ANDREA BONANNO, L’anomala 57a Biennale d’Arte di Venezia (2017) e le sue stanze con gli specchi alienanti del mondo magico

La 57a edizione della Biennale d’arte di Venezia, attivata in teoria da un titolo autoelogiativo banale e generico, inneggiante all’importanza ed essenzialità dell’arte, in un presente sconvolto dalla ferocia e dal caos, ha presentato accanto ai soliti progetti, ipotesi concettuose e la continuata manieristica assunzione di oggetti estrapolati direttamente dalla realtà (archeologia del Ready-made), la non inedita delocazione della realtà verso un “altrove” fatto coincidere con il Mondo magico, seguendo l’omonimo libro dell’antropologo Ernesto de Martino, per il quale è la magia a farci elaborare sempre nuove strategie di rigenerazione e di riordinamento della nostra anima e cultura in senso umanistico nella reinterpretazione della realtà.

Invero, quella delocazione della realtà è stata presente nella precedente edizione del 2015, curata da Okwui Enwezor, come un transito che partiva dalla memoria degli oggetti quotidiani della realtà per configurare un altrove come uno spazio nebuloso e indefinito. In questa edizione invece esso viene identificato ad uno spazio magico denso di risonanze sciamaniche, di evocazioni mitiche, tribali e misteriche.

In siffatta accezione, non ci sembra ammissibile che tale delocazione possa consentire un nuovo umanesimo per l’affermazione della centralità dell’uomo e permettere all’arte di uscire dalle sue dissociazioni e fraitendimenti, dal suo frammentarismo e formalismo estetistico ormai indigesto, per pervenire, nell’ambito dell’ormai scomparsa pittura, ad una sintesi chiara e accessibile.

È infatti regressivo per l’arte attuale affidarsi ai fatti di cronaca, alle descrizioni e narrazioni di storie, per i quali la TV e il Web riescono meglio, ma neanche è pensabile che delle trite e semplici operazioni a carattere sociale alla maniera di un Mark Bradford (Padiglione americano), possano fare scrivere alla Francesca Pasini che «l’istanza più rivoluzionaria dell’arte non sia né la rappresentazione né la politica, bensì l’azione e la relazione». Preminente per l’approccio al Mondo magico si presenta il Padiglione Italia per il quale la curatrice Cecilia Alemani ha selezionato Roberto Cuoghi (Modena, 1973), Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) e Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979). Il laboratorio, alla Frankstein, del Cuoghi, dal titolo Imitazione di Cristo, 2017, seppure sveli all’inizio degli intenti verificali, si risolve alla fine nella negazione dell’identità di una figura devozionale (Cristo), di cui un’ossessiva e perdurante serialità fa sortire delle fisionomie sempre diverse nel loro spessore e colore per l’azione disgregativa della loro costituzione materica.

La sua operazione estetica, oscillante fra vita e consunzione, fra resurrezione e morte, fra sacralità e blasfemìa, si risolve alla fine in un paradossale concettualismo che ammette una molteplicità di rappresentazioni sempre diverse di una medesima identità, che così resta sempre oscillante, relativa e indefinibile. Viene così negata la possibile formulazione di un’unica rappresentazione dell’identità e, nel contempo, ne viene azzerata la definibilità dei possibili valori validi. Tutto è relativizzato e sprofonda in un nichilismo orientato a temerarie e visionarie risoluzioni a carattere  magico.

La videoinstallazione dell’operatrice estetica Adelita Husni-Bey, italiana di origine libica, dal titolo The reading / La seduta, 2017, vorrebbe essere una conversazione-indagine, avente come tema due opposte cosmogonie, che presto si risolve in un didascalismo frammentario e monotono, a carattere sociologico e politico, sconfinante improvvisamente in una danza apotropaica per la salvezza degli esseri umani nel presentimento amaro di un futuro totalmente virtualizzato, dove sono scomparsi per sempre la voce e il sentimento dell’uomo.

Infine la tenebrosa installazione di Giorgio Andreotta Calò Senza titolo / La fine del mondo, 2017 consiste, nel mimare l’atmosfera desunta dall’omonimo libro del de Martino, in una aberrante deformazione percettiva dell’ambiente, ricorrendo a dei tubi da ponteggio per sorreggere una piattaforma in legno su cui è adagiata una vasca piena d’acqua che riflette il soffitto. La macchinosa e orribile scenografia, alla fine, rivela una conturbante illusorietà percettiva dalle risultanze oniriche e nichilistiche, nel quale tutto si duplica e si confonde, con evocazioni mitiche indeterminate, in un ossessivo incedere del senso di un vuoto che non si pone come un valido e chiaro plusvalore sia a livello conoscitivo che estetico.

Il progetto della Macel si è rivelato deficitario soprattutto per il non aver verificato il precario status attuale dell’arte, non svelandone le storture, gli sconfinamenti estetistici e le sue contraddizioni poetiche.

Ciò che resta certo consiste nella condivisa convinzione che quel  tentativo di riscrivere la storia con strumenti meno tradizionali, ma secondo delle ottiche letterarie e antropologiche obsolete, non può che risultare un fallimentare e sterile esercizio didattico, insieme, come vedremo nei vari padiglioni delle nazioni partecipanti, ai tanti stilemi di un manierismo estetistico stracotto e ai tanti video concettuosi di un intollerabile documentarismo sociologico e politico.

Invece, oggi più che mai si sente fortemente il bisogno di una vera arte che ritorni ad essere sintesi di quella poetica relazione costituita dall’io dell’artista che si commisura alle diverse tematiche attuali del nostro violento, disumano e orrendo presente.


Biografia di Andrea Bonanno


 

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