MATTEO FARNETI, Memorie dal sottosuolo di Fedor Dostoevskij

Era accaduto, in quel tempo, qualcosa di inaudito. L’avvento di un nuovo tipo d’uomo. L’uomo moderno. Una creatura completamente diversa da quelle che l’avevano preceduta, a cui assomigliava solo fuori. Esternamente c’erano ben poche differenze, se non nel vestire, ma dentro… erano i frutti del caos. Ben pochi capivano, allora, che niente sarebbe stato come prima. Che la Storia, e la Società, avrebbero preso un’altra direzione, schizzando via, nel cielo, sopra flutti cosparsi di sangue. Apparentemente era solo una sciarada. Un gioco di uomini tristi, annoiati, in fondo anche un po’ ridicoli, che cercavano di darsi una qualche importanza. Era solo la noia che combattevano, niente di più. Ma si sbagliavano.

Gli scrittori veramente grandi sono stati dei profeti. Non si sono limitati ad auscultare, a registrare il loro tempo, ma hanno colto i semi di quello nuovo. Dostoevskij aveva capito che questa nuova specie di “nichilisti” – così li chiamavano, in Russia – avrebbe finito per sconvolgere il mondo, portando a nuova era. Eppure sembravano innocui. Non erano che declassati, in fondo, sradicati, uomini che si dibattevano in qualche soffitta di Mosca o San Pietroburgo, in preda alle più strane manie. Non facevano altro che sognare imperi, nuovi mondi, o prodigi assoluti, creati dall’Arte, quando in realtà erano dei poveracci – scribacchini e impiegati, politicanti e giornalisti, intellettuali da caffè – sempre in lotta con la miseria. L’assoluto squallore della loro esistenza era l’unica realtà tangibile. Ma c’era qualcosa, dentro di loro. Non ne erano consapevoli, anzi, facevano di tutto per mascherarlo; eppure esisteva. Era il Vuoto. Il Nulla Assoluto di un valore, un principio fondante, che tenesse in piedi la loro esistenza. Dio ormai era morto, non c’era più né fede né religione, soltanto una città brulicante, tentacolare, con mille vacue illusioni. Come fondare la propria vita? Dove andare? Cos’era giusto e cosa no? All’improvviso, con la caduta dei vecchi idoli, ne sorgevano di nuovi. Se non esistevano infatti bisognava crearli, innalzare nuovi templi, nuove statue, al centro di quali si ergeva l’Io. Sovrano assoluto del mondo, ora poteva fare ciò che voleva. Pensare, ideare, innovare, ma soprattutto distruggere, bruciare, in un rogo di uomini e pensieri, fino al realizzarsi del sogno: la tabula rasa.

Memorie dal Sottosuolo è un libro inquietante, spaventoso, proprio perché narra di questo sconvolgimento. Una reazione chimica, creata dal cervello, che un giorno ha cambiato la Storia. Ed è arrivata fino a noi. Sono ancora i tempi dell’Ego, dell’Io, nonostante tutto. In attesa dei cyborg, non abbiamo nient’altro. Ed ecco quindi un nuovo tipo di uomo, segnato da un mostruoso cinismo; un uomo per cui tutto è nulla, tutto fa ridere, sempre all’ombra di un amaro sarcasmo. I suoi discorsi sono verbosi, incongrui, pieni di strane digressioni; le sue azioni assurde, quasi incomprensibili, se non nel senso di una macabra recita, mossa di fronte a se stessi. Dostoevskij qui, tanto come nei Demoni, Delitto e Castigo, ci pone di fronte a uno specchio: è questo che siamo diventati. Nelle Memorie un uomo vive per il suo orgoglio, e non lo fonda su niente, se non l’umiliazione di qualcun altro. Un sadismo che è tanto più grave, perché non viene da un uomo malvagio. No, egli è buono in fondo; ma ha smesso di credere all’amore. Così il male è ciò che gli resta. Il male non gli viene naturale, anzi, il suo istinto lo fugge, ma la sua mente è implacabile. Se niente è vero, allora tutto è permesso. E bisogna farlo. Il resto è la Storia del XX Secolo, una gigantesca pira, fatta di uomini, che si alza fino al cielo.

Fedor Dostoevskij
Memorie dal sottosuolo
BUR, 2000, pp. 144

Biografia di Matteo Farneti


 

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