FRANCO CIPRIANO, Avvento, rivelazioni e trascendenza di Luca [Luigi Castellano] (Annotazioni per una immagine impossibile)*


Cari / compagni posteri! / Rimestando / nella merda pietrificata / di oggi studiando le tenebre dei  nostri giorni, / voi, / forse, / domanderete anche di me / (…) / Ascoltate, / compagni posteri, / l’agitatore / lo strillone. / ricoprendo / torrenti di poesia / cavalcherò / volumenti lirici, / parlerò / come un vivo ai vivi. (…) / Ma io / mi sono domato / da solo, / ho camminato / sulla gola / del mio stesso canto.
Wladimir Majakovskji

Non è che il passato getti la sua luce sul presente / o il presente la sua luce sul passato, / ma immagine è ciò in cui quel che stato / si unisce fulmineamente con l’ora / in una costellazione
Walter Benjamin

 

Assenza – Dire ora di Luca è più difficile di quanto si possa pensare. La contemporaneità della storia chiede semplificazioni, per Luca invece è un”‘discorso” complicato, ché di lui non si può raccontare se non interrogandosi sui suoi scarti di pensiero in opera e sugli slittamenti, quelli visibili e quelli “segreti” o “misteriosi”, che ne hanno distinto la vita nell’arte e nelle relazioni sociali e personali. Di solito la scomparsa sembra dare meno responsabilità nel parlare d’una persona, ancora  più di un artista. Per Luca è il contrario: la memoria si fa acuto presente, ha echi problematici quanto affettivi. Nel dicibile di Luca la testimonianza si fa crocevia di riflessioni e sentimenti, di distanze e di coinvolgimenti. Luca è stato una voce “in tempo reale”, rivolta all’insorgenza delle mutazioni di una controversa contemporaneità, per la quale, nella sua visione, non vi era tattico adeguamento al clima d’epoca ma inesausto “strategico” combattimento dentro il “sistema” di compatibilità culturale e sociale. Anche quando proiettava nel passato e nel futuro le sue polifoniche scorribande verbali, la tensione era di uno sguardo che percorreva il tempo del presente cercandone le “crisi” profonde e le superfici del loro occultamento, nell’arte come nelle comunicazioni sociali. Se la sua provocazione “profetica” era di un sogno diurno che annunciava la destituzione di senso per quello che egli chiamava lo “struttural-funzionalismo” della ideologia della politica (produzione, organizzazione, diffusione e consumo), della cultura e dell’arte, la sua azione era espansivo  e riflessivo “disegno” di contropotere della comunicazione e dell’immaginazione. Lo sconnettere le parole e le cose dalla dominazione istituzionale – della politica culturale, della critica, della storia, dei dispositivi espositivi – segnava il progetto di un vitale persistenza del movimento dello “stato di cose esistenti”. In ogni pensiero e gesto già covava il loro contrario e oltrepassamento.

Per Luca nel “presente come storia” ac-cadevano passato e futuro. Non vi era facile utopia nel suo “sogno di una cosa”, nessun sole dell’avvenire, la sua forza di resistenza e conflitto era interamente innervata dal disagio della contemporaneità, iscritta nelle ineludibili “sofferenze” dell’azione artistica svolta come vicissitudine dell’esistenza indisponibile alle narrazioni dei dispositivi di potere della “macchina del consenso” culturale. Le insorgenze del gesto polemico, offensivo, decomponente, sono state effrazioni del tempo, lacerazioni delle connessioni predominanti tra linguaggi – verbali, visivi – e realtà. La diffrazione temporale allora aveva le tonalità prefiguranti dell’arte come gesto di rivolgimento “totale” nella deflagrazione dei linguaggi come magma incandescente che in mille rivoli decompone la storia del potere, delle sue cronologie, delle sue ornamentazioni, delle sue rassicuranti e consolatorie dissimulazioni.

In un suo scritto la visione si fa una scrittura che “agisce” e “annuncia”, nel tono di un declamante impeto profetico: «Un giorno la nostra opera apparirà almeno come la presa di possesso di figurazioni pure recuperate con occhio vigile e gesto assolutorio; quel giorno ancora noi faremo qui la pittura con tutto affinché essa nata da temperature e proclami, torni ad risplendere viva dei colori della invisibile pelle del mondo. Purché nascano, come qui sono nate opere argute, geniali, allarmate, rivolte contro questa epoca in questo luogo» (Luca, affiche, mostre Galleria Chiurazzi Napoli e Galleria San Matteo Genova, a cura di «Documento – Sud», 1963).

Annunciazioni – Il “progetto” immaginativo – visionario, anche – di Luca era, dunque, nella “potenza di agire”, nell’energia di s-definizione delle con-formazioni di senso della cultura e dell’arte “di sistema” che, al suo sguardo inquietamente meditante quanto provocatore, predispongono i rapporti sociali e culturali come rapporti di classe.

Un’altra lettura forse è possibile. Il gesto non il progetto è nel movimento “antagonista” di Luca. L’estremo possibile della sua visione non era dall’arte al politico: al contrario, è stato un detournement che rivolgeva nell’arte la forza del conflitto politico. Di certo, non per un’arte della politica, bensì per un’arte politica, di “azione politica”. L’impossibile “compito” era quello di destrutturare la dominante rete “sistematica” di detenzione e sedazione sociale dell’arte e degli artisti, per liberarne l’eccedenza “eversiva” del gesto immaginativo, revocandone la collisione con i linguaggi del potere politico istituzionale. L’azione “politica” dell’arte si delineava come il grimaldello per un sabotaggio della struttura dell’arte come ‘agenzia’ di potere dei linguaggi.

Luca era un agitatore che attivava gli artisti nell’opera di azioni comuni contro la loro medesima “rappresentazione”; la sua performatività “ribelle” accadeva fuori e contro la gestione politico-istituzionale del dispositivo pervasivo “dell’arte di società”, quand’anche questa si mostrasse nei suoi versanti di “opposizione” e/o di “innovazione”, di fatto e di concezione concordante con la stabilizzazione dei poteri culturali. «La nostra coscienza è svincolata nel senso di una perenne rivolta, e la rivolta è volta ad una perenne libertà. Il mondo seguiterà a girare: soltanto che noi possiamo affermare con certezza che nei secoli, di sicuro, c’è stato e ci sarà sempre un solo principio che determina tutte le azioni finite di questo mondo: la rivolta…» (Luca, «Documento – Sud», n. 2).

Corpo – La “voce” di Luca era una stratificazione inquieta di probabile e improbabile del tempo e dei percorsi dell’arte. Eterogenei impeti rivoluzionari (le sue incursioni spaziavano senza tema di  spaesamento ideologico dal ricorso al decisionismo staliniano alla critica “situazionista” delle forme dello spettacolo del potere, dal leninismo dell’idea di Partito al fascino della destrutturazione anarchica dello Stato). Con tagliente realismo, anche di strategie relazionali, senza sentimentalismi ma con il piacere della persuasione seducente, in riflessivo riconoscimento del senso dell’altro. Nel suo poliedrico – e pervasivo – antagonismo, che diffondeva le sue devastanti critiche “a destra e a manca”, traluceva la consapevolezza del significato del “nemico”, senza negarne l’identità; la sua offensiva ne salvava in qualche modo la necessaria presenza di conflitto. Sanguineti diceva che il linguaggio cruciale era la voce-parola, la provocazione verbale, iperbolica – violenta e suadente, insieme – che affascinava al di là della congruenza teorico-critica del senso del “discorso”. Costruiva e decomponeva egli stesso le sue declamazioni, inventandone retroscena e prospettive, mistificandone “ironicamente” le citazioni e con-fondendone paratatticamente le logiche.

Il suo “autorevole” corpo – organico “dispositivo” di affermazione prepotente del gesto irriverente, era il grembo d’improvvise intuizioni e di decostruttiva intelligenza, eccedente di forme, gesti, suoni, immagini – si presentava come organo polimorfo di rivolte dell’esistente, “corpo attivo” di un pensiero “paradossale”, sconfinante e insieme accentrante. Movimento della “rivoluzionarizzazione” (di Luca, frequente neologismo, per indicare la dinamica dei processi di trasformazione) dei linguaggi nel conflitto sociale come conflittualità dei linguaggi medesimi, fuori delle coesistenze pacifiche col “regime” delle tendenze dell’arte e della cultura. Una corporea alterità oppositiva si faceva spazio, irruente progettazione di strategie del rifiuto e della “critica di classe”, irruzioni di apocalittiche immaginazioni per memorabili narrazioni di autobiografici scenari relazionali e culturali. Racconti d’incontri con la “malanapoli” (’e guagliune ’e malavita) e performanti addii “ideologici”, irriverenti sfregi verbali della Storia degli storici (Argan nelle invettive era un riferimento ricorrente), incontrollati furori sulla “cricca critico-mercantile”. Ne scrisse Umberto Eco della invadenza della sua “parola corporea”: «[…] Fu quando caddi prigioniero di Luca. Succede, arrivando a Napoli, mentre tu finisci un dibattito o una conferenza, arrivi un uomo grande e violento, che si impadronisce di te e ti restituisce a familiari ed amici due giorni dopo. E per tutti i due giorni ti condurrà, imprecando contro l’universo, precisando la genealogia per parte di madre di tre quarti dell’establishment critico, profetando riforme dell’università, massacro di padri coscritti, deportazioni di dissenzienti, deflorazione di galleristi…» (L’impassibile naufrago, catalogo, Guida Editori, Napoli, 1986).

Il “corpo militante” di Luca destituiva dunque la spettacolarità del sistema delle rappresentazioni dell’arte spostando la critica della rappresentazione sul versante delle contraddizioni della “società di classe”.

Il volto di Luca era “un campo di forze”, mobile territorio di forme instabili. Cercava sempre la sua faccia, come in uno specchio interno; si guardava mentre guardava, perché non poteva che mostrarsi nel suo continuo dissimularsi, sembrava distaccarsi (una personale ermeneutica del sospetto) dal senso del suo dire, dalla medesima “immagine di verità” proiettata dalle sue visioni, per accedere alle tonalità di un impossibile rivelarsi, di sé e del mondo. Era l’insospettabile natura tragica di Luca, dove agivano in estenuata lotta l’idem e l’alter, l’uno annodato all’altro, in irrisolvibile conflitto, come testimonia un fotomontaggio degli anni sessanta, con il suo volto replicato sui torsi di una scultura antica di corpi in lotta.

Apocalissi – Luca è stato un diffusore di consapevolezza del”disagio” dell’arte. La sua assenza “militante” e “critica” è invero antecedente alla morte, sostituita da collaborazioni con fondazioni e istituti dell’ultimo moderno, nelle forme rielaborate, di citazione o di recupero delle stagioni neo-avanguardistiche più problematiche, nella consapevolezza della dilatazione dei linguaggi in “gesto totale” come esperienza di vita. Dal Manifeste de Naplès (1959) alle ultime diramazioni per una comunicazione di attivazione politica della cultura – edizione del giornale/rivista «Città&Città» e nel lavoro di mobilitazione sul territorio circumvesuviano (Portici, Ercolano) di eventi performativo-espositivi – l’opera svolge una coerente controversia col tempo dell’arte e i suoi dispositivi. Si erge come “corpo” di un pensiero attivo ed eccedente, contaminando l’immagine istituzionale della “città politica della cultura e dell’arte” di un’alter-azione immaginativa per una “rivoluzione” possibile della autocoscienza della soggettività “creativa”. Insorgente versus ogni stabilizzante e consolatoria declinazione delle forme e sistemi di assestamento nello spazio delle relazioni dominanti. Nel sommuovere tradizione ed innovazione, scavandone i “corpi” e le “funzioni” societarie di contenimento della dirompenza culturale, sociale e politica della immaginazione del possibile.

Il manifesto Contro l’arte e gli artisti (testo di Luca, con un corrosivo disegno di Geppino Cilento) fu una radicale, problematica “invettiva” in opposizione alla rappresentazione sociale dell’arte e delle sue “tendenze” nell’era capitalistica. L’arte e i suoi “operatori” tecno-culturali (gallerie, mercato, musei, storici e critici, riviste e rubriche d’arte dei giornali…), nella visione di Luca, era strumento di mediazione che parcellizzava le attività artistiche, ne divideva i gesti di rivolgimento “creativo” nelle classificazioni del successo “mercantile” e nelle iscrizioni storico-accademiche; acquietava o differiva, negli spazi e nei tempi delle razionalizzazioni di sistema, la conflittualità delle contraddizioni sociali e di cultura. Una visione “apocalittica” che aveva radici eterodosse, poliedriche e anche polemiche con le insorgenze  napoletane già di lateralità poetico-critica di inizio Novecento (Futuristi, Circumvisionisti, Concretisti).

Trasfigurazioni – La presenza “contemporanea” di Luca è l’evocazione di una passione sacrificale, di un “eroico” e scandaloso “fallimento”? Di una melanconica memoria del tempo “in rivolta”? O, piuttosto, di una necessità di “contro-storia” che riveli la complessità conflittuale in una narrazione sottratta agli schemi di nuovo “perbenisti”, museali e mercantili, della società dell’arte e della cultura? «… Noi non crediamo alle purificazioni, anzi siamo convinti che la vitalità dell’arte dipende dalla varietà dei suoi ingredienti, dalle esperienze inutili o insensate, dall’accettazione spregiudicata dell’“antipoetico”, dell’“antiaristocratico” e dell’“anti-tutto” (Editoriale di «Documento – Sud», n. 3).

La spettacolarizzazione di un “sistema” persuasivo – di sollecitazioni espositive del consumo dell’arte – ha le sue esigenze semplificatorie e accomodanti, e riesce anche ad assorbire le dirompenze e ad integrare aspettative e “falsi movimenti” nel circolo delle opportunità, con consolante (e precarissima) visibilità. Un’illusione di vitalità affidata alle spoglie e ai resti che un pensiero già troppo “debole” riverniciava come simulacri di una improbabile scena del nuovo “contemporaneo”. Il “situazionismo” personale di Luca insorgeva nella deriva delle rivoluzioni dell’arte verso la loro inscenazione di coesistenza politico-culturale, nella neutralizzazione della conflittualità dei linguaggi nelle simulazioni di una sedata storicizzazione o di una linea del consumo mediatico-mondano di arguzie trans-memoriali. Se nell’ulteriorità delle pluriforme dell’arte, i linguaggi dell’avanguardia artistica e culturale “covano” il loro inevitabile, socialmente compatibile ricomporsi in cronaca e storia degli stili, allora per Luca, era necessario cercare i luoghi, gli strumenti e il senso oltre le soglie della produzione formale della ricerca, incatturabile dalle traduzioni di potere del segno artistico: il conflitto di classe, i suoi spazi, le sue urgenze, la sua soggettività operaia rivoluzionaria. Era “a guardia” dell’originarietà del gesto dell’arte, fino a trans-formarne, come in un fedele tradimento, la libertà di senso in un’interazione con le necessità immaginative della mobilitazione e della critica politica.

Di un’avanguardia inattuale e postuma, Luca forse era il testimone paradossale, sovraesposto, che aveva cura della sua attiva obliquità – di pensiero e di azione – nel tempo fenomenologico del presente. La sua idea trasmutante di contemporaneità può avere eco nella riflessione di Giorgio Agamben: «[…] l’appuntamento che è in questione nella contemporaneità non ha luogo semplicemente nel tempo cronologico: è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma. E questa urgenza è l’intempestività, l’anacronismo che ci permette di afferrare il nostro tempo nella forma di un “troppo presto” che è, anche, un “troppo tardi”, di un “già” che è, anche, un “non ancora”. E, insieme, di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi».

Risvolti – Il “realismo” di Luca era proiettato nell’altrove di una metanoia, di una radicale conversione dell’arte a tessuto connettivo di un movimento in perenne trasformazione, ad evocare un senso dell’azione sempre “in antagonismo”. Con il rischio anche di una simbolizzazione “estetica” del gesto che invece ambiva a risuonare come performante corpo in stato di agitazione critica e operante, fuori, o, anche, a volte, sui margini della “finzione scenica” di sublimate e rassicuranti “storie d’artista” che pervadevano (e pervadono!) la cronaca culturale. Nell’estremo tentativo di sconnetterne la fondazione, su “storie di sistema” lanciava i suoi strali, inveiva e ribaltava, con-fondeva e provocava, accoglieva e negava, in un esuberante (e tragico?) dissenso da  tutto ciò che non aveva respiro di eccedenza.

Luca pensava l’arte come irrevocabile persistenza umana, inventio “potente” della singolarità del gesto “in opera” nel mondo: «L’arte durerà fin quando l’essere umano proietterà la sua ombra», dichiarava a risposta alla mistificante vulgata dell’idealistico preannuncio della “morte dell’arte”. Alcuna “sublimazione” critico-storico-estetologica poteva declinare il destino dell’opera umana, pur quando essa sprofondasse, come nel tempo attuale, nella sua auto-dissoluzione soggettuale, verso le tensioni della crisi dei linguaggi del soggetto nel post-umano, in-umano e oltre-umano. Anche in questi ambiti di “performazione” del soggetto il passaggio kenotico è comunque, dissolvimento “creativo” delle forme del linguaggio che celebra la “metamorfosi del tempo” dell’arte.

Il passaggio inesausto delle “provocazioni” di Luca – manifesti, riviste, mostre eterotopiche, gruppi, declamazioni, azioni, scritture, opere – ha segnato dagli anni Cinquanta agli Ottanta di pulsioni estese sul corpo disagiato della “umanità dell’arte”. La presenza di Luca non è stata mai identificata perché sfuggiva e rientrava, facendo collassare consenso e contrarietà, oltrepassandosi in un aleggiante angelo ribelle sopra e dentro la sua Napoli, plebea e preziosa, vitale e funebre, opportunista e “rivoluzionaria”. Luca era un anticorpo culturale “necessario e possibile”, come amava dire della sua azione di sommovimento “im-possibile” della storia delle rappresentazioni dell’arte. Azione intensamente contra-dicente, maledicente l’epoca e generativa, in modi virulenti e seducenti, di “ipotesi” di futuro.

Rivelazioni – Il gesto corporeo di Luca era nel paradosso di un “falso movimento”, a volte in un sinuoso spostamento, come se ogni spazio fosse una scena su cui “interpretarsi”, sublimando la sua energia originaria in esplosive “scene” in cui il gesto e la parola erano tutt’uno, come nella corporea verbalità del plebeismo napoletano evocato nel gesto onomatopeico, quando sensazione e percezione diventano unica espressione. Luca era un organismo in espansione inarrestabile che coinvolgeva, accoglieva, allontanava anche. La sua interlocuzione  era estensione che si auto-rifletteva,  non mero compiacimento narcisistico ma tensione critica che coinvolgeva lui medesimo, anche quando scrutava con occhi che sezionavano l’interlocutore o si con-fondeva con le storie tragiche, comiche e/o di gioiosa rivolta del mondo. Luca attraversava il mondo da fermo, come era fermo a Napoli dalla quale non aveva mai pensato di andar via, né da dove si era troppe volte allontanato: andava a Roma, soprattutto, in fugaci (contraddittorie?) visite a Emilio Villa, Mario Diacono, a Renato Guttuso e ad Antonio Del Guercio, qualche volta a Enrico Crispolti. Da Napoli, Luca immaginava di essere proiettato nello spazio multiverso del mondo, dall’energia “vulcanica” delle sue “invenzioni” di gruppi, movimenti, riviste, come si rappresentava in un memorabile fotomontaggio del 1966, Napulione ’e Napule, un’opera-collage in cui il suo volto, con cappello di carta di giornale inventato dai muratori, era inserito nella foto del corpo obeso di una scultura antica di un satiro, per ombelico la spirale patafisica, a cavalcioni dell’immagine di un mappamondo espulso e lanciato nel cielo da una eruzione del Vesuvio della quale il magma era rappresentato dai nomi delle sue riviste e gruppi.

Incroci – Incontrai Luca, avevo quattordici anni, alla mostra “Proposta 66” nella Federazione del PCI di via dei Fiorentini, che visitai al seguito di Antonio Davide. La sua verbalità, esuberante e metaforica, mi sembrò subito di “profondità” inaccessibile. La parola di Luca era inarrestabile, sconfessando e celebrando, indicando e destituendo “valori”. Corporeità tentacolare della parola dove risuonavano il passato, il presente e il futuro dell’arte, il loro senso e il loro non-senso, in un inestricabile nodo di contrasti e differenze, di opere, storie, artisti. Perché in Luca sorgeva inarrestabile e “violenta” la parola contro-dicente dell’arte, in questo veramente “contemporaneo”, se questo controverso termine dice la prismaticità del tempo che si moltiplica nelle molteplici forme del senso, fuori di ogni “regime” stilistico del linguaggio, anche di quello neoavanguardistico e sperimentale. Era un corsaro che cercava orizzonti ancora “invisibili” della coscienza del reale, all’assalto delle pretese dominanti di ogni sistema culturale e dell’arte. Il suo era un errare sulle vie del possibile, spostandosi continuamente, restio a qualsivoglia stabilizzazione. L’attualità dei conflitti e dell’esporsi dell’arte era coinvolta in  una inattuale erranza nella memoria antropologica di Napoli popolare e plebea. Le sue riviste furono lo spazio in movimento di quest’ambivalenza, tra dialetti e lingua, tra sottosuoli sociali e emergenze culturali del tempo. Ci fece conoscere. a noi studenti dell’Istituto d’Arte Palizzi di Napoli, del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti, desideranti di novitas di critica sociale, e di essa inquieti “propagandisti”, i primi semiologi e studiosi di comunicazioni di massa. La questione del linguaggio – tra espressione, comunicazione e concettualità – era per lui un’ossessione che si è svolta lungo diversi crinali, pittorici, di scrittura, architettonici, letterari. Anche quando (per alcune “interpretazioni”) sembrava saltata nella intenzione di una tematica espressione d’immediatezza “propagandistica”, la questione del linguaggio restava il senso ineludibile della dinamica comunicativa nell’“arte di azione politica”. La “riduzione culturale”, attraverso ribaltamenti di stereotipi memoriali, segnici e figurali, semplificazioni concettuali, iperboliche “illusioni del senso”, era nella visione medesima del progetto dell’arte “di lotta” che Luca proponeva. Alcuni dei giovani artisti che parteciparono, con vitalità d’idee, organizzazione e operatività, agli interventi di arte di azione politica, nonostante le intenzioni “riduttive” coinvolgevano nelle opere/azioni – negli interni di spazi culturali e sociali e nell’esterno urbano – intensità e singolarità di linguaggio che avrebbero avuto, negli anni ottanta, percorsi neo-autoriali di interrogazione della singolarità dell’opera come spazio/materia del pensiero visibile.

Segni – La sua storia artistica e culturale è una storia d’interrogazione politica del linguaggio. La questione che emergeva, nella sua interpretazione dell’arte, era la possibilità del linguaggio visivo di essere all’altezza “progettuale” del conflitto sociale e contro-segno dell’immaginazione politica. L’avanguardia che in questo senso più lo riguardava era il cubo-futurismo russo, di cui echeggiava l’attitudine rivoluzionaria insieme alla ricerca sui linguaggi, soprattutto verbo-visivi, di una comunicazione ideografica più che di messaggi. Majakovskji, Sklovskij, Burliuk, erano le citazioni ricorrenti nei suoi pamphlet verbali sulle “generazioni dei poeti della rivoluzione”.

I collages Contestazioni, dalle pagine della stampa ritagliavano e ricomponevano scritte e foto, erano già negli anni Sessanta viaggi nel meccanismo dei linguaggi e ne snidavano la convenzionalità portando in luce interrogazioni inedite sulle cose e gli eventi del mondo. A volte furono addirittura profetiche visioni come la tavola sulla Cina o sulla crisi del lavoro. Della “poesia visiva” fece sempre problema, mai acconsentì a una meccanica interpretazione (immagine più parola = poesia visiva); la sua idea era di un processo di anatomia degli stereotipi della comunicazione e attraverso un ribaltamento di senso (con le tecniche collagistiche di scomposizione e slittamento) “innescare” l’opera in una detonazione di contro-senso.

Dal “nuclearismo” alle ultime mappe segniche, la impegnativa opera di Luca è stata di cercare, oltre il soggettivismo, le coordinate di un via tecno-immaginativa del linguaggio, in una serialità del differente, per la quale ogni “immagine” componeva l’identità segnica in movimento.

La radice delle sue opere era in una dialettica tra forma ed evento. Fin dalle sue “macchie” o “impronte” si declinava il contrarsi e il dilatarsi della materia pittorica nelle possibilità di una forma nello spazio indefinito del fondo nero. E lo spazio venne in seguito strutturato da iconogrammi geometrici, sorta di ermetici campi topologici  che furono il nucleo della successiva elaborazione di scrittura visiva come “immagine di un segno” mentre la parte informale sviluppò la serie dei “trans-o-types”, orme di slittamenti di non-forme reticolari interrotte da strisce orizzontali come segnali di una visione perturbata o di una ricerca strutturale del “metamorfico”. Le sue scritture ultime, sviluppate anche in un’oggettualità totemica, erano le trascrizioni di una lingua a-temporale, una grammatica dell’invisibile e dell’indicibile, in cui, nell’eco delle annunciazioni di Emilio Villa, risuonava – e risuona – il silenzio del Signum e la radice immemorabile del Verbum.

Percorsi – Le riviste «Documento – Sud», «Quaderni» e «Linea Sud» furono le pagine d’incontri degli artisti napoletani con i movimenti artistici nazionali, europei, americani. Generazioni “offensive” di artisti che ribaltavano la tradizione dell’imagerie napoletana e con polimorfiche tensioni espressive contrastavano le nuove astrazioni formalistiche. E di poeti e scrittori, tra i quali l’inesauribile sperimentatore Stelio Maria Martini, il costruttore di alchimie immaginali Enrico Bugli e Luciano Caruso, istoriatore di polisemica intelligenza, che sondavano le dilatazioni e contrazioni della parola, verso l’immagine, il segno e l’oggetto. Dal “Gruppo 58” al “Gruppo P66”: Luca fu il “provocatore guida” (Emilio Villa) di una irruzione della avanguardia artistica nella cultura e nella società napoletana. I suoi “compagni di strada” si estendevano dentro e oltre le riviste e le sue “proposte” espositive, dall’autonomia di Mario Colucci alla complessità di Enrico Bugli, con le singolari irruzioni di Rosaria Matarese e Rosa Panaro, fino ai membri di gruppo Guido Biasi, Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello, Sergio Fergola  e Mario Persico, col quale il rapporto fu più intenso e proseguito in reciproci “ascolti” anche negli anni Settanta, avendo in comune l’aver voluto restare a Napoli, non seguendo l’emigrazione tra Milano e Parigi degli altri del “Gruppo 58”.  Sanguineti aveva scritto della esplosiva particolarità dell’arte a Napoli, nel contesto essenziale della imagerie popolare, una radice antropologico-culturale che era la forza radicale delle opere di “nuova figurazione” di quegli artisti, tra territorio del magico, dell’archeologico, delle iconografie urbane. «Napoli è forse il centro più veramente vivo di cultura figurativa che oggi esista in Italia, e può vantare questo suo primato, a mio giudizio, da parecchio tempo: è vero che il resto della penisola non pare avvertire il fatto, ma bisogna dire che il peggio è toccato, e tocca, nel caso, al resto della penisola. […] Quanto poi a ciò che è specifico della cultura figurativa di Napoli, ebbene, chiunque conosce la “Scuola di Napoli” sa quanto questa pittura, proprio come dicevo ora, sia pienamente radicata,ferocemente radicata, proprio nella sua stessa forza di eversione, al suolo in cui si sviluppa: caso unico,oggi, in Italia» (Edoardo Sanguineti, Il Marcatrè, Lerici Edizioni, Milano, 1964).

Conflitti – Pulsioni immaginative d’inedite trasmutazioni tra struttura, immagine e parola rivelarono singolarità di ricerca in dialogo con nuove teorie estetiche. Riferimenti furono Opera aperta di Umberto Eco e poi Ideologia e Linguaggio di Edoardo Sanguineti e, per altri aspetti, la dialettica negativa dei filosofi francofortesi. Erano artisti “in movimento” che sprofondarono nelle viscere della città con opere “allarmate”, “contro il tempo”, che sorgevano come segnali di una trasformazione “necessaria e possibile” dell’arte, istanze di reinvenzione dei linguaggi segnico-immaginali nelle situazioni culturali delle realtà urbane.

L’azione di Luca nelle sue aperte conflittualità, trovava risonanze nel contesto nazionale ed europeo, dalla esperienza della rivista «Quindici» al “Gruppo 63”, per esempio. La sua prospettiva di un’arte di gesto politico conflisse con l’intenzione di altri  modi di interagire con la situazione culturale e sociale, modalità tese alla ricerca di un ampliamento della sfera dei linguaggi, aperti più a contaminazioni e declinazioni “sperimentali”. Luciano Caruso e Stelio Maria Martini furono, insieme ad altri, i propulsori della linea di rivitalizzazione critica dei linguaggi della stessa “avanguardia”, con radici controverse in quella “storica” e prese di distanza da quella “contemporanea”. Il cammino di Luca, invece, aperto sul crinale delle tensioni politiche, era proteso alla configurazione di movimentazioni dei linguaggi e degli artisti verso la coscienza della loro “proletarizzazione” e quindi a inserirne il lavoro e l’attivazione individuale nel pieno della critica della società capitalistica e delle sue rappresentazioni. Due diverse forme di “situazionismo” tracciarono i percorsi dei protagonisti delle riviste «Documento – Sud» e «Linea Sud». Si delineò un “situazionismo” (Caruso e Martini) che fratturasse il sistema dei linguaggi per un’altra contemporaneità della pratica artistica, sfociante nella sottrazione autoriale dell’opera come mediazione di risoluzione istituzionale; di contro, Luca con un eterodosso “situazionismo” di scomposizione della coesistenza tra arte e potere e di attacco alla divisione categoriale e classificatoria dei linguaggi e delle tendenze. Un’evidenza di questa divaricazione si mostrò, negli anni successivi, nella mostra/catalogo L’impassibile naufrago,  allestita a Villa Pignatelli. La rivista «NO», nuovo operativo di comunicazioni di massa e cultura di classe, ultima rivista “di contestazione” militante promossa da Luca insieme ai giovani artisti di “Proposta 66”, diceva Luca,  non fu accolta come “documento” delle riviste sperimentali perché nel giudizio dei curatori della mostra e del catalogo, era una pubblicazione eminentemente inclinata sul piano politico-ideologico. La vicenda, in vero, fu la verifica non solo della frattura all’interno dell’avanguardia napoletana ma eco di un dibattito che attraversò l’arte e la cultura d’avanguardia italiana in modi anche aspri. Vicenda che fu rappresentata dalla diaspora nella rivista «Quindici», che coinvolgeva diverse opzioni della neo-avanguardia italiana con presenze di forte singolarità culturale, da Sanguineti a Balestrini, da Vassalli a Guglielmi, da Barilli a diversi altri. Tra i redattori e tra i collaboratori di «Quindici» ci fu una frattura di coloro i quali pensavano il lavoro artistico d’avanguardia di fatto come “impegno” politico, che non avesse bisogno di farsi parte del “movimento”, in un ruolo “militante”, con quelli  che pensavano che in quel momento, come in altri sconvolgimenti storici dei rapporti sociali e di civiltà, l’arte doveva risuonare di  un allarme della coscienza, e corrispondere anche con l’arte  alla necessaria possibilità  dell’azione politica militante. I “linguaggi immaginanti” dovevano esporsi nelle urgenze di comunicazione ed espressione del conflitto epocale.

Esposizioni – Nel “Gruppo P66”, Peppe Desiato, Antonio Davide, Peppe Pappa, Quintino Scolavino, Renato Brancaccio, Giuseppe Maraniello, Crescenzo Del Vecchio, Gabriele Marino portarono oltre l’opera e la sua definizione il gesto dell’arte. Luciano Caruso scrisse per Luca e il “Gruppo P66” testi di forte intensità. Altri testi teorici, Le parole e le cose di Michel Foucault (testo che fu di riferimento per la esperienza dell’“Unifilm”, progetto-manifesto e pratica di “multi visioni” performative che coinvolgevano gli stessi operatori delle proiezioni) e i testi di semiologia di Roland Barthes e Umberto Eco, indicarono la nuova apertura “performante” di Luca e del gruppo. Istallazioni ambientali, azioni urbane e interventi performativi come gli show-off, irruppero, nel territorio regionale e in spazi nazionali, indicando il percorso “performativo” dell’arte nelle emergenze delle questioni sociali. La storia dell’arte contraria è più complessa e andrebbe ricostruita con ulteriori riflessioni ed estensioni (Stefano Taccone ne ha fatto una ricerca di intensa partecipazione culturale e politica, in parte raccolta nel suo libro La contestazione dell’arte e ampliata dal volume, di prossima uscita, La cooperazione dell’arte). Il tempo delle riviste (negli anni Sessanta), dei gruppi e dei “manifesti”, per Luca furono confronti rilevanti della cultura nazionale, con i già citati Edoardo Sanguineti, Emilio Villa, Umberto Eco, con artisti come Enrico Baj e con presenze europee come il gruppo Cobra e i Situazionisti.

In un numero del «Il Marcatrè», rivista delle neoavanguardie, un’indagine sulla cultura e l’arte a Napoli mise in luce insieme la unità nella ricerca di una  apertura dinamica alle nuove “tendenze” europee e internazionali ma anche registrò tensioni e diversità  di sguardi sulla contemporaneità tra gli stessi protagonisti, artisti, intellettuali, storici e critici.

Immaginazioni – Saltavano ogni logica i suoi “discorsi” patafisici (era il Rettore dell’Istituto Patafisico Partenopeo). Fuochi d’artificio della parola rimbalzavano in ogni dove, tra politica e arte, tra storici e mercanti, tra santi e poeti; in un crogiuolo di ardenti immaginazioni il mondo veniva stravolto e proiettato oltre ogni senso e non-senso. Performer ante litteram, nelle serate patafisiche Luca “lievitava” in sublimi arabeschi verbali, ramificantesi in allegorie erotiche, metafore sessuali, circonvoluzioni para-filosofiche, “male parole” e fantastiche catastrofi dell’arte, narrazioni porno-foniche e improvvise autocritiche ideologiche che ne facevano riemergere l’anarchica radice immaginativa.

Quando ci s’incontrava nella sua cantina-studio, in via S. Tommaso d’Aquino, Luca richiamava i suoi “dialoghi” con Sanguineti e Villa, dei quali aveva assoluta venerazione, raccontava dei suoi scontri con i politici e critici comunisti “guttusiani” e delle sue amicizie francesi come Jean Paul Sartre, Julien Blaine, Alain Robbe-Grillet, Daniel Cohn-Bendit. Di Guttuso però riteneva importante l’identità del segno figurale come indice politico di appartenenza “di classe” e in qualche modo l’artista neorealista fu per lui un termine dialettico, venato di “intima” ammirazione pubblicamente dissimulata. La critica culturale del neorealismo in Luca era sempre in consonanza con una evidente ammirazione etico-politica. Se, ad esempio, del neorealismo non sopportava la semplificazione espressiva nazional-popolare anche ne indicava la capacità di legame iconografico “democratico”, che dava “immagine”, quasi codice figurale, alla “cultura di classe” si diceva, al partito in realtà. Luca era coinvolto nella possibilità di dare identità di segno alla visibilità della lotta di classe. La sua “Avanguardia” era antiavanguardista, era postazione nelle trincee della lotta, non ricerca di nuove istanze di stile nella produzione dell’arte come dispositivo “capitalistico-borghese” dell’innovazione delle forme delle merci.

Nel sottoscala del suo “minimale” studio, in un palazzo dietro la Questura, affumicato dalle cinquanta Players che fumava, Luca disegnava i suoi negozi, mentre immaginava tensioni rivoluzionarie e resurrezioni “democratico-popolari” della avanguardia dell’arte con progetti d’interferenze dell’arte nella comunicazione sociale e politica. Là, in un ambiente giallo di colore delle pareti e di nicotina, passarono intellettuali, artisti, studenti, politici, in “assembramenti” programmati o occasionali. Là nascevano gruppi, manifesti, azioni, riviste, manifestazioni e mobilitazioni studentesche, mostre, ibridi accadimenti: era il tempio dove si andava di mattina fino alla sera ad ascoltare, proporre e farsi coinvolgere.

Nei pressi del suo atelier, la “Libreria Minerva” era uno spazio in cui, fin dagli anni Sessanta, Luca organizzava mostre e incontri. Intervenire nel “sistema” delle esposizioni era un aspetto di strategia politico-culturale. Aprire varchi e fratture per dissestare il sistema delle gallerie mercantili. Luca espandeva in altri territori i progetti di movimenti e gruppi di arte di provocazione urbana e di attivazione sociale degli artisti. A Caserta, con Attilio Del Giudice e Andrea Sparaco promotori, e con la presenza di Andrea Ventriglia, Carmine Posillipo, Giovanni Tariello, Livio Marino ed altri, stimolò la costituzione de “La Comune Sud”, con una produzione di contro-comunicazioni che trovarono interessati commenti di Luigi Nono, Renato Guttuso, Umberto Eco. “Junk Culture”, gruppo aperto – animato dalle presenze dei succitati artisti casertani, insieme a nuove presenze –  di intervento urbano (collocò su via Caracciolo, a Napoli, il memorabile “Monumento al Padrone” un assemblaggio di scarti e frammenti  di varia provenienza, immersi in una unificante, gessosa patina bianca). Luca Palermo – giovane storico, studioso attento delle esperienze degli anni Settanta – ne ha indicato origini e percorsi nel suo recente volume Caserta 70, movimenti artistici in Terra di lavoro (Terre Blu, Caserta, 2018).
A Marigliano, invece,  in una memorabile serata, in occasione di una mostra di “Prop Art” nello “Spazio Incontro”, dialogò vivacemente con Leo de Berardinis, in quel tempo operante, col suo gruppo di teatro, proprio in quella città. L’idea di una diffusione eterotopica dell’arte – di strada, di teatri, di circoli, di scuole – fu, per Luca, la linea di un progetto politico- culturale che non fosse mero ornamento poetico-formale delle “contraddizioni sociali” (oggi, la cosiddetta “arte pubblica” si dibatte in quest’ambiguità) ma divenisse azione di lotta sui temi, negli spazi, negli obiettivi del movimento di classe. Il suo situazionismo era “guerriglia” per squilibrare lo spettacolo istituzionale delle “agenzie di sistema” che il capitalismo riproduceva in ogni suo potere. Una presenza, provocata da Luca, di interferenza situazionista furono gli interventi di “affiche”, ma realizzati da me (L’Italie est ouverte) e Gaetano Gravina (Amerikan Dream), come gruppo Ist.Art, nella Rassegna d’Arte del Mezzogiorno del 1970.

Passaggi – Verso fine anni Settanta Luca ebbe la direzione artistica della “Numerosette”, una galleria dove, tra altri eventi, fu progettata e allestita la discussa quanto polemica mostra “La scuola di Napoli” e un’intensa esposizione sulla scultura a Napoli, presentata da Antonio del Guercio. Poi alla Libreria Guida, nella storica Saletta Rossa, promosse le mostre di “Prop Art” e altre esposizioni di artisti, da Roma e Milano, comunque autori di pratica “politica” dell’arte, come Giovanni Rubino, artista originario di Ischia – già attivo nel gruppo “Operativo Sud 64”, promosso da Luca di cui oltre a Rubino ne facevano parte  Carlini, Dentale, Diodato, Gennaro, Pattison, Piemontese – poi trasferitesi a Milano dove fu l’animatore del Gruppo di Porta Ticinese.

Il compimento politico-culturale del percorso di Luca sfociò nella collaborazione con il gallerista Peppe Morra, in una significativa interazione critico-operativa con Matteo D’Ambrosio. Col progetto “Istituto di scienze delle comunicazioni visive”, Luca cercò di realizzare la visione di uno spazio polifonico che dal percorso avanguardie, neo-avanguardie, post-avanguardie traesse la proposta di un circuito di culture dei linguaggi in interazione con visioni di ricerca per inediti “palinsesti”, stratificazioni e interferenze tra scienza, arte, letteratura…

Non amerebbe essere interpretato come eretico dell’arte come storia umana, ma sabotatore dell’arte come “sistema” e del “sistema dell’arte”. Pensava di essere ortodosso continuatore delle avanguardie storiche, interrogazioni della crisi dell’arte che incrociavano le ideologie rivoluzionarie, forme in movimento della cultura, dell’arte e delle società, linguaggi continuamente instabili, aperti al divenire e al possibile di una trasformazione dell’arte come nella vita medesima, ovvero nella situazione comune delle espressioni di trasformazione sociale, non nel “vitalismo” dell’esistenza individualistica “dell’artista”. Il manifesto “Contro l’arte e gli artisti” (1971) testimonia della ideologica visione di un “comunismo artistico” senza “artisti”, in obliqua polemica con la “società estetica” del progetto teorico di Filiberto Menna.

Situazioni – Ambiva essere multiforme e controverso, coerente nella sua inesplicabile ambiguità, estremo provocatore e insospettabile moralista. Luca era per sé e contro di sé. In un esuberante paradossale immaginario che declinava le inquiete mobilitazioni universali mentre faceva problema della loro concreta eventualità fino ad un perplesso commentare. La contraddizione interpretativa era la sua verità visionaria della storia. La realtà non era univoca e unidimensionale, perfino il gesto rivoluzionario era, per lui, atto che interrogava l’essere nel senso del nulla (“L’essere e il nulla” fu un indicativo manifesto, eco dell’esistenzialismo sartriano).

Aveva capito che la realtà è un “falso movimento” di apparenze, mode, simulacri, reclame: scenari inevitabili del mondo come consumo e del consumo del mondo.

Nel suo antagonismo “non divideva il si da no”, la sua riflessione sulle cose era ambivalente, nell’affermare negava e viceversa.  La sua opposizione al sistema, il suo “No”, aveva sempre una via operativa, propositiva, organizzativa, che diveniva anche flessibile in situazioni di dialettica con spazi istituzionali, in una ricerca di eccedenza rispetto alle forme regolamentari delle partecipazioni e delle proposte di linguaggi. Mentre indicava una via, ne pensava anche i modi per modificarne la direzione in corso d’opera, sapendo che ogni intervento di contestazione doveva essere pronto a spostamenti e flessibilità nelle forme e negli obiettivi. Luca non pensava la lotta in termini di “resistenza”, ma come attivazione disarticolante della critica operante. Pur essendo sempre stato un “comunista con la tessera” Luca era in ascolto delle voci “rivoluzionarie” extra-istituzionali. Dialogava particolarmente con le analisi e le “mobilitazioni” di “Potere Operaio”. Sensibile alle espressioni di linguaggio, grafico e verbale, nei testi, i manifesti e ‘narrazioni’ faceva proprie le tensioni antagonistiche degli scritti degli “operaisti”, iscrivendone l’eversività teorico-culturale nella sua controversa fedeltà al valore e primato del Partito.

Movimenti – In fondo la “Prop Art” fu proposta che ambiva a riscattare in termini di ricerca la possibilità di un linguaggio d’intervento nel movimento di classe che non fosse di “rappresentazione” ma di azione. Come, tra l’altro, aveva indicato l’evento “Politikaction” (Scafati 1972), radicalizzando il senso di arte d’impegno sociale, in  consonanza con le posizioni più militanti della rivista «NO» (promossa da Luca nel 1969, e che fu area di collegamento tra generazioni “sessantottine” e le nuove presenze degli anni Settanta: Antonio  Dentale (già partecipe di gruppi negli anni Sessanta) Geppino Cilento, Rosario Boenzi, Peppe Desiato, Quintino Scolavino, Giuseppe Maraniello, Peppe Pappa, Antonio Davide incontrarono Patrizio Esposito, Franco Cipriano, Adriano Mele, Gaetano Gravina, Ciro Esposito e gli artisti casertani della “Comune 2” e del gruppo “Junk Culture”, alcuni romani come Nunzio Solendo, Luigi Quintili e Andrea Volo e milanesi come Valerio Miroglio e l’emigrato Giovanni Rubino). La “Sala Rossa” della Quadriennale di Roma del 1976 fu il compimento “apocalittico” della Prop Art. L’intervento di critica anti-autoriale (bandiere rosse tutte uguali, firmate dagli artisti, con, al centro, l’affiche di contestazione alla Quadriennale) in uno dei luoghi istituzionali della “identità” dell’arte italiana sancì la rivelazione “politico-culturale” del movimento e il suo conclusivo dissolversi in altre individuali e/o comuni percorsi, a volta di discontinuità essenziale e di aperture ad altre anche divergenti esperienze. Del resto, Luca medesimo interagiva la sua “rivolta” politica dell’arte con un percorso di ricerca su aspetti semiografici del linguaggio (le “Immagini di un segno”, ad esempio).

La “Prop Art” è stata un’esperienza densa di conflittualità, di dibattito anche aspro, con alcuni gruppi esterni e anche tra  i partecipanti alle sue attività.  Esemplare fu la polemica a distanza con il “Collettivo per una totalità concreta” –  formato da Luigi Pezzato, Renato Salier, Giuseppe Rossi e altri –  teso a rivendicare alla ricerca sul linguaggio la mera valenza  sociale e “politica” dell’arte. O col gruppo “Humor Power”, sollecitato da Crescenzo Del Vecchio, che coinvolse diversi artisti anche di provenienza dall’esperienza del «NO», come Geppino Cilento. Ne facevano parte Ernesto Jannini, Silvio Merlino, tra gli altri, i quali in seguito formarono il gruppo degli “Ambulanti”, intervenendo con l’ironia del gioco performativo e degli spiazzamenti di senso di istallazioni nei luoghi urbani. Dopo la prima azione-mostra, ci furono partecipazioni plurime, sollecitate da Luca per fare del progetto non un “gruppo” ma un “movimento” espansivo. Si viveva l’esperienza con articolate intenzioni e iniziative, in merito alle implicazioni ‘militanti politiche e alle forme di pratica dei linguaggi. Articolazioni di questa “movimentazione” di opposizione furono collettivi e gruppi operanti in Campania, soprattutto nell’area napoletana (“Gruppo Rosso 2”) e nell’agro-nocerino sarnese, a Scafati – con attività di interventi nello spazio urbano dell’O.C.T. (Operativo Comunicazioni Territorio) formato da artisti visivi, musicisti, performers) – di dove, teoricamente e in pratica, ebbe origine la svolta verso la “Prop Art” segnata dalla mostra-evento-laboratorio “Politikaction” (Centro Sud Arte,1972). Un collegamento di Luca con Ferrò (Antonio Ferro), operatore di un’arte politica “di comportamento”, provocò, nella Saletta Rossa di Guida, la rassegna-manifesto “Experimenta”, in cui artisti di ‘prop art’ innervarono di  segnali “napoletani” la presenza di artisti e poeti visivi italiani e  internazionali, in operazioni di critica dell’arte e dei suoi dispositivi, sui quali operava l’artista argentino Horeste Zabala, legato alle teorie-esperienze del teorico  Glusberg.

La Prop Art non era un gruppo omogeneo, aveva nelle sue componenti tensioni “teoriche” e operative nell’interpretazione del senso dell’arte di propaganda. Il rapporto arte politica, come era nelle visioni “originarie” dei primi protagonisti, di “Prop Art”, era “cellula indipendente” nel “movimento”, non del movimento, attiva nelle sue scadenze, temi, lotte ma non soggetta a prescrizioni organizzative e di “linee politiche”, né a vincoli di conformità di segni della comunicazione come dei tempi e linguaggi delle azioni.

Insorgenze – “La lunga linea rossa”, come Luca identificava il percorso dell’arte divergente dai percorsi istituzionali, è una vicenda dell’arte a Napoli che procede dal 1960 al 1975. È un percorso non lineare, d’intensa, articolata pluralità di espressioni, segnato dalla passione civile degli artisti che, nella molteplicità delle loro ricerche, annodano i fili tra linguaggi dell’arte e contesto culturale, sociale e politico. In questo “movimento” dei linguaggi, le prerogative individuali, almeno nelle intenzioni più radicali, tendono a cedere di fronte all’urgenza di essere nelle lotte e di dare ad esse immagini forti e “riconoscibili”. Quella che nei primi anni Sessanta è una presenza critica dell’arte che disarticola il panorama degli stereotipi e dei vecchi e nuovi conformismi dello “stile”, nel corso del tempo, attraversando gli anni della rivolta culturale e delle lotte sociali degli anni 68-75. Con la rivista «NO», nuovo operativo di comunicazioni di massa e cultura di classe, e con la mostra “Politikaction” (1972), al Centro Sud Arte di Scafati, si fanno evidenti le scelte di attivare processi di comunicazione e operazioni artistiche dall’interno dei movimenti di lotta sociale e politica. Con le esperienze di “Prop Art” (dal 1973 al 1975, la prima attività vide protagonisti lo stesso Luca, e Franco Cipriano, Ciro Esposito, Eugenio Esposito, Toni Ferro, Franco Lista, Adrano Mele, Salvatore Vitagliano) si esprimono, in modo radicale, le opzioni di azione politica dell’arte, teorizzata e sperimentata nelle mostre-laboratorio presso la “Saletta Rossa” della Libreria Guida di Napoli e praticata sul territorio da singoli e gruppi, con una molteplicità di interventi che, dalla comunicazione grafica alla installazione, dalla fotografia agli audiovisivi, dalle azioni di “teatro-immagine” agli happening urbani, hanno segnato una singolare esperienza (lontana dall’arte “impegnata” di ideologia neorealista) di espressione artistica della critica politica, del sociale e allo stesso tempo del “sistema borghese dell’arte”. I testi di Luca pubblicati in manifesti, cataloghi e nelle riviste, rendono efficacemente le ragioni e gli obiettivi di quelle esperienze, che si conclusero con l’evento espositivo della “Sala Rossa” alla XI Quadriennale di Roma del 1975.  E in quegli anni, esemplare nella sua sconnessione dei confini dell’azione di “contestazione critica”, fu la collaborazione con il gruppo di musica popolare e operaia (formato da lavoratori dell’Alfa Sud) “opposizione” politica dei “Zezi” di Pomigliano d’Arco. Memorabili testi di canzoni che hanno segnato in modo indelebile il percorso del gruppo. Evidente allora che quella di Luca è una vicenda ancora da riflettere e indagare, avendo una trama di complessità ideologico-operative e socio-comportamentali che non si presta ad una semplice descrizione dell’evidenza pubblica delle opere/azioni, ma che rivela una sofferta e irriducibile interrogazione dell’arte e del senso delle sue attività nelle epoche dei grandi allarmi sociali.

Interazioni – Luca aveva intuito che era necessario andare oltre il mero volontaristico raggruppamento artistico e cercò di attivare progetti d’interventi nella comunicazione di massa, prima con le teorizzazioni del “neo-vedutismo”, interventi sulla immagine della città (da cui nacquero gli eventi di “Paesaggi e Paesaggi”, al centro “Ellisse” di Salvatore Pica, eventi multimediali promossi insieme a  me da Adriano Mele e Ciro Esposito), poi fondando la rivista «Città & Città», alla quale parteciparono altre giovani presenze dei movimenti dell’arte a Napoli, artisti, aspiranti storici e critici, studiosi di nuovi linguaggi (tra i quali Matteo D’Ambrosio e Gabriele Perretta). E anche nelle istituzioni della formazione culturale (Luca faceva interventi – come “cultore della materia” – all’Università di Architettura in Semiotica e poi in Filosofia del linguaggio alla facoltà di Lettere e Filosofia), e poi fu docente negli Istituti d’arte) e nell’organizzazione dell’arte e della cultura, la sua azione fu politica di rottura delle compatibilità di “sistema”, didattico, organizzativo o relazionale che fosse.

Le strategie di movimento comprendevano diversi luoghi e pratiche di lotta. L’arte e gli artisti erano “operai di cultura”, che dovevano partecipare alla strategia di azione critica e di socializzazione della contestazione della natura di classe dello spazio dell’arte. Gli strumenti e le forme dei linguaggi dovevano essere nella trasformazione dei rapporti sociali e della cultura di massa. L’attivazione politica dell’arte era movimento che doveva muoversi nel divenire delle cose.  Doveva essere un percorso inafferrabile e diffusivo, provocatorio e “progettuale”. La partecipazione ai “progetti” di Luca era di “eteromorfica’ militanza”, si articolava in una differenza di attitudini individuali sul piano espressivo e di opzioni più propriamente politiche, di partito, di gruppi, di movimenti. Lo spazio unitario era la pratica dell’arte come segno di conflitto con l’esistente, rifuggendo da mero impegno alla rappresentazione delle “figure” della lotta di classe.

Le vie del contro-senso in Luca furono “ortodosse”, un pensiero disciplinato dalla visione “rivoluzionaria” della realtà. Aveva una sua ragione inesplicabile che contrastava con la “anarchica” esuberanza delle sue narrazioni. Ma oltre agli aspetti visibili e attivi, aveva una dimensione “segreta”, una propensione al “silenzio”, alla ritrattazione dell’immagine e delle rappresentazioni in ordini prelinguistici, in tracce di oltrepassamento della parola e delle iconografie, nella ossessione radicale di tutta la sua via dell’arte: una scrittura dell’essere che  fosse operativo cifrario di un senso prima del senso delle cose. Forse la sua ultima presenza nei luoghi napoletani delle “post-avanguardie”, più che costituire un’incoerenza, era la tensione operante del suo dibattersi tra il dentro/fuori dell’arte e dei suoi linguaggi estrema risorgenza di un protagonismo sospeso su una soglia in cui il possibile si trovava nella memoria dentro dell’“impossibile”, del suo “attivismo” di contropiano degli anni di furore extra e anti istituzionale.

Bibliotheca – Luca aveva con i libri un rapporto inquietante. La sua libreria era un armadio nell’ingresso della casa in via Pasquale Rocco, chiuso con ante e inaccessibile agli sguardi. Lo apriva solo a pochissimi con il tono di rivelare un segreto. Libri ordinatissimi e senza segni di “consumo”. Del resto la sua “confessione”: «leggo solo l’indice», quasi con orgoglio dichiarava. Ma era evidente dai dialoghi che intratteneva con gli amici che li sfogliava almeno e ne leggeva le parti le quali lo intrigavano per una memorizzazione che poi riversava in modi alquanto eterodossi e “rielaborata” nelle sue narrazioni. Anche le riviste, soprattutto quelle di parte politica, «Potere Operaio», «Quindici», «Quaderni Rossi», «Quaderni del Situazionismo» e altre, erano per lui, archivio di materiali coi quali contaminava la sua scrittura. Quando scriveva nei suoi testi evocava e a volte “incollava” frammenti  di altri,  con una rielaborazione nel ritmo e nel tono “liturgico” di cui amava far risuonare i testi. Nella biblioteca conservava documenti “inaccessibili”, che raramente mostrava e dei quali si era creato un alone mitico. Lettere di Burliuk, Guttuso,  Baj, Sanguineti, Caruso, Blaine, e di tanti altri. Erano talmente “segrete” che qualcuno di noi frequentatori della sua casa sospettavamo (con ironico affettuoso pregiudizio) che fossero inesistenti. Il suo archivio, ora sembra nelle mani di uno dei suoi “giovani” esegeti di cultura semiologica, è una miniera di sollecitazioni storico-critiche. Nella sua casa, alle pareti, in allestimenti asimmetrici, teneva opere bellissime dei suoi “compagni di strada”: Guttuso, Baj, Persico (una grande opera su Auschwitz, con bambolotti fusi in una materia viscida e pietrificata, su fondo blu oltremare e in alto nel profondo blu, una spirale di orologi che indica la sospensione del tempo. Luca, dalla sua cantina-atelier si spostava spessissimo, quasi quotidianamente, nella Libreria Minerva a pochi passi. Si aggiornava sulle nuove edizioni e raccoglieva fasci di libri che forse non avrebbe mai letto per intero, tranne gli indici. Ma ai suoi giovani “militanti”, proponeva testi importanti che sarebbero stati i propulsori di una visione di incroci problematici tra pensiero marxiano (Marx dei Manoscritti, Lukàsc, Benjamin, Della Volpe, Lotman, Jakobson, Barthes, Althusser…), nuove discipline socio-semiologiche e critica della politica. Ma restava fuori della sua frequentazione editoriale il “pensiero negativo”, un aspetto poi rivelatosi per alcuni nella riflessione e nella pratica dell’arte e delle sue implicazioni teoriche e operative, sui linguaggi delle avanguardie e dei loro prolungamenti come dispositivi del sistema politico-culturale.

Artiste, malgrè lui (d’après al capitolo “Segni”) – La storia “destabilizzante” di Luca che sembra volta ad una “ermeneutica del sospetto”, di “cruenta” contrarietà alla diffusione dell’arte come  mediazione dei sistemi di potere, è stata, anche paradossalmente il transitare sotterraneo di una mitologia delle forme del fare artistico nelle molteplici cadenze e affioramenti di linguaggio. Restando nella sua critica alla classificazione di tendenza, Luca attraversava lo scenario dell’arte facendosi sedurre dalle singolarità irriducibili agli schemi produttivi che catturano e omogeneizzano la pulsione “creativa”. Malgrado egli dissimulasse la sua erotica sensibilità per l’arte tout court con le contestazioni dell’autorialità “borghese” degli artisti “neutrali”, era persuaso che le espressioni dell’arte vivono e persistono oltre le loro gestioni tecno-culturali. Luca sapeva che ogni opera la quale non retrocede dalla sua “eccedenza” è un “atto di resistenza” alla legittimazione estetico-istituzionale dominante. Il suo “sguardo” era attratto senza “ritegno” dalle furbizie di maniera di pittori “commerciali”, dalle abilità di artisti “accademici”, come dalle invenzioni dell’immaginario popolaresco, dalle ingenuità oniriche, al limite dei deliri figurali, dei “naive”. Di alcuni artisti amava dire di averli “inventati”; praticava una sorta di “trasfert” contaminandosi con il desiderio immaginativo di esistenze “comuni” (uno dei casi più “riusciti” in questo senso fu Pamal, con cui era co-autore di coloratissime stratigrafie figurali, di una pre-istorica fantasy).

Per Luca, il gesto espressivo tramandava comunque, oltre la sua “qualità”, uno spostamento e una destituzione dello stato del senso dell’esistente, segni di una immagine capovolta del mondo dove si accede ai recessi della sua verità. La sua attività di poeta visivo (denominazione per lui controversa, contestata con determinazione “critica” e a volte irriducibile inquietudine) era la indicazione di sommovimento di senso delle  cronache e delle storie del tempo (“ri-semantizzazione del reale”), ri-elaborate nel ritaglio decostruttivo e nella ricomposizione ellittica, rivelandone il “non detto” al quale la mediatizzazione giornalistica non accede. Le sue “comunicazioni” dei tableaux a cartella composti da parole titoli e immagini da «L’Espresso» e altre riviste, oltrepassavano la comunicazione stessa. Innescando un circolo di echi che non approdavano alle cose ma alla loro segreta risonanza profetica (incredibile, in tal senso, il collage del 1968 sulla Cina che si risveglia!). Ma, la sorprendente versione di Luca è nelle opere di pittura, negli anni con inflessioni insieme diverse e coerenti, dal “nuclearismo” delle condensazioni cromatiche che apparivano dai fondi neri, alle reti degli anni Settanta, fino alle “scritture” segniche dagli anni Ottanta in poi. La “volontà di pittura” si mostrava in intensità “seicentiste”, dove lacerti di colore sorgevano in slittamenti liquidi che “cercavano” una immagine impossibile, sospesa nel “nulla” di una  impassibile “nigredo”, e di questo “nulla” echi “corporei”. Differentemente dalle materie barocche di Biasi e Del Pezzo, dalla narrazione immaginativa di Persico e dall’energica cosmico-terrestre di Colucci come dai simbolismi di Fergola, Luca sostava sull’immagine nascente, sospesa nel corpo inafferrabile delle  orme di una pittura “originaria”, restia a farsi rappresentazione memoriale. I nuclei di colore erano deposizioni di una memoria antecedente ogni storia, che proveniva da atopiche regioni dell’essere, dove pulsa il tremito del corpo  non ancora immaginabile. Grembi (o già reliquie?) forse di una pittura probabile, che annuncia un’immagine sempre irraggiungibile (negli esiti di queste opere si notano inserimenti di enigmatici ideogrammi, radici di future declinazioni segniche); in quelle opere si riflette l’essenziale novitas di pensiero della pittura che Luca, malgrado le sue dichiarazioni “ideologico-immaginative” contro l’arte e gli artisti, esponeva nel suo gesto silenzioso e pro-fondo, in cui la materia-colore si faceva traccia, orma, risonanza. Come fu evidente nelle sue reti, i “Trans-o-types”, negli anni Settanta.

La matrice reticolare (reti da pescatore) era il corpus di uno spazio flesso, intricato ed espansivo, materia “memoriale” in de-formazione e ri-formazione. Dalle reti incollate sulle tele, sempre di una tenebra frontale, Luca transitò verso le reti matrici impresse sulla superficie, con diverse variazioni cromatiche, come orme segnico-spaziali, attraversate da linee come di “orizzonti” nello spazio-superficie di scansioni cromatiche d’intermittenze e risonanze tonali. Il passaggio a una scrittura fatta di segni primari, in cui la matrice elaborava una traccia originaria-originante, strutturata in semiografie di labirintiche “planimetrie” che, come le “reti” e le loro “orme”, si dilatano e si contraggono come spazi di elastico polimorfismo. Mappe segniche – nel loro combinarsi e scomporsi avevano il ritmo espansivo e proliferante di matrici cibernetiche – le quali furono “tradotte” in una sorta di capovolgimento di senso, in totemici segnali plastici, come monumenti misteriosi di una città fuori del tempo. Del semiologo Matteo D’Ambrosio sono, analitici e “complici”, i commenti che accompagnarono durante diverse esposizioni quest’ultima  esperienza del percorso artistico di Luca che aveva già radici “poetico-concettuali” nelle prime pitture, pur in una diramazione metamorfica delle materie cromatiche nelle graphie pre-geometriche di una lingua del silenzio estremo. Un finale dell’opera che dà al senso dell’arte un futuro ibrido, di apertura ai nuovi linguaggi della rivoluzione cibernetica e in uno scarto memoriale ne rammemora l’arcaico enigma di Signum dell’essere.

Napoli, 2015-2018

* Questo testo è stato pubblicato in forma ridotta nel web-magazine “S-definizioni”. L’autore lo ha integrato e rielaborato per la pubblicazione su “Frequenze poetiche”.


Biografia di Franco Cipriano


 

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