Una anafora, contenuta nei primi due versi della mia intera produzione e che primi resteranno in qualsiasi futura sistemazione, rende conto e ragione del mio scrivere.
Sto parlando dei primi due versi della “Prima Eleatica” che apre il volumetto Colpa del mare (Edizioni Oèdipus, 2002): «forse l’indisciplina degli eventi / forse l’incerto dire inesistenti».
“forse”…”forse”. Se, poi, questi due versi vengono letti alla luce dei primi versi di Colpa del mare (la viii. dell’omonimo poemetto: «Colpa del mare / del pendolare dubbioso / tra il frutteto in rigoglio / e l’orgoglio della scienza….») sono ancora più chiari la condizione e il modo di guardare di chi scrive e l’oggetto del suo scrivere.
La condizione del mio scrivere è pertanto il “pensare” “riflettere”. L’oggetto del pensiero è il pendolo fra la passione, l’istinto, la parola del Mito (“il frutteto in rigoglio”) e la ragione, il calcolo, il pensiero scientifico, il Logos (“l’orgoglio della scienza”). E questo pensiero viene esercitato dubbiosamente nella epoca (la mia scrittura data la fine degli anni ’80 anche se la prima edizione è solo del 2002) del possibile tramonto, del minacciato “naufragio” (da qui “colpa del mare”) della parola scientifica che è il tratto essenziale del pensiero Occidentale.
In tutto il mio percorso è rintracciabile questa costante ricerca e soprattutto il desiderio di dare una risposta alla domanda posta da Adorno sulla possibilità di fare ancora poesia dopo Auschwitz. Assegno alla mia scrittura quasi una funzione civile, di lettura attenta dello stato delle cose e di ostinato perseverante richiamo alla responsabilità degli intellettuali nell’epoca del minacciato naufragio del pensiero occidentale siccome pensiero del tramonto.
Non amo quindi la poesia che chiamo “insensata”, che non si fa capire e nulla dice perché nulla ha da dire, nulla da far capire, trasmettere. Non amo la poesia ripiegata nella intimità dell’“io” (salvo rarissime eccezioni) e cerco costantemente una mediazione fra l’epica e la lirica. Non amo la poesia per pochi poiché se scrivo una qualsiasi sciocchezza non la scrivo per me stesso ma perché vorrei fosse ricordata da tutti. Mi rivolgo al paradigma della “vita in versi” (per me Giudici è un Maestro) poiché ritengo essenziale l’osservazione e l’“ascolto” della realtà. E quindi anche delle passioni, dei sentimenti, delle relazioni ma sottratte però ad un esercizio di triste elegia, e, proprio per questo mi rivolgo alla Storia.
Considero la Storia un immenso “repertorio di possibilità” per la definizione di una “utopia ragionevole” di una apertura di uno sguardo di “speranza” nel futuro, di un “sogno ad occhi aperti”. E quindi tutti i nomi-simbolo del mio lavoro (i presocratici di Elea, i Pitagorici Liside e Ippàso di Metaponto, l’Ovidio “relegato” sul Mar Nero, il poeta Massimiano all’alba del VI sec. d.C., l’eretico Francesco Pucci, tutto il brulicare di nomi e di Imperatori in Impero, i personaggi degli Undici distici per undici ritratti) sono di soggetti di “confine” frequentatori di margini in cui domicilia il “dubbio”.
Quanto alle scelte formali, che ritengo importanti anche se non fissate rigidamente una volta e per tutte, lavoro, come si dice per i musicisti “ad orecchio”. Ritengo la musicalità un tratto indispensabile dello scrivere poesia (la mia “Piccola Suite” in Colpa del mare è una dichiarazione di intenti). Poiché penso che lo scopo sia quello di farsi “ricordare” da chi legge e ascolta con l’orecchio esterno e con quell’interno che è domiciliato dalle parti del cuore.
Il poemetto inedito che ho indirizzato, pur potendosi leggere come poesia dei sentimenti, ad un occhio più attento risulta essere un ragionamento su quell’Altrove della lingua e del gesto con cui oggi l’Occidente si trova a dover comprendere. Come se il sole calasse ad Oriente, appunto (Bruno Di Pietro).
* * *
“Perciò i Greci esperirono l’adocchiante
presenza degli Dèi come il più tremendo
e ammaliante essere-di-fronte.
L’essere di fronte avviene come incontro
con il totalmente Altro. Questo si manifesta
allora come sguardo e come voce” .
Byung Chul Han, L’espulsione dell’Altro (Milano, 2017)
i.
come se il sole calasse ad Oriente
guardo tutto con la schiena, impaziente
ii.
porta la tua voce ignoti suoni
apre fughe profonde
(allude riparo alle tue sponde)
iii.
preso congedo dall‘ io
l’uno di fronte all’ altra
ci siamo dimessi
noi da noi stessi
dall’essere individui,
così senza riserve
senza residui,
se amore è perdita
e insieme acquisizione
(non c’è alcun calcolo
né spazio per la ragione)
iv.
spegni per sempre la luna
il buio esalti la differenza
lasciami sulla bocca la presenza
della tua scienza bruna
v.
offriamoci l’ascolto l’attenzione
lo sguardo che ama
la più piccola imperfezione
offriamoci la profanazione dell’usuale
lo scambio dei morsi sulle labbra
il timore il pudore
il sudore che bagna i corpi
nei quali ci immergiamo:
non ci toccheranno gli inverni
non avremo freddo non avremo fame
(perché noi siamo eterni)
vi.
amo ascoltare la tua bellezza
nella voce che è acqua e vento
sento il fresco profumo della brezza
l’odore del sale l’attesa dell’evento
vii.
restò sulle labbra il bacio mai dato
insieme a un lieve sentore di lillà
cullato fra volere e non volere
ed era già ricordo
quando lo riportarono le sere
di autunno coi primi temporali
gonfi di una pioggia che lava
e scava
viii.
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza
noi ci ritroveremo
allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
ix.
“era bello il tuo sguardo”
“era bello guardarti”
ma eravamo in ritardo nel gioco di parti
poi lo sbaglio, le labbra serrate
quella vita sofferta ristretta
quella bocca al sapore di orgoglio
al ritorno dischiusa in rigoglio
rimanesti infine a guardarti
tu da sola a guardare il mio sguardo
occhi abbassati ancorati agli scarti
x.
se valga la pena tradurre i sospiri
il gemito in amore i desideri
il grido lanciato nel litigio
l’incontro le carezze i pensieri
ma cosa si può dire a occhi stranieri
per non ripetere il dettato usuale
dell’uguale a se stesso sempre uguale
xi.
s’insinua fra i dubbi il tocco dell’ora
(dicono arrivasti poi sconvolta
come la volta che trasalì la lampada
allo sbattere del vetro)
scolora in niente se ti guardi indietro
l’orizzonte che sembrò vicino
in fondo un deserto il destino
xii.
era grigio fuori
ho sognato
di raggiungerti
aggrappato alla pioggia
xiii.
neanche un bacio
una carezza
un morso
esiste solo il passato
(ed è trascorso)