli occhi bifore archi cortili
eleganti nel loro pudico splendore
immota manet nel moto la città immota manet
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Anna Maria Giancarli fa poesia – a L’Aquila – di questo Tempo ormai uscito infranto, affranto dalla sua misura, di questo Luogo che travalica tutti i significati, le coordinate di luogo e di spazio, cavalcando indomita i filosofemi, il rimario puntiglioso e affilato, la ridda affilata dei sinonimi e dei contrari… come un intero sciame sismico di scosse d’assestamento… una, forse, ad ogni suo nuovo verso…
così cambia passo il tempo
sussulta materia scatena linfa
distilla alchimie
attimo infinito abisso scuro
gorgheggia informale il tempo
…
Gorgheggia informale il tempo… Prodigio del linguaggio, e dell’ispirazione, Anna Maria (che ama l’Arte Moderna, ed è stata per tutta la vita compagna e consorte d’un artista importante, non solo per la sua generazione, come Ennio Di Vincenzo) prende l’aggettivo informale, cardine di mezza rivoluzione dell’arte appunto e cosiddetta moderna, e lo reinventa a fulcro, snodo e insomma status, materico-concettuale, anche di questo malessere, di questa poesia, ardentemente sliricata eppure ispirata, giammai melodica, giustamente, ma potentemente cadenzata, perfino soffusa, amorevole di lenimento e sutura continua: in sé, per gli altri, tra sé e gli altri, il fraterno mondo delle anime in pena (vive o eternate in cielo, sottoterra, cosa conta per l’ingegneria umana, troppo umana del Divino?)…
l’aquila altera di roccia precipita straziata
Ed è qui che ancora la scrittura, fervida e terremotata, le si fa teatro, antro cupo di Psiche ma anche luminosa, pubblica ribalta, liberato palcoscenico, scranno d’irriverenza sacrosanta, e leggìo d’arduo impegno, pùlpito laico della pagina…
… lasciami piangere vera tristezza vetrificata
nell’aiuola ipocrita del nostro sconfinamento
informatizzato informale nella nudità oscena
del pensiero / scosso dalla forza viscerale
della terra madre in cerca di nuove posizioni /
ignara / amara per noi ……………………………….
Il magma che urge e ancor piange, l’allitterazione medesima d’ogni poesia e d’ogni nostro destino (nostro vostro loro: vera tristezza vetrificata), sono l’approdo più bello di questo libro – testo, contesto – che salva la poesia, la sua grande ala d’Aquila ferita (no, non più, non solo esimio, simbolico e arioso, aliante àlbatros baudelairiano, sogno in volo che è goffo in terra o sulla tolda delle navi!…), di rapace sublime dalle ali altere:
e lasciami insultare il signor b. annidato
negli identici signori b. che abitano questo popolo
indignitoso funambolo circense lungo anni
di storie calpestate come i morti del terremoto
e lasciami pensare / da pochi condivisa / ai voli
allegri d’utopia / tremendamente recisi / come
le ali altere della mia città. ……………………………….
Pier Paolo Pasolini, di cui sempre amiamo rileggere non solo le poesie, sceneggiature e romanzi, ma anche i saggi teorici, le esegesi tra passione e ideologia ed empirismo eretico (sì, le adorabili, affilatissime “tirate” polemiche, le più dialettiche, ragionative, diciamo così, parabole sapienziali), scrisse parole severe e rigemmanti, ai tempi del suo Vangelo secondo Matteo, in tema di poesia e impegno civile; parole che ancora oggi ci sembrano il miglior viatico anche per questa prova d’indicibile, «patetico sfinimento, alienazione / irrazionale codificazione…».
«… Un uomo vive in un momento torico preciso, in una condizione economica, sociale precisa e non può prescinderne nel profondo, e quindi, come in ogni altro uomo, la sua esperienza storica è quella che è, ed è quella che determina la sua azione di uomo, e anche un poeta non può non sottostare a questa legge, diciamo così, “naturale”…».
Ecco perché E cambia passo il tempo diventa, parla o arringa o perfino tace, come un libro per tutti, cioè a nome di tutti: una metafora lancinante e incarnata, incarnita come un’unghia sanguinolenta, un’utopia o un disamore che ci resta, arcano e incistato; c’inorgoglisce ma ci deprime, addolora ogni giorno…
l’aquila altera di roccia precipita straziata
Libro che non è (solo) un libro, ma ha 84 pagine, perfette e cartacee… E vale e resta come documento, bilancio, denuncia, lettera d’amore, sceneggiatura in nuce di cui intravediamo ogni scena, ogni sequenza; nel mentre, come recita il rigoroso esergo di copertina: «La città è sospesa, un tempo metafisico l’avvolge e s’impadronisce del suo corpo mutato…».
Sostituite ora al sostantivo La città quello de La storia (la morantiana Storia, romanzata e forse redenta per gli umiliati e offesi), e anche la Giancarli, come l’illustre autrice di Menzogna e sortilegio o L’isola di Arturo, potrebbe a prendere a prestito le sue parole amare e buone, il provvido eroismo sintattico e immaginativo intorno e contro le ragioni, le sragioni della Storia, “Uno scandalo che dura da diecimila anni…”.
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Certo la prosa iniziale, il prologo sventurato, il cedimento tettonico e appenninico, la jattura ondulatoria e sussultoria che ha ridotto di nuovo L’Aquila, dopo 3 secoli, il gigantesco Teatro d’un’enorme Tragedia, è il viatico più umile e paziente per le nuove sorgenti, fontane di dolore, 99 cannelle cui ancora s’abbeverano la parola e le labbra, i baci tristi e a lutto della Poesia:
«… Il dolore segna i percorsi, misto alla rabbia, alla ribellione contro le mani rapinose sulla città, le iene ridentes, i potenti di turno, le complicità della scienza, gli spettacoli mediatici, il cinismo dei profitti, l’indifferenza di troppi, nonostante l’enerme solidarietà dimostrata a livello nazionale ed oltre.
Il tempo si contorce…».
Dunque anche la poesia qui, come il tempo, il presente e il futuro de L’Aquila, si contorce, sulla pagina e in cuore:
l’aquila altera di roccia precipita straziata
Si salva e ci salva, anzi, proprio perché reagisce, indaga, capisce, lenisce, ma non accetta, non abiura, non s’accontenta, non è complice, sperando s’addolora; e per sua e nostra fortuna, si contorce:
Grumi di parole
gocciolano
su specchi neri
e non fanno rumore.
Anna Maria Giancarli E cambia passo il tempo (Poesie su L’Aquila) con le foto di Luca Bucci Robin Edizioni, Roma, 2014, pp. 84