Chi è Franco Capasso? È uno che corre. Corre ogni giorno lasciando una scia infinita di parole lungo migliaia di chilometri come un pulviscolo stellare. Sapendo di morire un poco ogni giorno. Sapendo, ancora, di risorgere. La sua “musa”, beffarda, lo segue sottotraccia, ma non è che la sua stessa ombra sovrimpressa sul vetro posteriore dell’auto… Correre, nient’altro che correre, nella parola infinita, senza sosta, ora dopo ora, come ad esorcizzare, in un eloquio allucinatorio, implacabile, in un formulario apotropaico, l’orrore, la malattia, il pericolo, il supremo inganno insito nella vita stessa. Come per differirne la fine.
Capasso è uno che la vita la scrive e riscrive con la poesia. Capasso è uno che la lingua della poesia la crea, con autenticità e passione; da lui escono parole vive, da cui germogliano altre e altre parole. Per questo Capasso è poeta attuale. Nel senso di continuo attuarsi all’interno della parola. Nel suo divenire. Perché si sa: ogni sentire forte che si affaccia per la prima volta nel mondo è sempre nuovo. Uno scavatore nelle miniere del senso, Capasso: egli vi si affida come a delle forze che ne sanno di più di lui, che agiscono come da un’esistenza parallela per riscatto e liberazione. Per non morire. Le parole ci superano, ci precedono, rimangono quando noi ce ne andiamo, il poeta lo sa: ciò che sta accadendo è già accaduto, ciò che sta nominando è già lì da sempre; ci si perde, a volte, in esplorazione, non ritroviamo la via di casa: sono le parole che alla fine ci ritrovano. Le nostre parole ci riconoscono. Il poema dell’uomo, allora, si metabolizza nei tratti impervi del viaggio, nel continuo esserci: ed è lei, la parola, a disegnare il tratto circolare in cui inscrivervi l’essere, il tratto che tende al continuo presente, ad un eterno, come a un ritorno. Che restituisce l’uomo alla vita, e perciò alla storia.
Capasso sente dolorosamente l’insostenibilità della appartenenza perché quel dolore è il riconoscimento di se stesso. Vi attinge come a un’acqua salvifica, la cui virulenza lo inebria. Fino alla dimenticanza di sé. Incardinandosi in ogni fibra del corpo, quel dolore diviene finalmente il suo destino, la sua sublimazione…
Nella parola poetica, egli è l’altro che guarda se stesso. Il soggetto tras/ferisce il linguaggio nei luoghi dell’altro per sentirsi parlare. La voce è quella dilaniante del dolore, la spinta che lo muove è quella incandescente della follia. Il pathos che lo sostiene nel corpo a corpo col quotidiano in tutti i suoi sensi acuminati, è quello eroico del combattente, fino allo sfinimento, fino al delirio. Il fuoco, un giorno, è passato selvaggiamente nella sua casa riducendo in cenere gran parte della sua vasta biblioteca, della memoria di una vita, ma non lo ha fermato.
Se ne fregava, Capasso, della linea lirica, della linea sperimentale, pur perseguendo una ricerca strenua e appassionata sul linguaggio; lui ha dato voce alle forze della parola, e basta. Senza sosta, pur sapendo che l’essenza in essa racchiusa, non è mai raggiungibile. E vi si è dannato per difenderne l’utilità e la bellezza in un mondo dominato in larga misura da vacuità disumanizzante, da falsità, da opportunismi. In una società letteraria che non sempre ha mostrato di considerarne la voce e ha fatto presto a metterlo da parte, a dimenticarlo. Ma è poeta chi non può sentirsi correo della barbarie del mondo, chi non può tradire la lingua senza tradire nel profondo se stesso con la consapevolezza di farlo.
Franco ci lascia in eredità, per chi sa coglierli, forzieri di semi gonfi e scintillanti; lui, lucidamente folle, sempre affamato di tutto, costretto a dissetarsi con poche gocce d’acqua, ma a lui altro non serviva: lui era un titano, lo era senza saperlo, lui era un produttore di energia.
Vedono finalmente la luce questi inediti di Franco Capasso, rimasti sempre con me da diversi anni. Egli me li aveva affidati pensando forse ad una possibile pubblicazione su «Risvolti», che però non ebbe luogo, insieme all’intervista che avevo in mente di fare e che invece, di lì a poco, avvenne.
Li considero come un lascito morale oltre che poetico, dell’uomo e dell’artista. Da qui, il mio impegno affettuoso di ricordarlo.
Breve antologia di testi poetici inediti di Franco Capasso
1.
La bellezza a perseguirla.
Sono cresciuto con questi sensi.
I sensi erano tutti vivi a recepirla.
C’era qualcosa di miracoloso.
Quegli occhi profondi come abissi marini.
Lo specchio riflesso del cielo.
L’universo capovolto delle stelle.
Un cielo sconfinato.
La luna e il sole.
L’arcobaleno.
La luce distesa dei pianori.
Le albe e i tramonti.
e i colori.
Ero teso ad ascoltare le Muse.
Tutto si realizzava.
Dio parlava con gli alberi e la voce degli alberi.
Dio parlava con le primavere.
I fiori erano li.
Il sole splendeva.
Il cielo era azzurrissimo.
Le mani toccavano quel cielo.
La mente intuiva.
Tutto veniva interiorizzato.
Tutto veniva raccolto negli strati profondi dell’essere.
E l’essere nicchiava.
Un amore sconfinato.
Un amore disperato talvolta si muoveva in me.
Il silenzio della mia voce.
La parola muta.
La voce muta.
Ma tutto non era perduto.
Poiché la coscienza si dilatava.
L’organo del Dio si gonfiava.
Oh l’amore per il fuoco!
L’amore per la luce che si depositava negli occhi
L’occhio di Horo.
L‘occhio delle tenebre che richiamavano con ardore la luce.
Ma il dolore era forte come una bruciatura.
La bellezza si piegava.
CADEVA.
Era irriconoscibile.
RIFUGGIVA.
2.
Fuggiva come un levriero inseguito dal vento
Non sapevi qual era l’inseguitore.
La bellezza o il cane che l’inseguivano per dilaniarla
Perfide Erinni.
Vi è stato sempre colui che ha voluto distruggere,
corrompere l’alito della perfezione.
Le armi d’ORO.
L’immutabile equilibrio della serenità interiore.
Sporgo l’orecchio ai suoni, alle voci;
il silenzio e sordo;
sorda è la voce.
Perfezione della morte.
Imperfezione della vita.
Flatus vitae.
Segno tangibile.
TOPOS.
Luogo deputato della guerra dei sensi.
Le polisemie.
Il plurimo.
Il doppio.
Dietro l’altra faccia è nascosto il conio originale,
la verità che non esiste;
l’estrema finzione della vita.
Viandante oscuro.
Porto la mia esperienza.
Il mio dolore.
Il mio continuo morire per risorgere.
Imputridisco per rinascere.
il senso, mio senso.
Che genere di scrittura produco?
Produco il mio linguaggio.
Faccio esperienza dalla vita;
attingo a piene mani da essa.
In quel nodo è la bellezza della sua virulenza.
La sue violenza oltraggiosa.
Un ictus.
Uno scoppio.
Questa è poesia!
Poesia che sgorga veemente e forte.
Poesia che gioca con gli arnesi della lotta.
3.
Che si fa bellezza in questo dilacerarsi,
dissanguarsi.
Essa nasce da un atto vitale proprio da un’azione.
Si trasforma e si informa
di ciò che e avvenuto
nel luogo del passaggio,
suprema finzione dell’accaduto
e/o accadere.
Tutto succede e si trasforma.
I NUMERI
LE SCORIE.
La perfezione scardinata dai mille grimaldelli
della corruzione.
Scavo dentro.
La luce e mia come e mio il respiro.
Come e mia la voce.
La lingua fa il suo gioco e crea
il LINGUA-GGIO.
Sono tutto rotto.
L’inimitabile bellezza delle macabre danze holbeiniane
o le bambole sgonfiate
di Kunn Weber.
O la parola magica perfezionata e trasmessa
da THOTH
E L’IMPOSSIBILITÀ DI OCCULTARE IL NOME,
l’impossibilita di nominare,
inscritta nel POPOL-VUH.
La piccola morte che parla Freud e Rimbaud.
Il Dragone Verde del SOU NU KING, portatore di sapere
e di distruzione,
da questi abbecedari
enunciare lo statuto fagocitante
della poesia come voce che nasce
da uno scoppio.
4.
Il poeta e coinvolto nella vicenda
delle forze che presiedono alla metamorfosi.
Padrone del luogo occulto vive la trasformazione
continua del linguaggio.
La sua passività è connotativa
ed esorna la maschera.
Bloccato dal labirinto
sprofonda nella gamma e nella varietà
dei vettori sintagmatici che si riproducono
nelle stratificazioni dell’essere,
in una sinossi numerica e circolare
sul quadrante della sua storia.
La circolarità dunque e non il punto
è la sua dimensione.
I margini e non il centro sono
la sua forza.
Forza centrifuga che dirama i suoi raggi
su se stessa.
L’effetto della scrittura è il letargo
di questa attesa.
Di questa morte.
Calato nell’inferno dell’afasia
ne rinasce fiammeggiante e vincitore.
Vissuto dal demonico.
tenta l’“altro” della scrittura
cercando le voci del corpo, le sinapsi nervose
della più profonda matrice: ritmi sincopati
ed allucinati di questo inferno.
Forma il ritmo (il suo ritmo), la sua legge
che entra nel sentire universale.
Egli stesso, forma gelata nel suo sfolgorante
mattino vive le muffe sedimentate dell’archetipo,
del tipos balenante-SILHOUETTES nel suo divenire.
Ma il suo corpo è indistinto e incolore
:vissuto d’alba mantiene il colore dell’alba;
ombra egli stesso
del fuggitivo e labile.
In questa indistinzione di morte
(anima infernale e suggello dell’alto)
cerca l’anabasi verso i luoghi della selva
dove tutti i sentieri sono uguali.
5.
Il labirinto viene fugato e riacceso nella memoria
dolorante.
Egli si lega all’albero e attende la geometria
delle costellazioni per carpire il sigillo della genesi
Ritornando all’uomo (nel nucleo umano) è separato
dalla forma divisa del suo essere.
Egli è vissuto millenni nel bosco e in fondo al mare,
Non vuole più raccontare
perche ha vissuto l’invisibile
trascrivendolo
nella sua memoria lapidaria, frantumata, barbagliante.
Egli ha toccato i regni sepolti.
Ha guardato negli occhi demoniaci della Dea
silfide al di là dell’umano.
Ora ne piange il distacco.
Piange la separazione del suo povero
corpo effimero.
Rimpiange ciò che ha lasciato
e vive il suo esistente nella ricerca allucinatoria
del Verbo.
I boschi ormai sono vuoti, e il mare è deserto.
È il nuovo Ulisse nel ciclo della perdita,
della sconfitta.
Il suo dorato mantello giace in fondo al mare
e/o tra i verdi rami dei sentieri
impercorribili del bosco.
Sulla circolarità della terra
gli è rimasto il nudo corpo di sofferenza.
Tenta l’alchimia della frase, del verso.
L’immagine è sottesa alla rifondazione della realtà.
Compita ed enuclea sigilli e numeri.
Inutilmente cerca la verità.
Chiama la voce perduta.
La sua nascita (rinascita).
Invoca la madre,
il centro perduto, le radici, tentando i divieti.
Inutilmente scava la sua maschera
sigillata nel mistero.
Tutto cade e si dissolve.
Le macerie che lo circondano
sono macerie di morte.
Cerca la rifondazione di se stesso nel monema
delle ripetizione avvolgente e circolare.
6.
Tutte le voci confluiscono verso il centro,
quel centro che non esiste
:corrono impazzite nel punto di gravità,
il centro della testa.
E sono voci dalle diverse tonalità.
Bolla di gas che sale alla superficie
e si cancella.
Non c’e ragione se l’aria ti divora.
Il colore ti investe.
I giorni e le notti si susseguono.
Lo spettro della tua vita passata
conta per quanto di cromosomi e di morte
ti ha raccontato.
I segni si aprono sul quadrante della tua vita
e sono segni di carta.
Gli astri sovrani dell’intelligenza
e della contemplazione sono nascosti
per non raccontarti più le congiunzioni di vita
e le congiunzioni di morte.
La testa pietrificata è lì ferma
alle soglie della foresta di simboli.
L’uomo vi si inoltra per cercarvi
i sentieri tutti uguali per smarrirsi.
Il cielo coperto dalla vegetazione
non permette di guardare l’alfabetario
di costellazioni che si perdono dietro la circolarità
del pianeta.
Dietro la circolarità della testa.
Dietro la circolarità della morte.
Dietro la circolarità dell’acqua.
Primavera defunta dell’occhio:
si distende all’infinito in un gioco
di contrazioni e dilatazioni (sistole e diastole)
fino all’infinito dell’esaurimento e della rinascita.
La conoscenza è qui e ci tende la mano.
Batte alla porta.
Non ha volto.
Non ha volto la conoscenza perché siamo noi.
Sono io col mio io di carne e di sangue.
Sono io con il mio alfabeto e la mia scala di numeri
che si incardinano alla carne,
alla viva carne formando radici e numeri e voci
che sono voci di sangue vivo.
7.
Lo sforzo disumano è umano.
Lo sforzo titanico della verità
è disumano.
Il fuoco di Prometeo.
Il fuoco rubato al cielo per portarlo all’uomo.
Prima guerra dell’uomo portata a Dio.
Guerra di conoscenza.
Guerra dilacerata.
Corpo lacerato.
Mente lacerata.
Tutti i segni sono segni negativi.
Sono segni di morte.
E dove spunta la primavera della vita
là spunta, sibillino e feroce il segno della distruzione
Si può vincere la distruzione
attraverso il moto centrifugo del silenzio.
Attraverso il passaggio del corpo
da una conoscenza ad un’alta conoscenza
coprendo le stratificazioni del cielo.
L‘ascolto dell’alba.
La fusione del pianeta con l’astro del mattino.
Il sole e la luna che ritornano
sulle nostre differenze.
Sulle differenze del principio e dell’inizio.
Sceverano il giorno dalla notte
e formulano la vicenda del pianeta
nel nome del poeta che presidia alla metamorfosi.
Sono contento e mi congratulo con Marisa Papa Ruggiero per aver riportato alla luce Franco Capasso. Era un mio carissimo amico, io vivevo a Boscoreale, anche lui. Passavamo le ore libere sempre insieme con il prof. Filippo Cangemi ed il pittore Giuseppe Balzano. A volte mi chiedeva di accompagnarlo nel giro di rappresentante di commercio. Vassalli Sebastiano era spesso suo e mio commensale. A casa Capasso, in piazza, vicino a municipio, si poteva incontrare Franco Cavallo, Felice Piemontese, Alessandro Carandente. Poi si trasferì a Latina e fu lì che il fuoco distrusse la sua casa con la sua biblioteca. Ma, il fuoco è distruttore e purificatore insieme come dice Marcello Carlino nella prefazione al libro. Nacquero così “Le poesie del fuoco”. Fu l’ultimo libro che mi portò a leggere. Poi l’ho rivisto ad Ottaviano nella sua foto da scolaretto compunto, nella piccola cappella di famiglia.
Caro Violante, di Franco Capasso stiamo preparando anche una sezione nel prossimo numero di Risvolti (n. 24). Saremmo felici se volessi contribuire con uno scritto, una testimonianza.