AA. VV., È necessario spiegare un testo letterario?


A proposito de Le teorie della critica letteraria di Francesco Muzzioli (Carocci, 2019, Terza edizione), recensendo il volume su «Treccani.it», 25 giugno, 2019), il filologo e critico letterario Gualberto Alvino così inizia la sua digressione: «Su quali basi teoriche e istanze intellettuali poggia la prassi esegetica? È necessario spiegare il testo letterario? Se sì, in che modo? Il critico deve limitarsi a intercettare il senso dell’opera o anche sottoporla a giudizio? E da quale specola, quella dell’oggetto o del soggetto, cercando cioè di penetrare le ragioni del testo o assumendo a guida i proprî gusti e inclinazioni?». Cosa ne pensate?

 

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Antonino Contiliano ‒ In occasione della nuova edizione de Le teorie della critica letteraria (2019) di Francesco Muzzioli, Giorgio Moio, mettendo a disposizione le pagine della rivista “frequenze poetiche”, propone di continuare il discorso sulla salute e la funzione della critica letteraria. L’idea di Moio segue la spinta che viene dalla recensione del volume fattane da Gualberto Alvino sulle pagine http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_147.html, e lì dove Alvino  individua gli interrogativi fondanti che lo stesso Muzzioli ha posto nella stessa premessa sin dalla prima edizione del libro (1994); e cioè: «Su quali basi teoriche e istanze intellettuali poggia la prassi esegetica? È necessario spiegare il testo letterario? Se sì, in che modo? Il critico deve limitarsi a intercettare il senso dell’opera o anche sottoporla a giudizio? E da quale specola, quella dell’oggetto o del soggetto, cercando cioè di penetrare le ragioni del testo o assumendo a guida i proprî gusti e inclinazioni?». (Per inciso: Francesco Muzzioli e Marcello Carlino, presenti i nodi del cambiamento, sulle pagine della rivista «Fermenti» già da tempo battono sulla necessità di riprendere il discorso critico lungo una linea di riorganizzazione che connetta storia, filologia, ideologia, psicoanalisi, marxismo e giudizi critici, perché le trasformazioni occorse non possono essere ignorate). Ora, anticipando la risposta dirimente, come suggerisce lo stesso Muzzioli (docente di Critica letteraria e Teoria della letteratura presso la “Sapienza” di Roma) nel percorso delle sue pagine de Le teorie della critica letteraria (Novecento e XXI secolo), la via è “leggere fra le righe”. Continuare a leggere testi e produzione rimanendo ancorati alla storia materiale e ai suoi processi antagonisti e conflittuali, senza perdere la dovuta distanza antidogmatica, e lontani dalla posizione dell’indifferente “differenza”. In tempo di globalizzazione e luminescenti ibridazioni pro mercato capitalistico mondializzato, fallito il modello della “multiculturalità”, fra le crisi della stessa critica, della “criticità” e l’aggressione estetizzante perpetrata a danno dei lettori/consumatori (in ogni modo assediati e frastornati), il “disagio dell’estetica” (J. Rancière), come quello della politica, non ha da indietreggiare: ha l’obbligo invece di impegnarsi in una lettura testuale anti-seduttiva, del sospetto, dello straniamento brechtiano e, non per ultimo, in chiave bachtiana.

Una posizione di intelligenza dialogica e storica (un diritto-dovere) da esercitare sui testi cui nessuno, fra autori, critici e pubblico di lettori, dovrebbe sottrarsi; figurarsi poi per un militante del pensiero critico sempre vigile ai cambiamenti d’epoca e in lotta contro le ricette ed i certificati degli uffici stampa dei monopoli editoriali. I soggetti cioè che, parte interessata, emettono sintesi semplificate e commosse sui contenuti di “genere” o d’area, mentre snocciolano i valori della semplicità, della chiarezza, della credibilità, della fiducia, della persuasività emozionale, della pacificazione, e della aconflittualità. Soprattutto pacificanti. Pacificanti e rassicurati le visioni correnti del mercato dei consumatori (di narratività più che di “testi” indigesti, come quelli, per esempio, della poesia controcorrente). Non è fuori posto, a questo punto, dire per il critico “militante” quello che J. Lacan ha scritto per le scritture (in genere) dell’arte, della letteratura e della poesia:

Il rapporto dell’artista con il tempo in cui si manifesta è sempre contraddittorio. È contro le norme vigenti, norme politiche per esempio o persino schemi di pensiero, è sempre controcorrente che l’arte cerca di operare nuovamente il suo miracolo” (J. Lacan, Il problema della sublimazione, in L’etica della psicoanalisi– Seminario VII, 1959-60).

In altre parole è come dire che è necessario vaccinarsi incorporando virus demistificanti il lavoro morto (memoria marxiana) e manipolatorio (quale potrebbe essere il ritorno del rimosso freudiano) – leggere fra le righe, cogliere le contraddizioni, sospettare dell’indifferente “differenza” che si esercita con aggressioni seduttive e manipolatorie di varia tipologia; ovvero diffidare dell’indifferenziato, finalizzato al mantenimento degli assetti riciclanti gli assi dei “poteri” e dei “discorsi” dominanti le regole del mercato e della borsa valori. I diktat cioè del mercato mondiale totalizzante che, a dosi massicce di empatia e immedesimazione sublimante e contemplativa, fidano sulla mediazione intuitiva e affettivo-emozionale immediata, mentre, sicuri, puntano ai “profitti” garantiti e gratificanti quanti, tra l’individuale e il consociato populismo d’occasione, ne condividono la logica non argomentativa o, per dirla iconicamente, con i “cuoricini”. Per cui non si lesina (ai vari livelli dell’editoria della carta stampata e web) l’espressione giudiziale – “mi piace, non mi piace” – conforme ai “decreti” di regime editoriale (come i decreti governativi che debellano la povertà e garantiscono la sicurezza dei garantiti) che impongono semplicità espressiva, povertà testuale e astinenza dalle posizioni di parte. La sterilizzazione della critica, pur nel transito delle teorie critiche, qui, mira non a “inquietare” le intelligenze quanto a banalizzare le teorie e le pratiche critiche nell’equivalenza dei punti di vista, perché né dubbio, né sospetto, né intelligere (come anche allegorizzare)  il detto e il non detto “tra le righe” deve avere diritto di parola e azione.

Eppure di vaccino critico, in epoca di culture, pensieri, modelli, politiche migranti e permanente contingenza dei movimenti non si dovrebbe lesinare la distribuzione in dose massicce (a tappetto) per ogni ordine sociale, soprattutto fra i più deprivati, declassati, indifesi ed esposti alle offerte seriali dei mercati della comunicazione tradizionale e del digitale della rete Internet. In questo ambiente, la rete web, infatti i pericoli sono maggiori e più sofisticati se si pensa che le piattaforme e i network sociali, qualunque sia il terreno battuto, chiedono sempre pareri semplificati e giudizi like (consenso o dissenso), presentando la quantificazione delle adesioni ricevute come merito o demerito “critico”. Eppure, nello sbandieramento dei milioni di consensi, raccolti nella rete globale, sappiamo che c’è del falso e dell’inganno volutamente perpetrato ai danni dell’opinione pubblica e dei singoli sprovveduti. Noto infatti è il fatto che oggi, epoca dei linguaggi digito-algebrico-elettronificati, i monopoli della comunicazione e dell’informazione digitale frattalizzata (sempre più enclosures e colonizzazione di ogni angolo più riposto della vita individuale e sociale), i signori della rete, mediante i motori di ricerca (con software programmato ad hoc) progettano i famosi algoritmi “bots” per creare falsi profili e gonfie valutazioni. Pur di non perdere il ghiotto mercato dei navigatori o dei cittadini di rete, pagano i programmatori di software per progettare algoritmi capaci di creare artificialmente (e alla bisogna) dei soggetti fantasmi (come se fossero autentiche e reali volontà personali) quali clienti attaccati alla fonte ed ai prodotti offerti. Un modo per dire che loro sono i privilegiati ed i più bravi, in quanto unici e soli in grado di soddisfare ogni esigenza, anche solo pensata o immaginata. Se acquisti un libro sul mercato online, la ditta ti mette davanti diversi titoli che altri, nella stessa occasione, hanno comprato, accumulando punti di sconto per i successivi acquisti (insieme mettono in vista link di altra pubblicità … il pesce può abboccare…). Sono programmi e progetti che, annodando macchinicamente la navigazione con il prodotto proposto, sono capaci di far aumentare in pochi secondi gli osanna delle valutazioni positive o negative; e ciò onde innalzare o abbassare la credibilità e la validità di un quid qualsiasi. Può essere il turno di un prodotto letterario, artistico, gastronomico, medico, turistico… o anche di una bufala. Non importa né il prodotto né l’intenzione del destinatario. Sono le “disinformazioni” e le fallacie che oggi vanno sotto il nome di fake news o, come hanno coniato alcuni docenti e ricercatori –  Carl T. Bergstrom e Jevin D. West – di alcune università americane – Stanford University e Washing­ton University –  i bullshit (cazzate); sì che i loro corsi sono stati aperti e condotti all’insegna del “calling bullshit” (“scova le cazzate”), ovvero della necessità di munirsi di un vaccino contro l’epidemia di stronzate, sviluppando nuove competenze e allenando il pensiero critico. Una necessità che è dettata dal fatto che oggi, più di ieri (industria fordista), la produzione e pubblicazione in rete “on demand” è dell’ordine esponenziale di milioni di pagine al giorno; cosa che rende agevole e poco controllabile la diffusione (più o meno intenzionale) di notizie incomplete, camuffate e “iperfaziose”: in una parola, un carico di “stronzate”. E in questo girone non è improbabile che passino riconoscimenti per opere e autori che di questa identità non godono. Offerti sulla base della sponsorizzazione, del presenzialismo, del leaderismo, del personalismo o dell’autobiografismo, che mistificano, per esempio, sull’analisi testuale e sul rapporto linguaggio-ideologia, rimangono, per dirla con il vecchio E. Kant, cieche intuizioni e vuota predicazione, ma utili a chi sa sfruttarne gli effetti di realtà.

Ma, a questo, si può e si deve rispondere rilanciando e diffondendo il pensiero critico come un vaccino anti-epidemia. E non ci pare un caso quanto invece una fortunata coincidenza (il mondo che prende coscienza dell’uso alienante dei bullshit digitali, ieri le menzogne del linguaggio tradizionale) il fatto che l’esigenza e l’istanza di esercitare il pensiero critico provenga unitamente dal mondo dell’intelligenza umanistica e da quello dell’intelligenza artificiale (IA). Il “dire altro” (allegoria e ideologia) non va più cercato solo nelle verbo-scritture tradizionali e nella strutturazione logico-sintattica che ne dirige significati e significanza. Il mondo dell’intelligere dei numeri, dell’algebra, degli algoritmi e dei bit oggi non è meno esposto ai rischi delle sofisticazioni vinaioli. I numeri, nel mondo dei big data, come gli algoritmi machine learning, sono diventati sospetti quanto le parole; non sono più esempio di neutralità e oggettività. In un mondo ingolfato di dati verbali e non verbali mescolati e “iperfaziosi”, diagrammati e dati in pasto con le virtù proprie delle leggi statistiche (fallacemente affermati e globalmente divulgati in gloria – sussunzione – del mercato e dei profitti capitalistici senza rivali; più facile, si dice da molte parti, è distruggere il pianeta che ammutolire o disinnescare il capitalismo e le diseguaglianze), le operazioni e le procedure di verità e valore non possono essere abbandonate agli automatismi, alle autovalutazioni e al senso comune addomesticato: va ripreso e curato un opportuno pensiero critico. Una scelta e una decisione di responsabilità etico-politica nei con­fronti di chi, consumatore, non ha possibilità di difesa alcuna! Ma, soprattutto e prima, per chi scrive e firma!

Marsala, 31 luglio 2019

 

Antonio Spagnuolo ‒ Carissimo Giorgio Moio al giorno d’oggi è oltremodo difficile parlare di “critica”, perché almeno per quanto riesco ad intravedere nel panorama culturale contemporaneo il vero critico, quello con la C maiuscola non esiste più. Un approfondito saggio critico appare come un’eventualità rarissima, anche perché oggi non esiste più “la stroncatura” che tanto bene faceva agli scrittori esordienti. Oggi chi presenta un libro non fa altro che invitare il pubblico a comprare il volume e a leggere qualunque cazzata venga proposta. Il testo letterario dovrebbe essere digerito a fondo da chi si appresta alla critica in modo da essere pronto a spiegarne i contenuti, nella luminosità della scrittura che si propone. Spiegare il lavorio che si intravede nella pagina e accertarne il valore culturale. In fine il critico dovrebbe esprimere chiaramente il suo parere esprimendo un giudizio che sia capace di coinvolgere il lettore nel vortice della comprensione del testo. Il critico dovrebbe riuscire anche a coinvolgere nella interpretazione, proponendo delicatamente il suo gusto e il suo pensiero filologico. Tutto questione di maturità!

 

Lucia Stefanelli Cervelli ‒ Concordo pienamente su quanto hai chiarito. Oggi in pochi posseggono strumenti idonei e troppi non posseggono quella alta liberalità dello spirito e del gusto che lo sganci da motivi spurii o faziosi.

 

Ciro Ilario De Novellis ‒ Risposte che possono dare solo critici e bravi avvocati. L’orientamento di chi non fa parte di queste categorie può essere solo il riferimento degli addetti, il consiglio di questi e l’indirizzo che ne sapranno consigliare. Attendiamo!

 

Ilia Tufano ‒ Ogni lettura è una interpretazione, tanto più significativa quanto più rigorosamente motivata, l’opera si arricchisce così di nuovo senso, la sua vita si moltiplica perché ogni opera ha bisogno di lettori che, interpretandola la fanno vivere, così mi pare di poter dire!

 

Lella Buzzacchi ‒ Il critico G. Alvino pone domande assai impegnative; mi piacerebbe conoscere le sue risposte, ma provo a rispondere al di là del pessimistico commento del Sig. A. Spagnuolo. La prassi esegetica dovrebbe basarsi sulla interpretazione critica del testo, secondo la preparazione, esperienza e sensibilità del critico, il quale dovrebbe farlo il più oggettivamente possibile, tenuto conto dell’ovvio coinvolgimento e della base culturale dello stesso, fattori da cui nessuno può essere avulso. G. Alvino si chiede se è necessario spiegare il testo letterario, ma l’analisi del testo credo sia la prima cosa che il critico fa, per poter poi produrre il suo scritto finale, dal quale dovrebbe scaturire il suo giudizio “spassionato”. Questo naturalmente in senso teorico, perché penso che sia impossibile penetrare le ragioni del testo estraniandosi completamente dalle proprie inclinazioni. Quindi, quanto all’ultima domanda di G. Alvino, credo che il risultato dell’opera critica sia un misto di oggettivo e soggettivo, che aggiungono qualcosa di nuovo al testo stesso.

 

Giuseppina Lesa ‒ Molto diversa appare l’opinione degli artisti riguardo ai cosiddetti critici all’inizio del percorso e, quando, un po’ più avanti nell’esperienza e nell’età, non si trova più così fondamentale una opinione altrui sul tuo operato.

Come ti dicevo, la mia esperienza si è protratta per lunghi anni in pittura e incisione calcografica e sempre, nelle presentazioni di mostre e cataloghi, ho ritenuto importante l’intervento di una “persona altra” rispetto all’artista per portare il lavoro fatto alla gente che visitava l’esposizione. Nel 2000 ho iniziato anche a pubblicare alcuni scritti, sull’arte e sulla vita e successivamente a comunicare attraverso una scrittura essenziale, divenuta verso.

Posso dire che in entrambi gli ambiti ho avuto contatti con critici seri i quali, prima di valutare il lavoro visivo o poetico, hanno voluto conoscermi e parlare con me.

Ritengo fondamentale una ricerca delle tematiche che l’autore vuole esprimere, alle volte nascoste o di difficile interpretazione. Mi pare evidente che il critico investa di suo nella presentazione di un libro, filtrando il lavoro col setaccio delle sue esperienze di vita, dei suoi ideali, dei suoi valori… è umano! Ogni nostra azione non può essere asettica ed esimersi da noi stessi.

Questo per quanto riguarda i contenuti; per quanto riguarda l’indagine stilistico-espressiva, la metrica, il lessico, la struttura, forse i parametri di giudizio diventano più universali e il loro rispetto è doveroso.

Anche se in questo caso, le innovazioni più eclatanti nell’espressione artistica, sono derivate sempre da una rottura con lo status quo e dall’osare strade non battute.

Posso dire che ultimamente prediligo, durante le presentazioni di raccolte poetiche, usare il linguaggio dell’intervista, nel senso che il critico, pur esprimendo la sua opinione, si mette “al servizio” della parola dell’autore, cercando attraverso alcune domande rivolte al poeta, di portare il testo stesso alle persone presenti.

L’Arte non si spiega, si gode, si assorbe, si interpreta liberamente e, per me, è una grande gratificazione ascoltare gli altri che comunicano, attraverso i miei lavori, situazioni e pensieri lontani da quelli che mi hanno portato alla loro realizzazione.

 

Ennio Abate ­‒ Sì, a leggere la recensione di Alvino, questo di Muzzioli pare sia davvero un buon « prontuario, utile allo studente e allo specialista non meno che al cultore della disciplina» e si possono ben condividere sia il suo «appello finale: “‘Imparare a leggere’ vuol dire investire attenzione e concentrazione per ‘leggere tra le righe’ la posizione dell’oggetto-testo» sia l’atteggiamento apparentemente di semplice buon senso (ma di questi tempi quasi audace!) contro «una sorta di ‘atto di fede’ – a quello che ci appare il [critico] più autorevole» (specie tra quelli ora traslocati sul Web).

Mi pare però che Muzzioli resti in un atteggiamento allarmato e difensivo («che cos’è una società che non può permettersi la critica? È ancora una società degna di questo nome? Perché là dove la critica manca c’è oscurantismo, negazione di parola, comportamento coatto; recuperarla in tutti i suoi aspetti, metodi e strumenti è perciò augurabile») e non indichi nuove strade da tentare.

Contemporaneamente all’invito di Giorgio Moio ad intervenire su questa recensione di Alvino, ho letto sul «Laboratorio di letteratura» di Alberto Casadei il testo della sua «Lettera aperta a Walter Siti» sulle idee di letteratura attuali, uscita su «L’età del Ferro», 3, aprile 2019(http://www.laboratoriodiletteratura.it/?p=551 ) e, malgrado possa parere antipatico metter su un confronto non richiesto, la segnalo lo stesso. Sono convinto, infatti, della necessità di spezzare i recinti e far conoscere ovunque una posizione come questa che tenta di produrre un «cambiamento rispetto ai paradigmi dominanti negli anni Sessanta-Settanta, con lo strutturalismo e la semiotica a fare da base scientifica e poi tante altre discipline o tanti altri paradigmi gnoseologici a interagire o a eccepire, dalla psicanalisi alla linguistica, dal marxismo all’heideggerismo o al derridaismo in varie salse». [1]

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[1] Da sottolineare, in riferimento alla recensione di Alvino, anche questo passo: «La totalità del testo allora non è più un assioma da venerare? Chi decide cos’è rilevante e cosa no? Dobbiamo tornare a discernere poesia e non poesia, o al limite a procedere per clic spitzeriani? Per certi aspetti credo che sia quello che implicitamente si fa sempre se vogliamo non limitarci a descrivere un testo bensì proporre un’interpretazione che abbia qualche fondamento non meramente razionalistico. Francamente sono un po’ stufo dei critici atmosferici che, per esempio, s’impancano a dire di tutto su Dante senza capire nemmeno la necessità stilistica della terzina, così come dei sedicenti critici che hanno come massimo obiettivo il loro ego che trova la novità a tutti i costi, fregandosene di ogni verosimiglianza. Molto meglio chi da una base certa, filologica, storica ma anche antropologica, mirando a riconoscere un nucleo di senso rilevante, e poi, su quel fondamento, provi a comprendere meglio come nasce l’idea di un’opera: non è che si debba per forza ritrovare l’etimo profondo dell’autore, come magari sognavano i primi critici psicanalitici, ma è necessario porsi in una dimensione autenticamente di critica *genetica*. A me pare che gli strumenti che cominciamo a maneggiare consentano interpretazioni più piene anche partendo solo da dettagli, impedendo sia l’asetticità del notomista, sia la stravaganza del libero lettore».

 

Alfonsina Caterino ‒Penso che il valore e la ricchezza della rivisitazione critica sul testo letterario, come prassi contemplata fino ad oggi, vada ancora perseguita e applicata, in quanto è la parte che ottimizza la letterarietà e la completa, apportando all’opera gli elementi extratestuali, come il costume, la psicologia, la politica e le ideologie in cui essa è ambientata. Il critico Gualberto Alvino ci chiede se è necessario spiegare il testo letterario. Io credo di si, che è importante spiegarlo per risaltarne, come nella tradizione dello studio della critica letteraria, la ricerca e le riflessioni che hanno accompagnato l’autore a produrre quel determinato lavoro. Ed anche per definirne e classificarne le tecniche di scrittura elaborate, affinché se ne individuino ed indaghino le finalità. Tale passaggio dell’opera, per me rappresenta un momento essenziale per sdoganare l’opera dal suo ambito natale e, sottolineandone le categorie di saperi, i concetti, lo stile e gli argomenti trattati, renderla proposta d’Arte Universale. Per quanto attiene il limite che un critico deve osservare o meno per intercettare il senso dell’opera, senza sottoporla al proprio giudizio, penso che sia pressoché impossibile richiedere l’impersonalità del giudizio estetico ad un critico letterario. Egli non si limiterà mai ad analizzare un lavoro, sia esso romanzo, poemetto, scultura, quadro ecc… senza che lo stesso sia filtrato dalla sua raffinata esperienza umano-critico-letteraria. Questo è un rischio che è bello correre. E ben vengano anche i giudizi negativi dei critici; importante che non siano suscettibili di pregiudizi e non siano il prodotto di schieramenti faziosi. Oggi il mondo della cultura, secondo me, necessita più del passato di questa figura, per raffrontarsi, evolvere dalle proprie posizioni e rinverdire il vecchio detto : “Poesia-Non Poesia”…

 

Carlo Di Legge ‒ Non ho mai pensato di fare il critico letterario, anche se esprimo le mie considerazioni agli amici che mi mandano libri, credo sia cosa del tutto diversa. Tuttavia, leggendo quel che c’è in giro, voglio dire qualche piccola cosa che penso, visto che l’amico Giorgio lo domanda.

Credo che il critico percepisca il senso dell’opera, perché questo capita a ogni lettore, anche se critico, e poi ogni lettore fa “un po’” anche il critico, no? Se siamo fortunati, un’opera trasmetterà sensi diversi, e almeno uno il critico lo “prende”, e ce lo dice.

Perché giudicare? Perché “criticare” stando ai dizionari vuol dire “giudicare” e se ogni lettore è giudicante, figurarsi il critico. Questo è il cuore della domanda, meglio che sia anche il cuore della risposta: io credo che il critico dovrebb’essere così onesto da entrare nelle ragioni del testo e dell’autore, e anche, come avviene, se quello ha scritto cose di cui non era del tutto consapevole, e che emergono dalla lettura d’altri, il critico dovrebbe mostrarle. Dico quindi sì alle ragioni del testo, quelle evidenti e magari altre non così evidenti. “Specola dell’oggetto”, per stare alla terminologia usata da Alvino: ma leggo “specola” come il baconiano “specus”.

In aggiunta, domando: è mai possibile fare di se stessi tabula rasa, quando si legge un testo altrui, tanto da impedire che intervengano giudizi o idòla che sono della propria caverna? Ricordo che Gadamer e Popper hanno messo in evidenza come i propri pre-giudizi o idòla (specus, theatri), finiscano sempre per intervenire, è così, non se ne può fare a meno, anzi questo può essere un fatto positivo (ma non sempre lo è) ai fini della scoperta e della creazione di strade nuove dell’interpretazione.

Ma forse può essere, un critico, oltre che onesto, attento. Ci sono modi produttivi d’intendere; ci sono modi di fraintendere fertili e modi dannosi. Aggiungere senso nuovo a un’opera può essere operazione fertile, fraintendere o radere al suolo anche quel che sta in piedi è operazione di guerra totale, distruttiva. Che facciamo? Sono diverse e molte le opere di valore, le consideriamo sempre sulla scorta di quel che pensiamo e sentiamo, ma basta attenzione e onestà (intellettuale).

Siamo tutti diversi, per fortuna. Vogliamo l’omologazione dell’altro che leggiamo ai nostri gusti e alla nostra formazione oppure intendiamo creare le condizioni per la comprensione della diversità? Attenti, critici, nel sottoporre a giudizio. Passaggio necessario ma insidioso. Attenti ai propri gusti e inclinazioni. Attenti, bisogna entrare nella mente di un altro, quando si parla, si legge, si comunica con un altro.

Finisco con un paio di considerazioni.

– Il critico non stabilisce posizioni di potere, per cui attesta che non sono cose che sono, e che sono cose che non sono, rigirando l’aria fritta: basta pensarci un attimo, non faccio un gioco di parole ma parlo di fatti; ho visto gente molto colta, e sedicenti critici, direttori di collane di case editrici importanti, li ho ascoltati bastonare (a parole) i malcapitati eletti nemici (in contumacia o no) cercando di dimostrare che anche alcuni illustri mandarini di turno della nostra Italia delle lettere, sono dei deficienti, solo perché sono “nemici”;

– esistono linguaggi che comunicano e linguaggi che allontanano, tra l’altro; il critico quale linguaggio usa? A leggere certi brani di scrittura c’è da restare allibiti per via dello sfoggio di termini tecnici e assai inconsueti: per sapere cosa il critico sta dicendo, forse c’è da studiare per una super-laurea aggiuntiva o forse nemmeno servirebbe. Mi succede questo; eppure per quanto mi riguarda uso entrare nei pensieri più astratti che siano stati mai concepiti, per intenderli. Così mi sorge la domanda: il critico vuole esporre qualcosa al lettore oppure vuole marcare una soglia per determinare la differenza tra un critico e un comune mortale? O cosa? Andiamo, signori critici. Siate buoni, sebbene critici, fateci capire cosa scrivete!

 

Fiorella Cennamo ‒ Umberto Eco affermava che la critica letteraria deve sempre considerare le ragioni dell’ autore, i motivi che lo hanno spinto a scrivere l’opera da esaminare, il vissuto in cui è calata.

 

Paolo Allegrezza Di critica (militante) vi è assoluto bisogno. Occorrerebbe un discorso critico che distingua tra letteratura di consumo, nel cui ambito rientrano anche scrittori non di genere ma acquisiti al campo della “leggibilità” (alla Ciabatti, Scurati, Murgia) e gli altri che lavorano su ipotesi di lettura del reale attraverso il linguaggio (Bortolotti, Ottinieri e altri). Diverso il discorso per la poesia che, come al solito, in Italia è molto più vivace della prosa e sulla quale andrebbe aperto un dibattito sulle diverse poetiche in campo. Infine, se il critico, oltre a decodificare il senso dell’opera, non la sottopone a giudizio, non si capisce cosa ci stia a fare.


 

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