Tra le due quinte in prosa – due testi bellissimi – si apre il paesaggio meridionale della poesia di Abate. Chi legge, assiste ad una storia di paese e di infanzia, ne vede i particolari, le figure: il padre, ritratto da vecchio, impettito e quasi oleografico, soprattutto la madre, sempre presente in una memoria senza tempo né storia, i compagni di giochi, le tentazioni, che richiamano saghe, proverbi e storie di briganti ma non hanno nulla di incantato. Sono, anzi, oscure e ataviche, sgraziate e senza innocenza. Come senza innocenza è la poesia di Abate, che insegue e interroga le figure della sua origine per riconoscere la natura difficile e paurosa di se stesso bambino, senza alcuna pietà:
O vviente
O vviente scummugliave
o cule ae gallinelle
e a nennelle da ceramiche
se ne veneva
ca vucchella rossa
e na voce lessa
addurosa e mandarine.
Il vento – Il vento scopriva | il culo alle gallinelle | e la ragazza della ceramica | se ne veniva | con la boccuccia rossa | e una vocina fievole | odorosa di mandarino.
Questo carattere spietato esclude dal ricordo narrativo ogni idillio e ogni nostalgia; il paese può mutarsi nella memoria e nella storia che lo viene investendo, ma non diviene un luogo immaginario in cui si è fissata la prima giovinezza e da cui si è fuggiti per divenire adulti e consapevoli: è rimasto un paese reale e vivo, ed è la sua natura tragica a non piegarsi alla rievocazione.
Nelle poesie di Abate, in particolare in quelle in salernitano, i personaggi non si mutano in caratteri: restano fissi in sé, come se il presepe del sordo della prima prosa li avesse accolti nella sua cartapesta. Il poeta li visita senza entrare nel loro tempo e neppure nella loro possibile rappresentazione; non li compone in un uno scenario diverso, uno scenario adulto. Il ragazzo che li ha incontrati non è cresciuto contro di loro, e per questo non li giudica, si limita a guardarli e non presta loro la paura che invece invade se stesso, anche al confronto con essi. È possibile che il poeta si chieda, ora che vive altrove, e non è più un ragazzo ed ha scelto di non piegarsi a un mondo ostile, tutto il mondo, piuttosto di isolarsi, come chi si ritrae per attaccare meglio il nemico, tutti i nemici, da dove abbia origine la sua paura e quel rigore morale che a volte riconosce in se stesso. Ed ha provato a rivolgersi alla poesia, che è una forma più consapevole della prosa e certo della letteratura e della critica:
Nui simm ’e ssarte
Addo fernevene e vicule
adduruse e varrechine
nnanz ’e porte scure
cusevane chiechate
e signurine
e figlie re marenare.
Nge passave vicine currenne
ca voglia e a paure e sapé.
Maj nge parlaje, sule me sunnaje:
se scusevane o vestite
– cche bell’i ccosce bbianche! –
se spazzulavene e mennelle
e cuntente dicevene:
Nu ccorrere accussì, guagljunciè!
Nun nge ffuì! Nui simm ’e ssarte
e l’uommene vvestimme cull’ammore.
Noi siamo le sarte – Dove terminavano i vicoli | odorosi di varechina | davanti alle porte scure | cucivano chinate | le signorine | le figlie dei pescatori. || Ci passavo vicino di corsa | col desiderio e il timore di conoscerle. || Mai ci parlai | me le sognai soltanto: | scucivano le loro vesti | – che belle gambe bianche! – | si pulivano il seno | e contente dicevano: || Non correre così, ragazzo! | Non fuggirci! Noi siamo le sarte | e rivestiamo d’amore gli uomini.
Le poesie che ne sono nate sono dunque un’interrogazione sulla propria origine e sul senso di una educazione religiosa che, pur avendo duramente condizionato la sua esistenza, non sembra trovare alcun riscontro nella vita degli uomini. Il percorso a ritroso non ha riconosciuto alcuna coerenza: i pezzi dell’esperienza non si sono ricomposti in una figura, anzi si sono frantumati in immagini senz’ombra, dure e incomprensibili, staccate dal resto che non ha forma né confini, fisse nell’istante del loro apparire poetico.
Chi aveva voluto diventare testimone, anche di se stesso, è diventato un estraneo che non capisce la propria lingua (le due lingue del testo ne sono un segno). Eppure qualcosa si è dato, se chi legge diviene partecipe, se condivide con chi ha scritto queste poesie la sua necessità di prendere atto di sé e talvolta si incanta, come lui, per la bellezza di un verso o di un albero.
Ennio Abate Salernitudine Ripostes, Salerno, 2003, pp. 59