PAOLO ALLEGREZZA, Gary Snyder: pericolo sulle cime

SAGGISTICA


Nel ritratto che nelle pagine iniziali de “I vagabondi del Dharma”, Kerouac fa di Gary Snyder (Japhy Ryder, il protagonista del romanzo), ciò che colpisce del personaggio è la forza, la consapevolezza di sé, il rigore che lo avvolge che parli di buddismo zen o delle sue conoscenze sulla montagna. Di entrambi sembra sapere tutto e su entrambi dispenserà il suo sapere ai compagni di viaggio lungo tutto il romanzo. Questa doppia dimensione, meditativa e attiva, filosofica e anti intellettualistica è la cifra del lavoro poetico di S. Non solo suo ma del nucleo di origine californiana (San Francisco Renaissance) del movimento beat, cui vanno aggiunti due personaggi – chiave come Michael Mc Clure e Philip Whalen; tutti presenti, insieme a Ginsberg, La Mantia e a Kenneth Rexroth nelle vesti di mentore, alla lettura pubblica del 7 ottobre ’55 alla Six Gallery che segnò l’inizio del gruppo.

I mille rivoli di quell’avanguardia mai auto codificata come tale che fu il beat sono stati ricostruiti da un’ormai copiosa messe di studi, ciò che interessa in questa sede è indagare il lavoro di S., partendo dai due elementi che ne attestano la peculiarità: l’invenzione stilistica e l’operazione interculturale. Di qui emergono la profonda continuità con l’esperienza dei suoi compagni e l’investimento su una scrittura tanto lontana da lirismi e afflati neoromantici, quanto coraggiosamente incardinata nel presente. E di scrittura è forse più corretto parlare, considerando il continuo interscambio tra prosa e poesia che caratterizza questi testi.

Pericolo sulle cime (2004) comprende cinque sezioni che raccolgono testi scritti nell’arco di un quarantennio; apre il libro la serie riguardante l’eruzione del St. Helen’s del 18 maggio 1980, seguono le parti in cui prevale l’osservazione della natura secondo le modalità tipiche dell’haiku (“ancora vecchie questioni”, “polvere nel vento”) e frammenti di vissuto (“vita quotidiana”, “calma, dicono”), chiude la raccolta la breve sezione sulla distruzione dei Buddha di Bamyan da parte dei talebani in cui la denuncia della violenza lascia spazio all’esperienza di liberazione evocata nella visita al tempio di Sensö-ji.

S. lavora su una sorta di adattamento dell’haibun, una forma tradizionale giapponese formata da un testo in prosa che descrive un’esperienza di viaggio, solitamente chiuso da un haiku. Adattamento perché S. sceglie di utilizzare la forma haibun anche per prose che non raccontano viaggi. Le parti in prosa sono accompagnate da versi interni al testo oppure da brevi chiuse segnate da uno spazio bianco, spesso sulla stessa linea del testo. La lingua quanto mai sorvegliata, come sempre in S., è accompagnata dal frequente utilizzo di lessico tecnico – scientifico desunto dalla botanica o dalla geologia, cui si aggiungono nomi provenienti dalle lingue native o dal gergo californiano. Il che si spiega con un dato caratterizzante S. rispetto agli altri beat, la profonda cultura naturalistica formatasi nell’adolescenza trascorsa nello stato di Washington e poi in Oregon, unita all’esperienza diretta di culture native. Una formazione che ricorda quella di Jackson Pollock, anche lui affascinato dai segni della cultura nativa e dagli echi di un sapere primordiale cui, negli anni successivi della sua formazione, S. aggiunge le culture orientali. La struttura sintattica è ridotta al minimo, così pure l’uso dei connettivi cui è preferito l’uso dei segni d’interpunzione o il distanziamento grafico; estranei a S. sono modalità quali il ritmo cantilenato, il monologo fiume, l’invettiva, il verso ampio e disteso prediletti, ad esempio, da Ginsberg, Corso, Ferlinghetti sull’esempio di Whitman, il padre della poesia americana moderna. Le fonti del suo stile rimandano allo studio della lingua giapponese e all’attività di traduttore, in particolare alla poesia di viaggio di Matsuo Basho (1644 – 1694) e alla poetica hakai in cui la quotidianità si mescola alla pratica ascetica e al profondo coinvolgimento nella vicenda umana.

Un lavoro sull’ibridazione di lingua e stile che S. aveva già sperimentato in The back country (1967) prediligendo, in quel caso, un genere letterario cinese in voga presso le dinastie Tang e Song (XI – XIII sec.) consistente nel racconto della visita ad un amico eremita, una situazione di cui in “Pericolo sulle cime” troviamo echi in due testi (“cuocendo il pane” e “un bus vuoto”). S. non rispetta né la disposizione dei sette caratteri/sillabe della poesia classica cinese, né la struttura 5/7/5 dell’haiku, né il prosimetro dell’haibun, sperimentando quell’andamento irregolare (a zig zag) che diviene un elemento identificativo della sua poetica. Il fine di questa operazione non risiede soltanto nella scelta di un approccio interculturale che esclude operazioni imitative, quanto nel proposito di dissoluzione della scrittura come passaggio nella dissoluzione di sé. È partendo dalla riflessione sulla lingua e da una calibrata operazione teorica che questo progetto di scrittura prende forma e sprigiona, assumendo il buddhismo come riferimento, una insospettata valenza destituiva del senso comune occidentale. Proprio là dove sembra limitarsi alla mera osservazione, smonta due pilastri della poesia occidentale: l’autoanalisi, dall’originario modulo petrarchesco fino agli sviluppi dei secoli successivi, l’orfismo, lo sguardo d’eccezione dell’io lirico portatore di un sapere misterico affidato a simboli e analogie oscure. L’immaginazione nella scrittura di S. è, altresì, aliena da derive irrazionalistiche o impressioniste e in quanto connessa all’attività intellettuale è essa stessa una forma di comprensione. Scrittura argomentativa e, a suo modo filosofica, prossima all’avanguardia.

Una categoria, quest’ultima, la cui legittimità va oggi quanto mai riaffermata in alternativa alla proliferazione delle scritture deboli; ma che ben si attaglia al lavoro di S. per il quale non vi è soluzione di continuità tra sperimentazione sulle forme e i modi della scrittura e la ricerca di una soggettività alternativa a quello che ha definito “il mostro dello sviluppo” (Ri – abitare nel grande flusso). Di qui la sua concezione della wilderness, la dimensione della nostra esistenza segnata dall’accettazione dell’instabilità e dell’imperfezione come condizioni prime della libertà. In un universo regolato secondo l’impronta umana non vi è libertà, ma triste disciplinamento del wild. Quest’ultimo si distingue dalla natura che è espressione del mondo fenomenico determinato, mentre il selvatico si auto produce, è libero, indipendente dall’attività regolatrice dell’uomo. Il che esclude la contrapposizione uomo – natura, in quanto il wild “comprende la parte più profonda, più connessa, più spirituale di noi stessi, ma anche la più creativa, la più immaginativa; la parte più sensibile, direi” (Ri – abitare nel grande flusso). Dalla riflessione sulla wilderness, dalla pratica delle scienze dell’ambiente, dal buddhismo zen, dal lavoro collettivo con i poeti della sua generazione (Ginsberg e Whalen, in particolare), dal trascendentalismo di Emerson e Thoreau (come si è detto per molti dei beat), dalla poesia anti eliotiana, nel senso del rifiuto del primato del negativo, di Robert Frost e William Carlos Williams, scaturisce la scrittura di S. che non può essere letta prescindendo dalla produzione saggistica, dall’instancabile azione militante nella difesa dell’ecosistema della Sierra Nevada, da una visione comunitaria (il bio regionalismo) scaturita dalla lezione dell’anarchismo non violento.

“Pericolo sulle cime” è il racconto di questa ricerca nata dall’osservazione partecipe del vivente non umano e dalla consapevolezza della comune appartenenza ad un grande flusso.

 

Saluta tutti gli esseri veri e reali

ovunque,       nei regni dell’essere

o del non essere o dell’ardente desiderio

 

saluta tutti i nobili grandi cuori risvegliati;

                      saluta – grande saggezza del sentiero che va oltre.

 

Delle due strade percorse dalle seconde avanguardie, la sovrabbondanza linguistica da una parte, di cui in Italia è stato maestro Emilio Villa e la sottrazione verbale dall’altra, le cui radici sono nelle sperimentazioni visuali e foniche dei ’60, fino all’attuale produzione asemica (Gamm) e sonora (in in Italia, Giovanni Fontana), la poesia di S. ne configura una terza, non meno proficua. La potremmo definire una ri significazione dello straniamento, ove con questo termine si intenda un punto di vista estraneo alla comune percezione proposta dal sistema della comunicazione. Lo straniamento è strumento ampiamente utilizzato dalla letteratura del ‘900, si pensi solo a Kafka, Pirandello, Beckett, svolge il suo potente ruolo di demistificazione creando “figure” abnormi o esplicitamente assurde. S. parte dall’osservazione del vivente nel suo divenire, nell’appartenenza di tutto ciò che è, ad una comune anima del mondo.

Ah sì,…………la temporaneità. Ma questa non è mai una ragione per dimenticare compassione e focalizzazione o accettare le sofferenze altrui semplicemente perché sono esseri temporanei. L’haiku di Issa dice

        Tsuyu no yo wa                 tsuyu no yo nagara                  sarinagara

 

“Questo mondo è una goccia di rugiada

                                    niente altro che una goccia di rugiada

e ancora−“

Quel “e ancora” è la nostra pratica perenne. E forse la radice del Dharma.

 

Come avvicinarsi alla lettura? Forse l’approccio più corretto è quello di considerarlo una manifestazione in versi della pratica, una sorta di piccolo passo sulla via del Dharma, l’anima del cosmo, simile al Deus sive natura di Spinoza il cui “racconto” è affidato alla scrittura in un percorso possibile di liberazione. Liberazione dall’idea di dominio che domina il pensiero occidentale rispetto alla quale l’attività creativa immagina l’alternativa di un punto di vista obliquo, sottratto all’onnipresenza dell’occhio utilitaristico – tecnologico. S. produce una scrittura il cui contenuto non è più esclusivamente l’umano, ma il vivente; di qui il soffermarsi vigile sull’apparentemente marginale, sia il nome indiano di un arbusto, il dialogo con un camionista, i particolari del tempio di Sensö ji. La lingua trasparente di S. non nasce dall’imitazione dei modelli orientali, è parte integrante di un’esperienza per la quale solo il distacco, la consapevolezza dell’irriducibilità dell’altro, conduce ad una relazione libera dal dominio.

 

Bibliografia

  1. Snyder, Ri – abitare nel Grande flusso. L’eterna gioia dell’ecologia profonda, Area 51, San Lazzaro di Savena 2013.

Id., Nel mondo poroso. Saggi e interviste su luogo, mente e wilderness, Mimesis, Milano 2013.

Sito in inglese contenente ampi materiali su Snyder https://westernamericanliterature.com/gary-synder/.

Un agile strumento critico per orientarsi sulle scritture alternative, F. Muzzioli, https://francescomuzzioli.files.wordpress.com/2019/01/Dizionario.pdf.

  1. Pivano, Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli, Milano 1975.
  2. Trini, Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964-2014, a cura di L. Cerizza, Johan & Levi Editore, Monza 2016; e la recensione di P. Bonani in Alias , 30 ottobre 2016.

 

Opere di Gary Snyder

Riprap and Cold Mountain Poems (1959)

Myths & Texts (1960)

Six Sections from Mountains and Rivers Without End (1965)

The Back Country (1967)

Riprap and Cold Mountain Poems (1969)

Regarding Wave (1969)

Earth House Hold (1969)

Turtle Island (1974)

The Old Ways (1977)

He Who Hunted Birds in His Father’s Village: The Dimensions of a Haida Myth (1979)

The Real Work: Interviews & Talks 1964-1979 (1980)

Axe Handles (1983)

Passage Through India (1983)

Left Out in the Rain (1988)

The Practice of the Wild (1990)

No Nature: New and Selected Poems (1992)

A Place in Space (1995)

Narrator in audio book, Kazuaki Tanahashi’s Moon in a Dewdrop from Dōgen’s Shōbōgenzō

Mountains and Rivers Without End (1996)

The Gary Snyder Reader: Prose, Poetry, and Translations (1999)

The High Sierra of California, with Tom Killion (2002)

Danger on Peaks (2005)

Back on the Fire: Essays (2007)

Tamalpais Walking, with Tom Killion (2009)

The Etiquette of Freedom, with Jim Harrison (2010) film by Will Hearst with book edited by Paul Ebenkamp

Nobody Home: Writing, Buddhism, and Living in Places, with Julia Martin, Trinity University Press (2014).

This Present Moment (2015)

 

Traduzioni italiane

Un vulcano a Kyushu e altre poesie, trad. di V. Mantovan, Milano, Mondadori, 1974

La grana delle cose, trad. di Alberto Cacòpardo, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987; poi Roma E/O, 1996

Nel mondo selvaggio, trad. di Augusto Sabbadini, Como, RED, 1992

Ri-abitare nel grande flusso, Casalecchio di Reno, Arianna, 2001

L’isola della tartaruga: poesie e saggi, trad. di Chiara D’Ottavi, Roma-Viterbo, Stampa Alternativa Nuovi equilibri, 2004

Ritorno al fuoco: ecologia profonda per il nuovo millennio, trad. di Chiara D’Ottavi, Roma, Coniglio, 2008

La pratica del selvatico, Velletri, Fiori Gialli Edizioni, 2010.

Nel mondo poroso: saggi e interviste su luogo, mente e wilderness, trad. di Rita Degli Esposti, Milano-Udine, Mimesis, 2013.


Biografia di Paolo Allegrezza


 

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