CARMEN DE STASIO, Vira Fabra: inchiesta e inquietudine di un pensiero-scrittura

Muovo dall’ipotesi che il destino della scrittura, e per estensione dell’arte, con l’avvento della telematica sia segnato da una eclissi totale, cioè che sia inevitabile la scomparsa di un certo tipo di civiltà debitrice ai Sumeri della punteggiatura, pare per necessità di un orizzontale accesso al pensiero, e a Gutenberg di un’ampia diffusione della cultura, per sottolineare come la morte del libro sembri non soltanto lontana ma, in ogni caso, reversibile [1].

 

Quando le trame dei pensieri varcano la soglia del visibile perché ne scorgono la consunzione attraverso le dissolvenze delle abitudini, orbene, in quel momento l’artista inizia di nuovo, giacché vivere equivale a una continua inchiesta piuttosto che porgersi inginocchiati al visibile da concepire attraverso le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie [2]. La storia è densità fertile. Genera territori con la coscienza dell’esservi parte e di essere al contempo fautrice di un parto che, inesorabile, crea la sua scia anche quando le deviazioni appaiono mietere un luogo diverso da quello al quale (si pensa d’essere) predestinati. E ancora: la storia narrata parte da lontano; incarna nelle sue radici le origini dalle quali il fusto prende movimento; fustiga le congiunzioni serafiche e idealiste e s’incunea lento verso una traccia che nettamente prende le sembianze di una scelta ponderata e variegata – esperimentativo preambolo di movimento fisico-intellettual-immaginativo di una ricerca che supera l’apparenza, scavalcando gli incastri di luce e di ombrati silenzi e diviene parola di una donna ‒ Vira Fabra ‒ tra le più impegnate e innovative intellettuali del Novecento, appena esistente e applicata nelle tensioni climatiche del nuovo millennio, nel quale è entrata per pochi anni ‒ nove, per l’esattezza (1923 – 2009). Sempre pochi per una mente fertile. Personalmente, m’inserisco nel discorso Vira Fabra da qualche anno, attratta per la mondialità di pensieri che contengono gran parte del sentire donna-intellettuale, dilatandosi nella struttura solida e vagante a un tempo del suo pensiero-scrittura. A Vira sono state dedicate pagine pregevoli soprattutto dal marito, Ignazio Apolloni, colonna della sperimentazione e della ricerca di linguaggi letterari. La poeticità che impregna la parola esplicita e pluricromatica di Vira Fabra permette di riceverne un quadro alquanto esaustivo sulle intonazioni e l’impegno sociale e culturale in progressione perenne, volgendo a non tralasciare nulla. E la materia della sua indagine verte sulla libertà di scelta che è propria di chi osa germinare idee in grado di apportare (e fissare per poi estendere in ultronei territori) un’incisione alle indennità sulle quali s’intende spesso incancrenire i processi conoscitivi, racchiudendoli oltre la cancellata dell’essere-fare e del fare per ottimalizzare il pensiero. Questo uno dei cardini di Ultimi Tattili ai Margini della Memoria ‒ imponente creatura video-letteraria realizzata da Vira Fabra. Un titolo emblematico che assimila la sintesi di un agguato che si delinea nell’incapacità umana di superare la soglia dello sconvolgimento visuale e inoltrarsi nel visivo pensativo, magari ricorrendo all’esplorazione di potenziali riflessioni storicamente assunte nel tempo del funzionalismo disarmante e calpestate dalla legge della consuetudine.

Il tempo si dota di una singolarità che si sforza di ammettere squarci provenienti dal passato, privandosi dell’enucleazione che dimentica tracciati ultrasensibili per dimostrare il superamento. Eppure la mente elaborativa e configurativa trattiene nei suoi movimenti anche le corpuscolarità che potrebbero significarsi estranee alle movenze che ne decretano il passaggio. Nessuna dannazione, quanto il normatico corso dell’esistere. Un patrimonio che non considera la cosa, né il perché equivoco, ma ricerca la motivazione nelle estromissioni, nelle intemperanze. Per giungere a cosa? Distanziandosi da un periodare consumato dalla fatiscenza delle immagini e accantonata la deduttività (che comporterebbe l’esclusivo riprendere di un testamento assoluto), il tracciato scritturale-pensativo-esistenziale di Vira Fabra segue uno schema mobile che incastona in un prisma estensivo sia comportamenti (espressioni di superficie), che consistenze elaborative, nelle quali é l’evidenza di un’internalità alle cose e ai fatti; corrobora la luce libertaria che l’autrice-pensatrice dispensa nelle sue trascrizioni come meditazione libera di formarsi con le cose, piuttosto che conformarsi a un dogma proveniente dall’esterno. Addirittura, per taluni versi, nelle sue prime realizzazioni letterarie anticipa tendenze culturali che avrebbero dato una svolta al pensiero occidentale a partire dagli anni ’60 – un lungo periodo coincidente con un capoverso esistenziale, tanto nuovo anche per la stessa Vira. In tal senso, nell’illuminazione di un dubbio come essenza della traduzione del pensiero in azione, ella trasferisce la carica che si sorregge sul fulcro cementato. Libera in un gesto liberatorio che inscrive in versi su camice, magliette, cementando in questo modo la possibilità che ciascuno legga e, al contempo, possegga in arbitrio e in materia la parola, e la cultura vaghi come un’installazione performativa mobile, multimediale.

Un’affermazione di verità minima suffraga la vulnerabilità e la manipolabilità del pensiero; al contempo, dota di un’elaborazione itinerante come solo il pensatore è in grado di costruire. Quando si parla di costruzione, sovente il rapporto tra l’azione del fare, tra l’ideatore soggetto e il luogo, sembra varcare la soglia del possibile finito per impilare conoscenze che porterebbero solo a una confusione di pleonasmi e schiaccerebbero l’impalcatura con sovrappesi capaci di disintegrarne la sostanza. Al contrario, lo scardinamento successivo alla costruzione è riferimento per fertilizzare escrescenze di nuove entità, che non già scavalchino la parola e si compenetrino con un nous necessario a definire la legge che regola le cose e le situazioni innestate dai processi impliciti della natura, evitando di raggiungere con addizionali aspetti la meta: nel momento in cui la meta appare avvicinarsi percettivamente, il sé meditante si distanzia per via di una spinta cosmica a ricercare altro e sostenere la proiezione del sé nel desiderio quale realtà poetica. Per conoscere ciò che è il rimando della storia, non si può fare a meno d’incentivare la memoria a ripercorrere le tappe salienti della sua evoluzione. Giacché non di cassa di risonanza si tratti, ma di una sfera a mille aperture dalle quali e per le quali passa la varietà atmosferica delle sembianze della ragione, talora animandosi su incongruenze e affezioni d’animo, altre volte come agitazione di uno spirito che è sì parvenza di oscurità, ma che denigra l’oblio. Cogliere l’imponenza e la fragilità delle cose nei frammenti significa puntare alle cose secondo criteri apertamente cartesiani con una logica che muove da un’intenzione zetetica e che tratti di pensiero come argomentazione cara all’esistere efficace e logico, appunto.

 

Lo scrittore, l’artista, si trova costretto a vanificare o a volumizzare la corposità di una merce senza valore, a inventare o scoprire un linguaggio calibrato che comunichi tutte le acquisizioni dell’uomo, non escluso il naturale e l’infantile, oppure a prendere atto, partecipare dell’indifferenza che sembra scaturire dalla necessaria soggiacenza alla civiltà tecnologica [3].

 

Sui cocci cammina Vira in un tensivo silente, nella postura di un essere attratto dall’essere e appartenersi. Nulla vale la folgore della rassegnazione. Guarda con una voce declinata al passato ma non al buio; anzi, da quell’oscurità promana una luce che sostiene il presagio di ciò che sarebbe divenuta lei, donna, intellettuale altera e lieve. Dai cocci Vira risale. Non già dai frammenti di un presuntuoso progresso, là dove sibila lo zefiro che sarebbe emerso, sebbene non nella totalità dalle sembianze intraprese come suo percorso finalizzato alla ricerca nel metodo e nel sostegno alla percorrenza medesima. Immersa in una costante ricerca, la Fabra trasferisce nelle parole fecondità che attraversano, con i mezzi di una logica creativa, un paradossale quanto inesplicabile e aggrovigliato ambiente articolato di libertà tanto emozionale che intellettuale.  Così si fa carico di una pacatezza dietro la quale non maschera, tuttavia, il logorio motivato dal viaggio continuo alla ricerca di un luogo entro il quale costruire un proprio territorio. Le ferite sono aperte e lasciano spazio all’infezione. Meglio sarebbe dire che la riflessione sulle potenzialità umane – in tutte le direzioni esse si dirigano – rappresentino slancio per la traiettoria che sin dalla prima pubblicazione delinea la personalità letterario-filosofica di Vira Fabra. Infatti, in I resti dell’amore [4] (opera prima) s’infittisce nel procedere delle pagine l’intraprendente rapporto con la scrittura di pensiero, in una circadianità contestuale irradiante, i cui protagonisti sono individui che si narrano mediante minime storie e particolari attitudini nei confronti di quelle storie. Il fatto che ciascuno trasporti la personale parabolica storia colloca l’autrice-pensatrice a livelli di un teatro in stile Jonesco, che assembla i criteri di un parlar matematicamente razionalizzato come un’impalcatura in definizione, sulla base di una materia che si articola via via nella scoperta continua della sua natura e in una maniera che oserei definire cartesiana. Non è una novità: Vira Fabra non ha mai ostentato un’affezione particolare al filosofo, eppure, tra tutti coloro i quali hanno rappresentato un fondamento per la sua poliforme cultura, Cartesio appare il designato iniziatore della filosofia moderna. Con uno sguardo teso verso Bacone, s’intravvede lo spirito animato di un procedimento progressivo di trasformazione-evoluzione a sostegno di una struttura comparativo-emozionale, che avrebbe comportato un sistema flessibile induttivo finalizzato alla creazione di un territorio dove attualizzare i saperi, dai quali procedere alla collocazione verificabile delle abilità. In tal senso il tempo di avvio alla scrittura della Fabra appare cruciale per il sol fatto che, a differenza del periodo post-bellico precedente, il poi del secondo conflitto mondiale avesse lasciato in eredità tendenze opposte ma non contrapposte. Aporiche, in un certo senso: l’una atta a esorcizzare con un familismo protettivo. L’altra convergente all’astrazione che replica, pur con una nuova attitudine, le dissolvenze e la tensione all’indomani dell’ingresso nel nuovo secolo.

 

Io non correvo come i bimbi d’oggi

Verso lo stadio o le panchine in villa;

alle cantine la sirena chiamava

e delle bombe il fragore temevo.

 

Gli scappamenti delle moto aborro

E delle guerre io sospetto ancora

Che la ragione sia quel basso fine

Di sopraffare sempre l’umanità.

 

Ma l’uomo dice di voler morire

Per ideali in cui il mondo crede;

che premono nel tempo che non ha. (…) [5]

 

Così come si evidenzia nella raccolta poetica Paura, in cui le tematiche trattate coinvolgono equamente vibrazioni individuali, luoghi e oggettive visualizzazioni, nonostante la forma di I resti dell’amore riporti alla narrazione diaristica con una struttura sintattica volta al passato, simultaneamente, anziché vagheggiare su un così è stato, afferma un presente nel quale tutte le vicende e le modalità transitorie portino al momento, sicché ciascun momento sembra legarsi a un nuovo inizio, entro il quale la parola agisce come climax e come anastrofe per altri (non è detto siano definibili peggiori o migliori) orizzonti. Gli orizzonti di Vira Fabra sono espressione di un incontro di assi cartesiani, appunto, che permettono che all’interno dell’individuo si determinino le fattezze di una convessità e di un’iperbole che viaggia nella verticalità, confluendo a dilatare, piuttosto che restringere, il campo senso-visivo-appercettivo. La contemporaneità dell’azione non ne compromette la vista mentale, né tende a logorare su vetuste macerie (i resti); diversamente, comporta la rilettura secondo un programma logico ‒ così come Cartesio definì il suo paradigma nel ricercato modello. Ne consegue che il dirottamento della narrazione al passato concili una visione consapevole di quelle deviazioni e divenga energia impiantistica significativa e molteplice. Ciò detto, il passato non può conformarsi a regno dei morti: sarebbe scenario di monadi impazzite, giacché l’idea declinerebbe l’investigazione a una mera sentenza.

Esiste tra gli interstizi la melanconica nota di un tempo dissolto negli spazi dell’esperienza. Eppure, nella memoria quegli spazi vivono incessanti, sì che il soggetto svicola dalla prigionia delle concordanze esperienziali. La parola ne rende agevole il cammino. È organicità che si confronta nei dialoghi, nelle manifestazioni che danno effervescenza alle espressioni del pensiero, senza per questo trasecolare in assunti categorici dal tocco enigmatico esponenziale. Il distacco altero permette così a Vira Fabra di accedere con un’apertura alla quale molto contribuisce l’elasticità di traslare da quelle memorie un paradigma crescenziale, dal quale avviare una meditazione non sobillata dalla perentorietà dell’immutevolezza come criterio di quiete. O acquietamento indolente, che preme affinché il rumore ci accompagni [6]. Inoltre, la possibilità di coniugare l’intenzionalità con le attitudini sul versante della conoscenza e della questione umana ne forgia l’abilità anticipatrice sperimentale, andando ad esaltare le movenze di un femminismo colto e riprendendo l’etimologia esistenziale proveniente da Una stanza tutta per sé, in cui Virginia Woolf sostiene la conquista più preziosa: il controllo privato del pensiero, cui corrisponde l’abilità sostenuta della scelta. Sofferenza, memoria, doloroso cammino, non importa: libertà di scegliere dove e come andare nell’accurata consapevolezza del cosa conoscere. Questo il punto di elevazione che dà origine a una riccamente inquieta traiettoria. La rotta scelta si colora di insidie, ma talora sono proprio queste a sollecitare l’evoluzione. I tempi sono maturi rispetto a un qualsiasi Septimus (protagonista in cromia parallela in Mrs Dalloway della stessa Woolf). Il settimo cavaliere nel settimo giorno aspira alla svolta. E tuttavia egli non indossa corazza di offesa, né di difesa. Affronta la libidine di sangue [7]; investiga il territorio circostante per trovare unità minime esistenziali che gli consentano di superare la sanguinolenta mano che infanga l’uomo animato contro l’altro uomo. La maniera contribuisce a tener desta la volontà quale realtà effettuale rispetto all’insoddisfazione che sembra appagare (paradossalmente) nell’autocommiserazione.

Come non concepire in ciò un sistema di cooperazione e di dipendenza tra le cose e le faccende legate all’azione dell’individuo? Secondo uno schema risalente a Edmund Husserl, infatti, non conviene considerare la dipendenza tra le cose come un laccio stringente. Al contrario, la dipendenza tra le cose acquista valore crescenziale in virtù di un legame che evita le mistificazioni del do ut des (segno di potere e circoscrizione del vivere al bisogno rivelato nell’oggetto posseduto o da possedere) e comporta la mutevolezza al variare di circostanze. Ovverosia, conviene a un’implementazione che, per sua specie, ha corrispondenza con il misterioso territorio dell’agire ‒ pertinace rispetto all’intenzione che da sola non basterebbe a declinare verso una rotta distinta e innovata, di contro ad una forma di storicità acquiescente le potenzialità di deviare e, per ciò detto, di scelta. In una dinamica kantiana, alla facoltà di indirizzare secondo una rotta storicistica la conoscenza, occorrerebbe rimediare con la qualità valoriale zetetica di razionalizzazione visiva, che spinga a ricercare nell’ambiente delle cose il valore eidetico (essenziale) delle cose stesse e – in maniera cartesiana – a riconoscere la fenomenologia correlata alle cose per criteri rinnovabili di natura logica, emozional-razionale, così come precedentemente asserito.

 

  Gli occhi chiusi, il respiro regolare; in quel corpo sano uno spirito infermo, ma controllatissimo [8]

 

Più avanti Vira Fabra non già accenna a un’apostrofe negletta sulla condizione della donna. Al contrario, punta l’accento su una domanda emblematica:

 

Che cosa vuole? Non cerca di saperlo [9]

 

Questa la vicenda del groviglio, su cui si sofferma in un dialogo socratico l’autrice. Nella volontà (realtà effettiva conclamata da Schopenhauer) si assesta la ricerca di superare le retrovie silenzianti del presuntuoso progresso [10]. Chiaro che l’autrice si discosti in un certo qual modo dalla decisività del mezzo. Evidente, infatti, che, fermo restando il valore individuale-comunitario della volontà, essa sia soprattutto valenza attitudinale e ambientazione totalizzante di molteplici vicende. Nella dichiarazione è il corpo presago dell’evoluzione del pensiero di Vira Fabra allorché, nella mutabilità della circostanza oggettivata al momento, dispone una nuova strutturazione implice della coscienza fenomenologica husserliana, messa al servizio di un dubbio quale sospensione e tratto significativo per nuove corrispondenze. Trattandosi di gravante abilità di concertare visualizzazioni dei fenomeni come azioni e soggetti eventuali, risiede anche nell’elaborazione delle intuizioni l’energica sperimentazione pensativa di Vira (il che riporta all’identificazione della donna con le asperità del suo luogo a-temporalizzato, nelle cui incrostazioni derivare nuove inclinazioni). Sempre in maniera prossima alla filosofia husserliana, si rappresenta la corrispondenza con la coscienza che ella istituisce come schema alla relazione con le cose, in ciò aprendo il varco a un’oscillazione della coscienza con la rinuncia alla quiete nella non speranza (E. Vittorini) in quanto condizionamento alla creazione-generazione di assetti, dai quali espungere le connotazioni di un vivere dotato dell’equilibrio nel rapportarsi all’esistere medesimo.

 

Scrivere per immagini è forse un modo di curare la vista, di rallentare o diminuire lo sforzo della lettura, alienata da una eccessiva produzione, rispetto ai consumi di libri che non abbiamo voluto rendere brevi, sintetici come sapevano fare gli eruditi del Medioevo. Il passaggio ai caratteri giganti, per veicolare il razionale e NON, potrebbe vivere una o molte stagioni, fino al momento-desiderio del ritorno alle sottigliezze del microscopico o invisibile pensiero [11].

 

Promana in tal senso una sorta di dovere implicito, che sovente rasenta l’assurdo agire per il gioco di specchi che coinvolge l’individuo soggiogato dalla sua stessa paura. Non un riferimento casuale: di fatto, Paura è il titolo di una raccolta di poesie che definire silloge porterebbe allo scardinamento dalle intenzionalità della Fabra filosofa. Le sue intenzionalità (non intenzioni) vertono già nelle prime fasi su una ricerca-azione responsabile. Lo sguardo e l’impegno sono volti al circostanziale non in una forma stigmatizzata di acquiescenza della non-speranza (traducibile in assuefazione a dogmi sacralizzati per assicurarsi un posto all’ombra di se stessi), piuttosto come attivismo del fatto incidentale, talora, teso a un ampliamento che fluisca e si estenda in un’astrazione albagina per nuove potenzialità pur nella concretezza del reale. Nella veste di staticismo routinario, la speranza compensa l’assenza di energia che trasla la volontà in motore di movimento. Un’astrazione al calcolo che sottende i collegamenti organici dell’esistere e dissuade dalla perentorietà di ciò che non s’intende spiegare e che riconduce alla Sequenza Fibonacci nella decrittazione dei sistemi logici che animano il comportamento articolato della natura.

 

Io del passato non ricordo molto

e del momento non conosco misura

poco mi sfugge eppure nulla scopro

dell’universo e dell’umano mistero

(…) [12]

 

Epperò, nonostante non si aggreghi alle leggi della fragilità tipizzata convenzionalmente al femminino, l’amarezza declina sovente in melanconia: pur sovvertendo lo stato con un’introspettiva ansia, la malinconia tiene distante la rassegnazione; rifiuta l’impotenza che sovente è ostentazione di azione senza esserlo. Lo spirito si ribella con sciolta razionalità, contenendo anche l’emozione. Ciascun evento è lezione, ma non lezioso didascalismo, aderente a quello che Vira Fabra chiama presuntuoso progresso, la cui azione è staticizzare la retina allo sguardo che vede (in)oltre per trovare equilibrata sintetizzazione alle proprie attitudini. Lo sguardo si ferma alla circostanza e là resta fedele a scrutare quell’impossibile reso reale dal precipitoso slancio verso la concretezza (nella quale insiste il male che pervade). Superato l’elasticissimo homo homini lupus, si assiste – é il caso di dire – alla dispersione dell’essere in rapporto con le cose e all’erronea concentrazione del potere come nuova moralità dell’uomo contemporaneo. Eppure, Nonostante la possibilità di registrazione del testo creativo recitato, la parola (poetica) resta innamorata della grafia [13]. Si badi che l’argomento tenda a risuscitare tendenze all’indomani del secondo conflitto mondiale, come anticipato in questo testo. In quel trascorso indomani, tra le macerie di una comunità dissolta l’individuo vive abbarbicato ( talora in auto-protezione) alle sue paure, ma la reazione è contraddittoria e non lascia presagire mutazioni efficaci. Se di responsabilità si potesse parlare, queste sarebbero da attribuire a un approccio culturale erroneo e finanche indeciso. Si è nel crepuscolo di un’esistere che affiora finanche nelle sue impressioni, nei suoi colori, in tutto quanto concepire una coscienza di carattere ultra-rappresentativo pari a una religiosità individuale di contro alla religione dei dogmi. D’altro lato non si può non tener conto di quanto la stessa Vira scrive:

 

(…)

Il pensiero nega ancora

la realtà in cui permango

Già mentre il mondo lottavo

la speranza svaniva [14].

 

Dall’ostracismo di una negazione continuativa alla fossilizzazione di e in una condizione che perdura oltre la volontà. Ciò tende ad assuefare il soggetto operativo e attuativo a posizionarsi rispetto a una non speranza asimmetrica e annichilita dall’esser speranza vanificata dalla realizzazione prospettica di una realtà irrigidita sui suoi dogmi. Si noti come ‒ con un chiaro riferimento a Lorenz – il termine, che da solo rende l’efficacia dell’attualizzazione dell’azione da parte del soggetto, assuma la parvenza di un decadimento delle energie nell’origine del termine: da soggetto ad assoggettamento. Negli anni in cui Vira Fabra scrive Paura si apre il nuovo concetto di povertà come mai verificato in precedenza. Sul finire degli anni ’50 il poverismo è tendenza che nell’arte dà valore alle cose della quotidianità per attribuir loro l’anima della continuità. È un voler vedere anziché volare altrove. La consistenza della realtà calpestata (e da nutrire con cocci di realtà da trasformare in occasioni di un processo fondato sulla costruttività dell’esistere) solleva il disfacimento di alcune transitorie e labili, quanto compresse e stabilizzanti, tensioni che spingono alla conservazione del posseduto, anche e soprattutto i concetti trasmissibili ma imposti di una visualizzazione d’ostacolo al nuovo. Al contempo, il disfacimento avvertito, che prende forma in varie espressioni dell’arte e della cultura di parola, è presago di una variabilità che nutre il costrutto degenerativo a seguito della rottura con un passato nelle sue forme di convenienza. La maniera dirige la mente coltivante dell’uomo appartenente alla concretezza costruita da se stesso a conferire qualità alle sue stesse diramazioni. Le mani, i piedi. È un diverso modo di accostarsi a un progetto di mediazione tra la qualità della vita e la qualità del concepire il futuro. Il concetto è ripostulato dalla Fabra in un redazionale risalente al 1969 e dedicato a Nat Scammacca (poeta italo-americano). Nel testo l’autrice si sofferma su una riflessione di Carlo Cattaneo: L’ignavia della mente preludeva all’ignavia delle braccia. Più avanti, riferendosi a Scammacca, ella scrive:

 

Ha saputo invitarci a vivere insieme. … Sogno che non si potrà distruggere né rinnegare perché se l’umanità amerà la scienza, l’avventura, per l’uomo sarà scienza, avventura, imprevisto anche il sentimento, e non soltanto sterile sogno. (…) [15].

 

Dove ritrovare il pensiero e i comportamenti se non nelle parole, dunque? È in questi termini che la figura di Vira Fabra si delinea tra la tessitura scritturale ‒ percorso rivelativo che nel silenzio delle grancasse domina con una volontà e una determinatezza derivanti dall’indagare costante ‒  e l’osservazione scientifica (e, mi si conceda) romantica, in una innovativa simmetria coscienziale in grado di assumere tutte le condizioni al punto da riflettersi in esse e permettere che le parole siano riflesso della sua longevità intellettuale.

Par strano parlare di Vira Fabra al passato, giacché la cultura vera non muore mai, sebbene manchino gli irriguardosi e sempre gentili tratti di follia che consentono al poeta di esser autore di pensieri riportati su carta e scienziato. In tal senso tutte le creazioni della filosofa, scrittrice, artista valgono come rappresentazione dei luoghi prescelti con una spontaneità assimilabile al bisogno di rappresentare la volontà costruttiva e il dissenso al dissenso in una sinfonia di tipi distinti dall’archetipicità di una cultura epigonica. Per lei si potrebbe riprendere quanto J. Cocteau ebbe a dire alla grande attrice Titina De Filippo: questi pezzetti di carta che arrivano da tutte le parti finiscono per obbedirvi e per assomigliarvi. Non distante da pezzetti di carta colorati e sparsi alla maniera dada é la parola di Vira Fabra: attraverso i meccanismi che animano una particolare elaborazione del pensiero, si comprende la globalità della donna che mai si è posta come altro da sé rispetto al suo ruolo di studiosa prima che di poeta-artista e filosofa-saggista. Fortemente impregnata del concetto mai subalterno di eidenai, il sapere di Vira detiene la spazialità consapevole di chi sa che il primo carattere della conoscenza derivi dall’inatteso, corrispondendo all’epistemica connotazione dell’essere un parto e un’indagine costanti.

__________________

[1]  V. Fabra, Ultimi tattili ai margini della memoria, Intergruppo-Singlossie, Palermo, 1983, p. 22 del testo a corredo della video-cassetta originale.
[2]  M. Serao, Il ventre di Napoli, Gallina Ed., Napoli, 2007, p. 29.
[3]  V. Fabra, Singlossia Neotonia Ecologia, in «Intergruppo», Tipolitografica Bonfardino & C., Palermo, 1982.
[4]  V. Fabra, I resti dell’amore, Gastaldi Ed., Milano, 1952.
[5]  V. Fabra, Allora, in «Paura», Ed. Lett. Arpa,  Milano, 1971, p. 12.
[6]  Atto puro, in «Paura», op. cit., p. 12.
[7]  I resti dell’amore, op. cit., p. 31.
[8]  ivi, p. 19.
[9]  ivi, p. 29.
[10]  ivi, p. 29.
[11]  V. Fabra, Il testo (pubblicato su «Arenaria, ragguagli di letteratura», n. 4) in Ultimi tattili ai margini della memoria, op. cit., p. 23.
[12]  in «Paura», op. cit., p. 19.
[13]  L. Zinna, in Ultimi tattili ai margini della memoria, op. cit., p. 20.
[14]  Disimpegno, in «Paura», op. cit., p. 18.
[15]  V. Fabra, Una polemica antigruppo, in «Mondo letterario – rivista mensile di letteratura, arte e varie», Mondo Letterario Ed., Milano, 1969, p. 6.


Biografia di Carmen De Stasio


 

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