In un pomeriggio, di quelli afosi, di questa estate del 2016 cerco un refolo di vento poetico (?) nei brevi versi di Giorgio Moio.
Inizio la lettura. Al componimento n. 9 mi fermo.
Non capisco.
Il tipografo ha commesso un errore.
Vado avanti. Lo stesso inciampo al n. 22.
Mi blocco. Ritorno sui miei passi.
Assolutamente digiuna di lingua giapponese, non avevo fatto caso alla prima arguzia che l’autore mi ha confezionato con un’eleganza pari ai più raffinati Haiku (stavolta).
Infatti, lui scrive “Ahi-ku” proprio con la h in mezzo e il trattino, che è come dire: Ahi, Ahi, ahimè et similia.
Nonostante l’intorpidimento mentale dei trentacinque gradi all’ombra, sorrido e decodifico così lo sberleffo: “Ahimè, anch’io, Giorgio Moio, mi vorrei cimentare con l’atto puro che la poësis haiku esige, ma ti propino una facezia supportata anche dalla seconda parola del titolo extravaganti.”
Penso. Extra-vaganti dove? Fuori dal seminato poetico raffinatissimo degli haiku o exstravaganti nel senso di eccentrico, bizzarro, estroso oppure vaganti in un altrove inconoscibile? Mi resta aperto l’interrogativo.
Gli effluvi del mio corpo, adesso, intorpidiscono non poco la mente e una gravezza sugli occhi ha il suo effetto soporifero e, poiché sono più avvezza a trattare di arte che di poesia, mi si sciorina davanti, inspiegabilmente, una bellissima e colorata composizione paesaggistica “ahiku”. Sì, ahiku, anch’essa con l’acca nel mezzo! E cosa vedo?
Una tela impressionista assai simile a una delle prime Ninfee di Monet, che placide galleggiano in uno stagno.
Lo scenario è colorato, magnifico, luminoso, iridescente, pieno di energie gestuali in intimo colloquio.
Osservo. Qui e là l’impressione è così vivida, che mi sembra di percepire addirittura gli odori, come in quel “volteggia franta | nella tua inquietudine:/odori freschi.” Sì, gli odori delle stagioni Haiku ora forti e gradevoli ora angoscianti e incerti.
Vedo, poi, altre figurazioni, le cui campiture sembrano ventate di colore e di trame sature di luce e di tonalità esistenziali e che rimandano suoni; suoni d’acqua, specialmente: l’acqua scivola | come ritmo pensoso:/lungo il dirupo oppure murmurea marea | frastaglia in immagini: rimandi sguardi oppure: aloni di lux | nel vento fa vortici: zampilla fughe. E l’acqua è sempre lì: il tempo pensa | fiorisce per giaggiolo: sgretolio d’acqua ed ancora: riva sabbiosa | guarda assorta nell’onda: contemplazione e così di seguito
Anche i colori sono tanti: cielo a metallo | come disteso al vento: ritorna il vano oppure nebula gloria | giorno di pioggia verde: lacrime tristi oppure ancora plaghe d’ardore | per gerani incestuosi: tramonti gialli e potrei continuare.
Ora attira la mia attenzione una ninfea, ma no!… non è una ninfea, è una campitura ampia più o meno come le altre, che ha un timbro ma non un senso riconoscibile.
In quel torpore estivo che sembra non finire mai, si fa luce un’idea.
Se l’arte, come la poesia del resto, è l’insieme della realtà e delle possibilità, Giorgio Moio ne ha scandagliata una, poi … con uno sberleffo ha imbrogliato le carte e qua e là ha spinto un suo Ahi-ku all’insignificanza, all’irriconoscibilità, come un fotogramma rovesciato e in negativo. Eppure le tracce sono lì, visibili ma non decodificabili.
A questo punto raccontare il racconto, inanellare di parole la visione del mio quadro, qua e là confuso da zone opache, anche se colorate, e contemporaneamente abitato anche da immagini sia confuse che deflagranti, non mi è facile.
La calura fa il suo gioco!
Per spirito di pignoleria e allentare la ridda dei pensieri conto le campiture, per trovare almeno una sbavatura. Ed eccola. Due volte si ripete la numero settantadue! Quindi gli Ahi-ku non sono cento, come recita il titolo, ma centouno. Altro sberleffo di Giorgio o svista? Infine conto le campiture in-significanti sono, uno più uno meno, undici.
Per capirne il senso forse la mia coscienza dovrebbe essere più vigile, ma le palpebre si chiudono da sole e il pensiero vaga rievocando suoni e parole degli Ahi-ku ma anche immagini da questi evocate. Penso confusamente che la parola è come un gioiello prezioso appeso al collo della cosa. Ma, quale delle due dice l’altra?
La parola degli Haiku o degli Ahi-ku si declina sempre al singolare, comunica immagini e pensieri, e, ripetuta o scritta, è nondimeno formulata in un tempo che non torna indietro.
Ed ancora, è l’informe che viene alla forma, ma nel caso di Giorgio, dopo averne esplorata una compiutamente, essendo profondamente consapevole del suo valore deflagrante e della seduzione che opera sul fruitore, torna all’informe, lasciando una traccia indecodificabile, però.
Perché?
Il dio degli Ahi-ku (ironico il titolo di per se stesso!) di Giorgio è Dioniso, dio della dissoluzione e della maschera, poetica nel nostro caso, in bilico tra la conservazione di un senso e il suo annichilimento.
A questo punto, tra Ahi-ku, Dionisi e ninfee, il mio torpore si dirada e una striscia gialla tracciata dal poeta si fa immagine sfuocata, lui non mi ha indicato una direzione. Quale dovrei prendere per capire che…?
Le immagini, le poesie … parlano e parlano sempre per qualcuno. Ma, nell’epoca della loro inflazione è finito il logocentrismo? Tra umanità e linguaggio, ragione e sintassi, poesia e speranza si è aperto uno iato? Sembra interrogare e interrogarci Moio.
Per leggere o fruire un’opera non c’è più calma, quiete, riflessione, solo cicaleccio, suoni incomprensibili, che ri-suonano, rin-tronano nelle orecchie, anche nel silenzio della morte della poesia.
Da sempre, in ogni opera d’arte abbiamo scorto un’opacità luminosa, che ci ha proiettati in un altrove, in un’extraterritorialità extravagante (?) che va oltre l’immagine, oltre la parola, che è stata negazione della morte.
Ora, in Giorgio Moio l’opacità luminosa ha perso la sua luce, è diventata nonsense, una sorta di breve limerick elevato all’ennesima potenza, un mormorio in cui persiste qualche traccia semantica, che vorrebbe dar luogo ad un’altra epifania poetica, ma non vi riesce. Non colpisce nel segno.
Resta in una linea d’ombra, pur lasciando intatto un suono, che non ha codice, però, e che, nel nostro caso, si configura come rumore alla Umberto Eco.
Altre domande, difronte agli Ahi-ku (?) 9, 22, 24, 29, 33, 39, 56, 63, 72, 75, 93, 98,100, si fanno chiare nella mente: il logos-nihilism prevarrà sulla poësis?
Si tradurrà in una nuova Babele o lo siamo già?
Avrà l’uomo ancora la consapevolezza che, fino a quando non riusciremo a scrivere un nuovo messaggio, solo i codici condivisi e quindi il linguaggio, qualsiasi linguaggio, ci daranno la possibilità della neg-azione del e sul mondo?
Forse, Giorgio Moio ci vuole dire, ancora una volta, che, confondendo i codici, non esisterà più memoria dei futuri perduti, che sempre l’arte ha indagato?
Giorgio Moio Cento hai-ku extravaganti YCP ed. 2016, pp. 60 (poesia)