GIORGIO MOIO, Il Bruto Minore di Giacomo Leopardi, grido ribelle e sete di giustizia

Se consideriamo il primo Leopardi di Sopra il monumento di Dante come un giovane poeta non avulso da una retorica/agonistica celebrata dall’urgenza di sentimenti impetuosi come l’azione e la gloria – non si dimentichino le reminiscenze e suggestioni arcaiche (Virgilio, Eschilo, Seneca, Petrarca, Dante, Bembo, etc.), anche se di tonalità indubbiamente alte e qualitative –, quello centrale è da considerare, sia pure con una grossa valenza di una equivocata dimensione romantico-idilliaca, come un poeta illuminista, “pratico”, “materialista”, nella dimensione di un io moderno che evoca, essenzialmente la condizione meramente sofferente e mortale che ogni essere possiede in sé. Si tratta di un io ideologico ma agguerrito e sperimentale, aperto a qualsiasi campo espressivo senza mai allontanarsi da tensioni problematiche, che accetta, come accetta la condizione sofferente e mortale dell’essere, la sfida univoca ma disorganica del gioco e dell’esercizio “virtuoso”, dell’intelligenza persuasa dell’acerbo vero(1) che poi svilupperà e porterà all’apice con La ginestra, ossia poco prima della sua morte.
Leopardi giovane ribelle e assetato di giustizia, che fa a pugni con la figura storicizzata di un pessimista e di un “asociale”, col pensiero della morte, della fine, sempre lì a portata di mano. Non è poi difficile individuare questi cardini di illuminista e letterato moderno, ribelle e giustiziere, nel Bruto Minore. Il pensiero della morte ma soprattutto la perdita di ogni aureola e fede, e il tentativo fallimentare di riuscire a debellare l’ignoranza del mondo, spingono l’intellettuale-eroe verso la solitudine prima del suicidio, che è – come dire – la solitudine che ogni uomo si porta dentro sin dalla nascita, rafforzata da una strada sbarrata da sciagure e colpe. Il che non impedisce al poeta di essere del mondo, della vita, attratto da un animo ribelle.
Sorretti dai principali lineamenti e registri del genere della “canzone”, i versi del Bruto minore, ribelli e blasfemi, portano in superficie innanzitutto la voce e il gesto dell’eroe: partendo dal dramma personale, dalla propria disperazione («una giovinezza sempre desiderata e mai posseduta») (2), trasfigurano il grido ribelle e spirituale in grido di dolore e sete di giustizia universale(3), una giovinezza sempre desiderata e mai posseduta, assumono una forza catartica, un’allegoria barocca(4). Come ha detto il De Sanctis, egli non crede alla libertà ma te la fa desiderare, non crede al progresso ma te lo fa desiderare, non crede all’illusione, all’amore e alla virtù, ma te le accende in petto, annunciando tutto il suo dolore di uomo destinato a morire, a soffrire, destinato a diventare una nullità rispetto al cosmo. E in questo è di una modernità che trova pochi altri riscontri tra la sua generazione, giacché egli ad una simile frustrazione di “vita strozzata” (infelice espressione crociana) sa sfuggire con bravura, evitando il cerchio vizioso dell’ilare, dello spontaneo, dell’effimero, dell’artificio banale. Non si chiude certo in se stesso, magari conducendo una vita tetra e solitaria (altra infelice espressione crociana), ma per quanto gli è possibile, egli ama la vita; di conseguenza, il suo approccio all’esistente è più vitale di tanti altri, confinati nel loro pessimismo: Leopardi non si certo definire un pessimista, egli ragiona sui fatti, va al di là dello stato d’animo sollecitato dalla realtà, superando ogni il suo pessimismo con la scrittura, con l’arte dello scrivere. Ciò che gli interessa è – insomma – “contemplare” la vita, anche la sua vita perdente, magari con un ghigno amaro ed ironico.
«Il senso più profondo del Carme, mirabilmente chiarito o, se più piace, integrato dalla Comparazione con sguardo retrospettivo di largo respiro […], non si conforta certo di disquisizioni storiche o teoretiche, ma per quanto gli è consentito di emergere dalle contraddizioni psicologiche e da investimenti poetici, è abbozzato fantasticamente»(5). Non c’è rivelazione, non c’è mito né filosofico né dell’ideale, ma soltanto mistero cosmico sull’asse materialistico-contradditorio, dove lo scetticismo di Leopardi annuncia la dissoluzione del mondo metafisico-spirituale e inaugura il regno dell’arido vero, della crisi, dell’incertezza:

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

dell’inquiete larve
son le tue scole, e ti si volge a tergo
il pentimento. A voi, marmorei numi,
(se numi avete il Flegetonte albergo
o su le nubi) a voi lubidrio e scherno
è la prole infelice
a cui templi chiedeste, e frodolenta
legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
la terrena pietà? dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi
(Bruto Minore, in Canti e prose scelte, a c. di P. De Colle, Curcio ed., 1988, vv. 16-24, p. 45,).

In più sembra che l’unico vettore per garantire edificanti istanze in grado di ammansuetare la solitudine dell’eroe leopardiano, sia la virtù, il coraggio di sovvertire, senza false misure, le leggi di una natura aggressiva. Il mondo non merita la virtù perché è in rovina; una virtù, se si vuole, dell’eterno valore, che ha il proprio culto nell’arte, nello sfrondare il vecchio logos occidentale, nella costruzione di un itinerario dinamico cristallizzato dall’ansia agonistica e conoscitiva del proprio destino. Dal punto di vista di questi parametri lo si può definire un romantico, ma di straforo, azzarderei, in quanto è poco incline ad una vita contemplativa e slegata dalla realtà. Certo, crede nell’amore, studia gli animali, legge i classici, contempla la natura e il suo evolversi, ma in una posizione critica e contradditoria, appunto, che ce lo fa apprire il meno romantico dei romantici.
Decisivo è il ritmo e il suono di questa canzone, anche se il linguaggio rimane arcaico, orchestrati dalla solennità evocativa e dall’elogio patriottico della prima strofa, dal profondo Leopardi avverte che gli dei non provano nessuna pietà per gli uomini infelici, né compassione:

poi che divelta, nella tracia polve
giacque ruina immensa
l’italica virtute, onde alle valli
d’Esperia verde, e al tiberino lido,
il calpestio de’ barbari cavalli
prepara il fato, e dalle selve ignude
cui l’Orsa algida preme,
a spezzar le romane inclite mura
chiama i gotici brandi;
sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l’atra notte in erma sede,
fermo già di morir, gl’inesorandi
numi e l’averno accua,
e di feroci note
invan la sonnolenta aura percote
(ibid., vv. 1-15,),

e dalla tremenda accusa agli dei della seconda:

Dunque tanto i celesti odii commove
la terrena pietà? dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?
(ibid., vv. 25-30, pp. 46-47).

Ma in fondo il poeta pensa che anche gli dei non siano immuni dalle sferzate di una natura matrigna e dal crudele destino. Pessimismo cosmico, che diventa vena ottimistica nel momento in cui si convince – come detto sopra – dell’infelicità degli dei. Allora è così che deve andare la vita, così va vissuta, tra felicità e tristezza, gioia e dolore, né può l’uomo modificare le leggi della natura, dove anche gli dei sembra impotenti. E la convinzione che una vita grama sia un male comune, gli dà quella spinta per sovvertire i propri sentimenti negativi:

[…] Men duro è il male
che riparo non ha? dolor non sente
chi di speranza è nudo?
(ibid., vv. 35-38, p. 47).

Il suicidio di Bruto, cioè il suicidio dell’eroe, non sta a significare altro che l’inutilità di ogni eroismo, la presunzione e la vanità di tale gesto. Una verità inconfutabile, dacché lo scenario sconvolgente in cui dovrebbe essere riconosciuto e apprezzato il suo gesto. Ma il poeta-eroe non si scoraggia, o almeno non nella misura in cui vorrebbe «restituire la parola alla vita stessa»(6), né pensa ai posteri o alla buona immagine da presentare di sé, visto che nessuno è in grado di mostrare ciò che gli altri vorrebbero vedere, di custodire la virtù degli altri o rendere felice chi ha sofferto. Detto così sembra un pessimismo ad oltranza quello leopardiano, trascurando però la consapevolezza storica, la consapevolezza del momento vissuto, del dono della vita (nonostante sia “matrigna”) che va sempre vissuta: se da un lato lo priva del godimento e della gioia piena dell’esistente, dall’altro gli indica lo spiraglio materialista, contrapposto alle false illusioni: «Tutti i desideri […] non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea, confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell’indefinito, che la realtà non può contenere»(7).
E se non postula la morte nella sua totalità, questa canzone postula la relatività, l’idea di rivoluzione e capovolgimento del dato, nonché un più vario complesso nichilismo, impregnato di latinismi – come già detto – e forzato da una visualità che si distende fin nella “notte” dove il poeta s’interroga senza arrivare ad una conclusione. (Voluta? Chissà). Per non discernere poi dell’uso della catacresi o abusione – come dal latino, che pure hanno il loro peso («Preme il destino e la ferrata, v. 31») – le quali, contrariamente alla metafora, non tolgono alla parola «significato proprio (eccetto se il metaforico a lungo andare non se lo mangia, connaturandosi col vocabolo), ma, come dire, glielo accoppia con un altro o con più d’uno, raddoppiando o moltiplicando l’idea rappresentata da essa parola. Doveché la catacresi scaccia fuori il signi-ficato proprio e ne mette un altro in luogo suo […]. Come interviene appunto nel caso nostro, che la voce ferrato importa onninamente ferreo, e chi dice ferreo, dice altrettanto né più né meno»(8). Questa spiegazione del Leopardi, supportata da numerosi exempla, non è altro che la riprova di come egli, sia pure avvalorando la terminologia classica, sia stato per i suoi contemporanei uno sperimentatore di linguaggi, coerente ad oltranza col suo modo di difendere la memoria «contro ogni tentazione edonistica e retorica, contro ogni conformismo e opportunismo ideologico e morale, contro ogni elusione, per debolezza o per calcolo, del nostro supremo dovere di essere risolutamente strenuamente fedeli a noi stessi»(9).
I pretesti di una forza fonico-evocativa, di un’ariosa apertura alla bellezza sintattica e rimata, riescono soprattutto a far esprimere all’eroe il desiderio della fine, nell’indifferenza cosmica in cui è costretto a vivere, un vivere però che rifiuta ogni faciloneria, accogliendo in sé il coraggio e la sincerità di un’energia indagatrice che non si persuade con nessun compromesso se non con quello (eccezionale) artistico, ascrivendolo – è il caso di ripetere – nel Romanticismo europeo “sub judice”, in una dimensione tutta sua. «Certo, lo spirito s’inebria. Ebbene in questo intimo assaporamento di gioia non solo sta tutta la giustificazione di quella forte illogicità che è la vita, ma la ragione eterna di viverla contro ogni ostacolo e al di sopra di qualunque jattura»(10).
Dunque il mito dell’arte rincuora lo spirito del poeta di Recanati, ridandogli a volte persino gioia, quell’illusione, quella “bella illusione” genuina, il sorriso del sogno, dell’utopia, per cui Leopardi resiste al pensiero del suicidio, lo respinge. «Nessun bruto desidera certamente la fine della vita, nessuno, per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di procurarsela»(10). E alla fine riesce persino a trovare qualcuno che compie un gesto così indefinito (come il suicidio) al posto suo, perché in fondo Leopardi non ha mai odiato al tal punto la vita, connaturandosi – specie negli ultimi anni della sua esistenza – con un sentimento d’amore e di pietà “normali”, come i suoi contemporanei. Quello che gli preme: dimostrare la crudeltà della Natura, l’inquietudine della vita che è cosmica (che non è sempre un male, anzi, è uno stimolo per tirare fuori il meglio di sé), senza cui forse come grandissimo poeta non sarebbe mai esistito:

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
e la fera e l’augello,
del consueto obblio gravido il petto,
l’alta ruina ignora e le mutate
sorti del mondo: e come prima il tetto
rosseggerà del villanello industre,
al mattutino canto
quale desterà le valli, e per le balze
quella l’inferma plebe
agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
siam delle cose; e non te tinte glebe,
non gli ululati spechi
turbò nostra sciagura,
né scolorò le stelle umana cura
(ibid., vv. 91-105, pp. 48-49).

 

________________________
(1)  Cfr. ANGIOLA FERRARIS, L’ultimo Leopardi, Einaudi, 1987, p. 4.
(2)  EMILIO GIORDANO, Leopardi; il canto del tramonto, il tramonto del canto, in Aa. Vv., Studi e testimonianze su G. Leopardi, in «Tempo Nuovo», II serie, anno XXII, n. 43-44, luglio-dicembre 1988.
(3)  Cfr. ibid.
(4)  Cfr. ANTONIO PRETE, Il demone dell’analogia. Da Leopardi a Valéry: studi di poetica, Feltrinelli, 1986, p. 26.
(5)  MARIO MARCAZZAN, Leopardi e l’ombra di Bruto, in «Nostro Ottocento», Editrice La Scuola, 1955, p. 289.

(6)  MARIO LUZI, Nella poesia e nel pensiero una necessaria rifondazione, in Aa. Vv., Omaggio a Leopardi vol. II, Francesi ed., 1987, p. 565.
(7)  GIACOMO LEOPARDI , Zibaldone, I.

(8)  Leopardi, annotaz. al Bruto Minore.

(9)  WALTER BINNI, La protesta di Leopardi, Sansoni, 1977 3 , p. 263.
(10)  CARLO BERARDI, Ottimismo leopardiano, Treviso, 1926, p. 190.

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