Dichiarazione di poetica
“Fare” poesia ‒ nei decenni trascorsi, ormai non pochi, in cui ho mantenuto e mantengo rapporto con essa ‒ è stato per me, e continua ad essere, un personale, esclusivo, modo di leggere il reale e, nella dinamica interiore/ esteriore, di leggere in me stesso. Diciamo pure uno strumento privilegiato per cercare di comprendere il mondo (anche, e non solo, nell’accezione etimologica del “cum-prehendere”: prendere con sé), considerata la sua sostanziale complessità e multiformità, nonché la non trascurabile sfuggevolezza di parecchi suoi aspetti. “Comprendere il mondo” mi è sempre parso un modo consapevole di viverci dentro (e – quando occorra – tenerlo a distanza) e la poesia è stata in tal senso un formidabile ausilio. Ho avuto modo di dire, in altra occasione, che è stata per me anche una sorta di fendinebbia nei condizionamenti plurimi che l’esistenza ci impone.
Inoltre – e non secondariamente – “poesia” ha assunto per me l’equivalenza di quel che i pensatori chiamano globalmente «ricerca della verità»: un obiettivo analogo a quello della speculazione filosofica, con evidente differenziazione di strutture operative, metodologie, linguaggi. Un obiettivo comune per percorsi diversi. Tale operazione è stata altresì correlata, per me, a quella che sono solito considerare e appellare «ricerca delle essenze». La sostanzialità al di là delle apparenze. Estensivamente, un costante tentativo di aprire quelle metaforiche “porte” che tendono a permanere ermeticamente chiuse. La parola come una chiave insostituibile o una sorta di “svitol”.
È mia convinzione che l’atto di poesia, consapevolmente condotto, comporti di per sé una ricerca, mai fine a se stessa, nel cui ambito occorre far si che il linguaggio assuma un’aderenza apposita (e incondizionata, nel senso della mancanza, per così dire, di sotterranee bolle d’aria) a quel che si intende dire e che è motivazione, impulso all’atto creativo. Il linguaggio è l’ossigeno della poesia, posto il quale la poesia vive e si realizza con ‒ e in ‒ una pluralità di fattori, nessuno dei quali trascurabile, organati fra loro in un equilibrio che è frutto di téchne, ma che si avvale anche di un quid di imponderabilità, in certo senso miracoloso, che ogni poeta autentico avverte e che entra a far parte del “gioco”. L’atto di poesia come un’avventura, un viaggio di cui, ancorché si conosca il punto di partenza, non è detto debba conoscersi quello di arrivo. Ma a questo occorre giungere. E può accadere che a volte non si riesca a chiarire come a tale “punto” si sia pervenuti, poiché, per quante mirabili ‘indagini’ la poesia possa aiutarci a compiere, non bisogna dimenticare che attorno al poiéin finisce per ventilare sempre un’alea di mistero.
Un iter solitamente generatore di ricchezza interiore e parimenti capace di captare ed evidenziare nel nostro esistere quelle che un grande poeta veneto del Novecento (ingiustamente obliato), Ugo Fasolo, chiamava in senso metaforico (mutuandone i termini dalle scienze del linguaggio) “la variante e l’invariante”, peraltro titolo di un suo importante libro di versi. Il permanente e il transeunte. I piedi a terra, nella dimensione di ogni giorno, non impediscono la proiezione nell’oltre.
Personalmente, ho cercato. come meglio mi è riuscito, di vivere secondo queste ottiche, con le ineludibili lenti della poesia. L’ottica della poesia. “Il verso di vivere”.
Il resto mi preme, diciamo pure, “relativamente”.
Bagheria, 5 settembre 2019
* * *
Illusorietà del presente
Ciascun giorno ha la sua circoscritta
infinità che – metodica – la clessidra
tenta di catturare imbrigliando
lo scorrere dei granuli. Non il passato
si sottrae alla calamita dei sensi
non il futuro in attesa è l’hic et nunc
che gioca alle tre carte e la più falsa
piega l’acuminata vista.
È perché i sensi colpisce (luce d’alba
corpo di donna ampie marine ove
l’occhio respira) che pare solido
questo presente che sotto lo sguardo
si scioglie come in acqua cristalli
di sale. Il minuto successivo rinnova
l’illusione nel suo vitale impulso.
Il reale – circostante si dice –
ha pesantezze e levità misurabili e tutto
pare spingersi oltre l’istante a rendere
inossidabile il presente. Ma tutto sparisce
con l’attimo che muore mentre più è vivo
e si nega affermandosi. Nel suo sorgere
perisce e non si abbatte – virgulto di aerea
gravità – nell’avvizzire genera. Solo
la memoria è ferma finché è data memoria
perituro macigno armonia delle sfere.
(da “La porcellana più fine”, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 2002)
Migrazioni
Poter migrare
come gru
come cicogne
un balzo
verso l’alto
da un tetto
di tegole rosse
un primo
battito d’ali
e via
in direzione
dell’altrove
fra nuvole e terra
sostando
su un camino
o una torretta
e poi avanti
lontano
portandosi appresso
tutto
vale a dire
se stessi.
(da “Poesie a mezz’aria”, Lieto Colle. Como, 2009)
Cognizione della parola
Conoscerle bene le parole
il «verbi sensus» ovidiano
(come per esseri umani
quel che sono non l’apparenza)
diffidare del loro suono (del tono)
delle immagini che evoca.
Accomunando la risonanza del lemma
alla monotonia del canto
il grande Ugo si indusse errando
l’upupa a rappresentare
uccello notturno e tombarolo.
Il gufo ignora le due sillabe
cupe che lo rendono scioccamente
presago di sventure vive i giorni
innocuo l’espressione sgomenta
occhi grandi tondi timoroso
del mondo (sappiamo che è).
Shighelle e salmonelle suonano
lievi briose e (né show girls
né pietanze marine) silenti
ti massacrano.
(dalla raccolta inedita “Le ore salvate”)
Strade
queste strade non sono vuote
avranno fondamento
Pietro Cagni, Adesso e tornare sempre
Si mostra com’è – uguale e diverso –
nelle sue strade il mondo e sono
reticolo mentale possibile habitat
dell’interiore palco e non tissutale
sipario. Sono rifugio e deserto
offrono svolte e giravolte
si traversano con condiscendenza
in traverse e vicoli ostentano flussi
e riflussi lampìano attrazioni
e repulsioni frazioni e rifrazioni
rendono civici i numeri
equivalenti l’andare e il tornare
macerano macerazioni gremite solitudini.
Palermo anni Sessanta – nel clima
lucido ludico casuale del Gruppo Beta
e dei suoi poeti di strada
ho amato la Parigi notturna di Soupault
(Westwego) le brulicanti road di Kerouac
scali e scalini bordelli e marciapiedi
della Hong Kong di Robbe-Grillet
ho sogguardato un’immutata oblunga
Via Maqueda franta dal crocevia
scenico della sua Porta del Sole
con gli occhi di Nievo garibaldino
ho centellinato passeggiate furtive
con una ragazza-astro essenziale
corporeità cotidiano spirito-guida.
(dalla raccolta inedita “Le ore salvate”)
Il dono
Niuna cosa si truova più faticosa
del vivere.
Leon Battista Alberti
Affetti calcolando e dilettevoli
pause e nobili eccezioni vivere
è fatica (pure in ottica di umanesimi
presenti o scomparsi).
“La vita” si dice “è bella” (quando
lo è se non si fa terrestre inferno)
“un dono” (e si sorvola su restituzione
e rendiconto). Un prestito non chiesto
un’opportunità.
E ci attentano il male biologico
la violenza di elementi e di noi su noi
la “catena alimentare” legge di natura.
Tutto con ricorrenza d’incanti tra terra
e cielo e tenerezze effluvi sonorità.
Siamo inconsapevoli ulissidi
tra arse mura e canti di sirene.
Vivere è tautologicamente quello che è.
Quel che riesce ad essere.
Nuovo si ripete diseguale cangia.
Ruota di casinò roulette da tribunale.
“Guazzabuglio” (come l’animo umano
per il mite inquieto don Lisander).
È quel che ne facciamo (o crediamo)
spesso ciò che non vorremmo.
È quel che ne riassume la coscienza.
(dalla raccolta inedita “Le ore salvate”)
L’Assenza intemporanea
Pentavani in memoria
di nonna Giuseppina)
1.
Te ne andasti nei tuoi sedici lustri
che mi parevano quanti e fu per te
il placarsi dell’affanno di troppe
insonnie per un cuore ormai insicuro
dopo quella tua caduta di qualche anno
prima una mattina in Piazza Bagno
un cuore da impavido a malandato
che la medicina di quel dopoguerra
seppe così bene mal curare.
2.
Dell’adolescenza appena sulla soglia
sconoscevo della morte il volto
se ne avesse uno nessuna contezza
del suo appropriarsi delle immagini
altrui dell’effigie di chi ami di chi ti passa
accanto né che aria tiri quando arriva.
Ti vidi distesa immobile quattro candele
ai lati e in un lampo compresi che vivere
è movimento come lo sguardo come la parola.
3.
Fu dopo l’ultimo saluto prima dello strazio
della bara. Ti baciai sulla fronte
non più carneossa – marmo – il freddo
nelle mie labbra il segno primo – concreto –
di che significhi trapasso. Freddo silente
e complice d’una immobilità irredimibile.
L’esserci non più. Un vuoto incolmabile
il colmo di non più colmarsi il nunca más.
Le lacrime a stento rattenute in impassibile
stupore cedettero a quell’evento di strana
interiore coinvolgenza il pianto si diramò
per nervi e vene i sentimenti stravolti
in una ricorrenza ininterrotta.
Il freddo della fronte fu il saluto – il tuo –
e fu il mio addio col cuore a fior di labbra.
4.
E poi il poi. L’assenza intemporanea
lo spazio informale in cui si vanno
facendo fievoli i residui d’infanzia
l’incombente adolescenza il suo
snodarsi in turbolenze placide protratte
fino a una giovinezza irrequieta vogliosa
a volte in pendio più spesso a salire
e quei residui quelle turbolenze
rimasti in sottofondo ma rimasti.
Venne quel che diciamo il resto (con altri
pilastri) un nuovo sempre cangiante
un coacervo di giorni di conquiste ed errori
scalatori di pianure irte come monti.
Per giungere a contarsi addosso – come
all’improvviso – gli stessi anni di quando
partisti scoprirsi in proprio la tua età
di allora commisurando cifre di senilità.
Ora procedo come per claudicatio
intermittens non so per quanto
sinceramente non ci avrei scommesso.
5.
Ci rivedremo ignoro dove e quando
in specie come (un giorno a un giro
d’alba o di tramonto) e non sarà strano
trovarci in parallela età. E forse
scopriremo come l’eterno incessante
possa a quel punto muoversi a ritroso.
(dalla raccolta inedita “Le ore salvate”)