GIANLUCA GARRAPA, Forse


Uno ‒ Il mattino seguente presi il treno, sapete, il treno è un mezzo di trasporto, che cammina sui binari su delle rotaie di ferro o di ghisa, a volte di aria, di plastica elettrica e di supposizioni varie, e fin qui, nulla di nuovo.

La novità è che ne sto scrivendo ora, maciullato dalle rotaie. Sì, mi sono appena tolto di mezzo.

I ragazzi e le ragazze, non che io non sia i ragazzi e le ragazze, qui sotto mi tengono compagnia con i loro sbottiglianti sortilegi e i toni alti della loro suoneria vocale, ma non lo sanno, perché in silenzio, fruscio del ventilatore, gli applausi dalla radio, non al concerto dell’ensemble, ma a me, gli applausi sono rivolti a me, a questo giro di frase inconclusa.

Perché? È poco realistico? Perché non si muore forse mentre si sta sognando o mentre si sta compiendo un’azione? Forse anche dopo aver smesso di vivere.

Non ho davvero nessuna intenzione di scrivere qualcosa che piaccia a me o qualcuno che non sia me. Per questo mi applaudono in un mormorio di rondine.

Perché il motivo per cui sto scrivendo ora è la prova generale del concerto a quattro piani per una sola mano.

La causa invece è molto più profonda, cioè epidermica. Un tatuaggio che rappresenta il livido sottostante. Ma io dico che il livido è soprastante, è il corpo intero con tutto il suo bagliore di linguaggio.

Non sopporto questi continui andare a capo. Come fosse in atto una poesia o una pozzanghera di benzina iridata.

Però in questo momento in cui egli ha sparato le sonorità industrial della moto in aria e le risa conflagrano ortogonali alle urla della vicina che urlando oblitera ai ragazzi e alle ragazze di non urlare, in questo momento, avrei voluto scrivere, nulla, niente, fingo di aver perso il filo e pace.

I continui andare a capo, la musica dal pianoforte con batteria di battiti. Scrivere ascoltando Battiti.

Battiti va in onda a mezzanotte su radiotre. Fra non poco.

Dal davanzale l’odore acre della spirale antizanzara amplia lo spazio radiofonico per sinestesie lunghe un miglio.

Sì. Potrei partire da qui. Domani però. Oggi devo morire.

Applauso.

 

Due ‒ È qui e lì, la danza colma di vuoto a metà bianco a metà nero, dal fondo appiccicoso di orzo e zucchero, a fissarmi come un insetto al muro.

Questa la mia postazione, accanto alla sviolinata radiofonica.

La stanza oblunga mi contiene, psichiatrica, adducendo scuse rettangolari.

È quasi mezzogiorno, a due passi dal tramonto.

Tutto è così lento e duraturo, e la vita trascorre frettolosa ma mai veloce.

Non c’è nulla di strano, se il vicino di casa, lontano anni luce dall’idea di essere osservato, mi spia dalla strada fissando la cacca del suo cane.

Sta accadendo tutto in questo momento, prima della virgola e dopo questo.

L’aria è più indossabile, oggi, la bicicletta sobbalza sulla pavimentazione in sonori rimandi e discinto è l’alterco con il rombo delle auto e il quadrato del concerto dalla radio.

Benedetta radio, la prima volta che ci misi piede era stato per sbaglio e avevo la forma di una vestito indossato di colpa.

Abito qui, in questa corte di frasi a due passi da tutti i cimiteri delle idee, dalle porte sbattute in faccia al destino.

E quale sarebbe il fine di questo scrivere se non il fine stesso, tale e quale all’inizio, le lettere, cioè, che non mutano, mai, qualsiasi cosa scriva.

Nulla muta, solo il nulla muta, resta immobile il resto, invece.

E il fumo della spirale antizanzara trasformato in cenere, è questo il nulla.

Me lo immagino così: una zanzara.

I rapidi assaggi di idea, sono apparsi qui, nel costume d’epoca, di astensione del giudizio.

E mi chiedo, prima di iniziare a finire, se è mai possibile astenersi dal giudizio. Non credo.

Non credo solo perché è stato dio a negarmisi, più volte, al telefono.

Sì, d’accordo, ognuno è libero di credere o non credere, ma i telefoni esistono, ci crediate o meno.

Il mio era grande e di un colore variabile tra l’indaco e l’amaranto, lo usavo solo per chiamarmi e la tenevo chiuso con il lucchetto.

In questo momento me ne sto ricordando affacciato alla finestra del pc.

Poco fa il postino ha suonato al campanello a bella posta per comunicare al condominio che il sabato la missiva tace.

Sono felice agli estremi quando penso che cadrò dalla finestra per caso sul pavimento.

 

Tre ‒ È bene dire che nel pomeriggio ho tralasciato di scrivere, come si era proposto, a mo di pillola tre volte al dì, al dire, cioè. Si era proposto lui, di scrivere, non io, e infatti io ho fatto ben altro, è bene precisare i limiti e i confini.

Le urla dei bambini in strada impreziosiscono la sera.

I vapori della cucina mentre bollono i cibi azzannano la lirica, non la poesia, per carità, la lirica alla radio.

È un concerto di luci e stelle, cui prendo parte ascoltandone i richiami telepatici.

Sbatte un portone.

Telepatici perché lo so che il tenore pensa a me mentre declama le ottave.

Aldilà della voce c’è una strada, la luce. Ma la luce non per utilità urbanistica.

La luce perché sapevano avrei dovuto scrivere rima con voce.

Sinceramente non piace questo pezzo in prosa. Non so, non manca di nulla. Si oscura in punti nevralgici e non si copre di maschere. In questo momento è partito un allarma, per avvisarmi, credo. Ora che l’ho scritto, ha smesso.

È con un cedro di imbarazzo che mi sollevo dalla sedia e vado a chiudere il calendario, così, per dire qualcosa.

Lui che scrive e io che digito, è questo il suo problema.

Vorrebbe essere e idea, e parola e mano e tasto.

Dabbasso la macchina finalmente ha preso il largo.

L’uomo e la donna, che non mi somigliano per nulla, trillano un abbiocco.

La voce alla radio amplifica il suo rumore interiore.

Io e lui non andiamo d’accordo perché per me l’interiorità non esiste.

Per lui, invece, non esiste l’esteriorità.

E quindi meglio partire e scrivere.

Mi rifiuto perché ci sarebbe da dire tanto e quindi non ha senso scrivere.

Eccezione è questa risata da rictus della caffettiera.

Bandiera transnazionale la logorrea delle stelle oltre i colli che esperti corrieri han trasportato fin qui.

Nella verticale dei giorni, noi, io e lui, abbiamo reso questo momento simile a molti altri. È questo l’infinito.

 

Quattro ‒ Sparire, lo sapete, è un modo di cantare. La voce dalla radio, la musica dai muri, le parole dagli scaffali della vita, avranno una presenza. Il corpo è sparito, a volo di luce, in forma di onde microcardiache.

Ero a fare la spesa e mi viene in mente che non ha senso vivere se non fai la spesa la domenica mattina, prima del tramonto quotidiano.

Quanti manufatti sono brutti e fatti con i piedi, come si dice. Odio i modi di dire. Scrivere è un modo di dire, o di sparire.

Eppure oggi, anche se potrebbe sembrare il contrario, pare di sottostare a un cielo concavo per minestra, d’argento,

Anche i rumori e le fake-news giungono attutiti e la macchina non riparte.

Ai campanelli, simili ai tuoi occhi, brillano uomini ultraortodossi recanti con sé missive esplosive.

Per strada, questa è la dimensione, scivola il parlottio convulso di cani, e i tetti d’ardesia paiono un lungo funerale di novembre.

In questa situazione per niente facile, tutto scorre liscio e le nostre, mie e di lui che sta scrivendo mentre io mi limito a digitare, le nostre, le situazioni dico, restano quello che sono: parole.

Cosa c’è fuori dalla parola, oltre al senso che irradia in multiple direzioni?

Non lo sanno loro, le parole. Per questo le nostre , mie e di lui che scrive, e tue di te che leggi, supposizioni restano congetture morte in aria, nemmeno campate, ma proprio defunte: solo le parole possono stabilire il loro più proprio senso, la loro direzione. Noi non siamo parole.

Siamo cose parlanti.

Forse.

Può anche essere il contrario.

E ripeto: la deriva che ha preso quanto vado digitando e quando lui va scrivendo, non mi piace nemmeno un po’.

È che la giornata non offre nulla, che so, un bicchiere d’acqua.

Quanto è bello un bicchiere di acqua, non dico i bicchieri in plastica o in vetro pieni di acqua, ma proprio un bicchiere in acqua.

Fatto di materiale acquatico di forma semisferica o conica.

Una goccia cava che potrà o non potrà contenere platica o vetro.

Ecco che siamo noi questo bicchiere in acqua in cui le parole sono come olio.

Sembra molto allettante come forma questo destino a bicchiere umano.

Lui dice che da qui derivi il termine: sete di conoscenza.

 

Cinque ‒ Alle 15 e 08 la madre mi racconta di avere un grave problema di comunicazione con il figlio adolescente e di non sapere come risolverlo e io le consiglio di cambiare problema e di provare con il riscaldamento globale: provi a risolvere questo problema. Così le dico, immaginando.

La musica cubana oggi non ci voleva proprio, non voleva a noi. Come si dice dalle mie parti, dietro la finestra in questo caldo fin d’ottobre. La radiofonia nella strenua lotta avveniristica di proporre il passato con applauso e bravo a me che ascolto. La musica se ne accorge se l’ascolti o no. E io non me ne accorgo. Tipo oggi, questa sera, domani quando rileggerò il declino dell’impero dei segni. Ogni momento può essere le 15 e 08 e una madre che racconta, tutti noi, quando non ci pensiamo, siamo ogni momento, ogni pianoforte, ogni musica che entro mezzanotte tace e il silenzio pure. Applauso, tromba, squilla il gelsomino di quella famosa poesia mai scritta che il poeta dedicò alle tombe. Giocare a tombola è questo, un salasso sull’ipostasia: e davvero non volevo comporre una frase di senso compiuto se non fosse che la parola sconosciuta mi si è presentata da sola come un oracolo. Sarà per il fatto dell’ora.

Lo so, avete notato la prevalenza di un andamento meno spezzato.

Illusorio di una continuità.

Un suono pedalato e sinfonico.

Però passare da un regime

a un altro

tipo

questo

non sarebbe armonico, estetico, del tutto immorale, scostumato. Considera che è quasi mezzanotte e il secondo concerto jazz è terminato.

Aspetto.

Free.

Musica contemporanea. Sotto casa c’è il mondo. E tu, che utilizzi il tu ma sei tu e dovresti utilizzare io, e io? Che fai io? A scrivere che.

Che sotto casa c’è il mondo e io sei l’universo?

 

Sei ‒ Quando il bambino canta e sperpera la felicità urlando come un coro di uccellini, non posso far altro che smettere di pensare.

E quindi prolungarmi a scrivere imbastendo il tempo in attesa che la lavatrice concluda il suo ciclo.

È domenica, come sempre.

Ora di pranzo. Nell’antimateria del sogno.

Che non significa nulla, ma che vorreste dire: tutto quello che fate o dite ha un senso?

Spero di no, spero abbiate grossi margini di insignificanza come la finestra che non smette di bucare il muro.

Anche oggi è un domani e mi trascino pigro verso il filo del bucato.

E davvero non ho mai realizzato alcun fallimento nella mia vita.

Se è successo è stato merito della lavatrice che non andava o del vento che era troppo forte. Io, le mie persone interne come panni da stendere.

Alla vigilia di un nuovo retaggio, di un nuovo ricordo.

Siamo i nostri ricordi, ma quelli avvenire, non ancora realizzati: me lo ripetevo spesso fissando le orbite dell’oblò.

Vediamo dove andremo a finire questo inizio. Si inizia sempre con la pretesa di dire o scrivere o fare qualcosa di importante. Sempre prendere, mai dare, mai esportare. Importare nozioni, cibarsi di aria e esprimere anidride.

Eludere i cavilli degli ioni e dei bordi, non che io sia bordo, o forse sì. Anzi, io sono bordo alla tastiera come il bucato lo è al cestello.

Ci penso sempre a questa cosa qui. Il punto, il punto che fraziona e compone frasi non ha funzione pratica. È un flusso che un altro flusso interrompe e prosegue. Sentieri indefessi.

La centrifuga comprime l’essenza e trae lo scarico fuori orbita.

Poi rallenta. Smette la corsa, il bambino ha smesso di cantare.

Le foglie morte. Associazione a delinquere di idee.

Dalla radio la voce racconta il viaggio sulla luna.

Luca Parmitano ha dovuto sottostare alla ruota della centrifuga.

Come un bucato prima di morire al sole.

Per me è come Babbo Natale.

Per me non c’è stato nessun allunaggio.

È tutto falso: la luna non esiste e la terra è questo sogno scritto.


Biografia di Gianluca Garrapa


 

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