CHIARA DE LUCA, Quattro poesie inedite da Versi animali


Da traduttrice amo disperatamente la lingua italiana. Sono ossessionata dalla polifonia delle parole, dal ritmo del discorso, dalla melodia del verso. Per me la poesia è prima di tutto musica. Perciò anche esattezza, che implica esercizio. Quando scrivo ho nella mente una partitura che trascrivo al ritmo di un metronomo interiore. Cerco la regolarità dell’andamento del verso. Ci combatto, lo piego, lo distruggo, lo rimodello come pongo. Fatico fisicamente.

La nostra lingua ha innata una musica divina. È una cosa di cui mi sono resa conto insegnando italiano agli stranieri, quando ho dovuto studiare la mia lingua madre – prima appresa intuitivamente – reimparandone le strutture e le sonorità con metodo scientifico, in modo consapevole.

Studiare una lingua nuova è imparare ogni volta a parlare, con lo stupore del bambino che pronuncia stentatamente le sue prime parole e quello lallante di una madre che lo addormenta. Imparare da capo la propria lingua è sentirla risuonare per la prima volta.

Nella poesia confluisce di tutto: letture, esperienze, incontri, sguardi, pensieri, sogni. Nel mio caso anche l’enorme opera di traduzione che ho compiuto negli anni. La traduzione ti educa alla disciplina, all’umiltà, alla pazienza richiesta dal lavoro di lima e revisione. T’insegna a soffermarti su ogni verso, a scegliere con cura ogni singola parola, a fare attenzione alle insidie verbali, a sfruttare l’ambiguità del linguaggio per costruire stratificazioni e riverberi di senso.

Essenziale nella formazione della mia voce è stata anche la corsa. Ho iniziato ad allenarmi a 8 anni. Dopo oltre dieci anni di corsa di fondo a livello agonistico, ho lasciato proprio al culmine della carriera, perché stavo perdendo la passione e la gratuità del gesto atletico fine a se stesso. Ma ho continuato a correre ogni giorno per tutta la vita. È il mio territorio di libertà assoluta, è riconciliazione con la vita, è caccia all’infanzia perduta, «È fucina di versi da prendere al volo / nel boccone che mastico e frantumo, // visione che per ore rigiro in un bolo / in gola perché non si perda nel nero, / finché al largo del cielo di nuovo non sono / sola a tradurre il passo in corsa del respiro».

Per goderne fino in fondo, la corsa richiede allenamento. Più ti alleni, meno fatichi. Meno fatichi, più voli. Più voli, più sei bambino.

Camminare mi stanca molto di più. È un gesto meno animale. Allo stesso modo mi viene più naturale inanellare una serie di endecasillabi che scrivere in verso libero. Ma non conto le sillabe. La poesia è una musica che tutti abbiamo dentro e che possiamo ritrovare nell’ascolto del silenzio di una solitudine abitata. (c. d. l.)

 

* * *

 

 PIOGGIA

                                                        a Eva

Pur battente non ci scoraggia, la pioggia
né il sipario pesante di nebbia avvolgente
se decise a partire in missione al di fuori
del tempo, nel giorno a un tratto deserto.

Lascio a casa il cappotto nero e l’ombrello
ho la gonna di lana che per bene s’imbeva
d’acqua e dalle frange sulle gambe ripiova.

In volo percorriamo la strada cittadina
che conduce ai luoghi della quotidiana
corsa all’aperto, battuti oggi con furia

dal vento. Nel sottomura erba in preghiera
si china devota in una ola, il cielo in assetto
di guerra sventola a terra la grigia bandiera.

In allarme il verde si espande a ventaglio
di onde piccole all’orizzonte. Lo sguardo
si perde, affonda, risale, ricade, sprofonda

nell’abisso verde, esonda. La banda di alberi
serra le fila, l’uno afferra dell’altro le esili dita,
in coro sussurra in risposta al grido del vento.

Zuppa di pioggia fino alle ossa, corri smaniosa
come un’ossessa in cerca di un guado nell’erba.

Una furia bambina mi prende, ti seguo a nuoto
al largo del prato, fino dove il fango è più alto.

Rido, m’inzuppo e mi sporco, di lato ti guardo,
trovo conforto nelle mandorle aperte sul mondo,
nel lucore d’acqua tersa sul manto, che incendia

il tuo movimento. La corsa del sangue dentro
le vene riscalda, ma quando mi fermo il freddo
s’impossessa del corpo di nuovo e del dentro.

Corriamo più forte, ci arrampichiamo sul muro
imponente, fin sulla terrazza sporgente, confine
tra Ferrara e l’altrove. Saliamo al punto più alto
sull’oltre, mi arcuo a croce distendo le braccia,

alzo al cielo la faccia, m’inebrio d’acqua gelata:
grana di vetro tagliata in gocce di luce la miccia,
come inchiostro che slarga sul foglio la breccia
tra labbra gelate la lingua animale è di pioggia.

(dalla sezione Percorsi in versi)

 

ODE A SUNNY

Criniera di sole al tramonto, e perle
di corniola nel punto che arde forte,
il piccolo naso nel centro è un opale
in pendant con la linguetta, quando
rapido apre la boccuccia al biscotto

e astuto civetta: senza fretta ti avvolge,
ti serpeggia la coda attorno alle gambe
per dirti non contano gli altri: sei suo,
come ogni altra cosa dentro la sua casa.

Con un miagolio modulato, frase per
frase risponde alle domande, convinto
di farti un discorso sensato e puntuale
di parole profonde. Il mantello ricade
in frange sulle zampotte un po’ corte,
ma armoniose quando incede elegante,

goccia sui piedi nelle sue muffole rosa
che vedi soltanto se spancia, ti lancia
il guanto di sfida, invitandoti al gioco,
ma dopo un istante è stanco e si liscia
per ore con cura il manto fiammante,
con maniacale attenzione e invidiabile

ronzante piacere. Sunny, piccolo dandy,
ventosi calzoni alla zuava, se ne va altero
per tutta la casa, ma senza troppo calcare
il passo regale. L’andatura si fa più ilare
e gioviale se tira un calcetto all’indietro,
si gira: “Sono figo, my dear, non è vero?”.

Ma non aspetta risposta, è già in bilico
sulla sbarra più alta. Da là sopra si volta
per invitarmi – cauta vedetta di guardia
sulla finestra – fissa il mondo come fosse
una festa, artigli sul ferro in una morsa,
trema se passa uno stormo, per invidia
avida del folle volo – le corniole schiuse
suggono il cielo – poi si volta di nuovo,
con la testa mi fa una vezzosa mossetta,

oppure, scaltro equilibrista, fa slalom
tra i soprammobili, ninnoli e ciondoli
in pista, senza un errore né una svista.

Ma se dopo accorta preparazione, in salto
da un mobile all’altro, sbaglia mira, perde
la presa, per distrazione banale – succede
anche al migliore – o cospirazione di buie
forze del male, ostili all’impavido intento,
sguscia via con la faccia offesa, non vinto,
ma pronto a un traguardo ancora più alto.

Acquattato in giardino è un giaguaro
se un imprudente si azzarda a varcare
il confine della riserva sua personale.

Rimane immobile in agguato per ore,
fa la posta a tutto quel che si muove.
Nel petto che a stento si alza, il fiato
resta in all’erta, le vibrisse nel vento,
luce feroce dentro lo sguardo, basso
sul ventre, pronto all’inesorabile balzo.

(dalla sezione Casa)

 

LA SPINA

Malia dell’anima che lima
i mali dalle ali,
mia anima animale
mi manchi tra le mani

nella primavera che corro da sola
il mio sguardo oggi orfano del tuo
scivola sul suo abbandono fetale
nella nicchia delle mura medievali
tra il vallone profondo e la lingua
di terra battuta che rapida percorro;

sul braccio contratto in un gancio
mentre l’altro nell’aria sta brandendo
il pugnale affilato che rapido sventra
la distanza, affonda nella carne calda;

sul volto reso orrendo dal dolore
sugli gli occhi stretti dal non vedere

la spina che sbrana la vena
viola il sangue col suo veleno.

Il suo palo si volta di scatto,
mi fissa con disperata ferocia,
mentre già distolgo lo sguardo
riparto e accelero il passo.

Dopo qualche albero in alto
sulla schiena di un uomo si legge

staff ma lui non è
lo staff di nessuno.

Mentre passo si volta e tira
su la cerniera e un sospiro
di sollievo dal piscio liberatorio.

Inforca la bici e se lo riprende
il suo buio.

(Dalla sezione Corale)

 

 
IL LUCERNARIO

Da quando abbiamo lasciato la casa
del camino mi manca la televisione
del focolare, il polifonico frusciare
delle fiamme generate dalla morte

del legno che arde di se stesso
e se stesso alimenta in canto
generando ogni notte l’incerto
del calore che nasce dal niente
di fiato dentro da qualche parte.

Adesso ho per cangiante scenario
sul tetto in mansarda il lucernario,
oblò aperto sul fianco della nave,
sopra coperta, al largo nel cielo,
sospinta da ogni parte dal vento

o battuta dall’acqua d’inverno,
quando la pioggia è un pennello
che del mondo fa un acquerello
sulla tela del vetro in movimento
che cambia forma ogni momento.

Dopo pranzo ho il mio telegiornale
d’ali che sfrecciano e nuvole in gara,
una contro l’altra nell’autoscontro,
canto alto d’uccelli in volo fianco
a fianco ognuno solo e in stormo.

La guest star di un aeroplano
fa capolino ma solo un istante
per lasciare il palco alla danza
di luci e colori con il cambiare
canale di ore, giorni, stagioni.

A volte lo schermo trasmette
azzurro monocorde soltanto
in un disturbo di frequenza
del tempo che sembra fermo
in agguato ai lati della stanza.

Poi si colma di nuovo lo schermo
di nuvole che alternano le forme

mentre mi trovo bambina sul prato
col naso all’insù a inventare profili

litigi, amori e amicizie tra uguali
in morbidi voli e abbracci di nubi

con il respiro del cane sul ventre
che all’unisono si alza e si schianta,

con il ronzio di alveare all’orecchio
del gatto che sul cuscino m’impasta
la spalla finché non mi addormenta.

In prima serata fa irruzione sulla scena
il buio che trasmette se stesso, o vedette
di stelle bucano lo schermo della notte.

A sorpresa in una trasmissione speciale
appare chiara sopra il palco Luna Piena
mite occhio di bue sulla nostra miseria.

(dalla sezione Casa)


Biografia di Chiara De Luca


 

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