WALTER WHITE, Intervista a Giorgio Moio sulle varie problematiche della letteratura


Quanto ritiene utile, se lo ritiene,  per scrittori e per lettori, l’esistenza della critica?

L’esistenza della critica è importante; esplicitare un diverso punto di vista direi sia indispensabile per un’opera d’arte: non deve essere vista come “nemica” dell’autore; è un aiuto a mettere soprattutto i lettori davanti ad un’opera con il suggerimento di alcuni strumenti atti a “comprenderla” meglio (l’opera). Se il sentore è quello di avvertire una critica inesistente, la colpa è della critica “professionistica” che si è troppo “imborghesita”, legata a doppio filo alle major editoriali: da un lato come critici che avallano soprattutto le produzioni del grande editore di turno; dall’altro come autori “privilegiati” delle stesse case editrici.

Lei personalmente che esperienza ha, ha avuto, con i critici?

La mia esperienza con i critici è stata tribolata, in quanto come poeta produco testi non sempre “leggibili” e “digeribili” dalla critica, essendo sperimentali, d’avanguardia, di ricerca. Ma ho sempre accettato la loro autonomia nel criticare. Le dirò di più: in più di un caso la critica mi è servita a migliorarmi.

Cosa ha scritto/letto sotto l’influenza, più o meno diretta, della critica?

Sia come lettore sia come critico (e sì, sono anche un critico, atipico, però, militante, ci tengo a sottolinearlo, cioè non legato a casa editrice né piccole né grandi), la mia formazione proviene dai grandi critici del passato: Contini, Debenedetti, E. Villa, R. Jacobbi, G. C. Ferretti, R. Barilli, A. Guglielmi, G. Manganelli, I. Calvino, Giu. Manacorda, M. Lunetta, per fare qualche nome.

Partendo dal concetto di “canone” in generale,  per arrivare al  particolare di “canone occidentale” (i cui due centri, secondo  Harold Bloom furono William Shakespeare  e Dante Alighieri), sono ancora utili e attuali? o sono soltanto delle definizioni buone per etichettare – dentro/fuori – un testo e/o un autore, e utili a perpetuare in vita un dibattito di nicchia e di élite?  

Direi che oggi l’appiattimento culturale, dovuto ad una crisi di pensiero e di proposte positive, abbia reso il concetto di canone una proposizione ampiamente asfaltata dagli eventi negativi. È palese che in siffatta situazione l’autore sia in balia non tanto di etichette ma del binomio “simpatico-antipatico”. O meglio, il concetto di canone è diventato un concetto personale, di parte, il che se un autore non rientra nei canoni dettati dall’industria culturale, è destinato ad essere argomento di dibattiti (quando ciò avviene ) di élite, cioè di nicchia. Il problema semmai è che non ci sono più referenti precisi, in grado di cambiamenti epocali: è questo è il dramma! Non tanto l’appartenere all’éite o a un’appartenenza di nicchia. Ritornando all’utilità della critica, è proprio in questi contesti “fuorviati” dal potere culturale, che si annidano i migliori critici, come i miglior poeti (per lo scrittore è un discorso diverso, in quanto per la natura della narrativa, che è sempre stata avvezza alla visibilità esso è portato a incorporarsi con la centralità del potere editoriale): senza i compromessi imposti dall’editore, l’unico compromesso ammesso è quello con lo scritto che si ha davanti, rendendolo al meglio fruibile per il lettore.

Un canone per esser tale dovrebbe mantenersi duro, puro, immutabile, arroccato, studiato e difeso o plasmarsi, almeno in parte, ai cambiamenti culturali, sociali, economici?

Per rispondere ancora sul canone, rispondo cifrando un po’ l’ultima parte della risposta precedente: dovrebbe mantenersi duro ma non puro, plasmabile ma non immutabile, eteronimo, fregandosene dei cambiamenti non già culturali, ma sociali ed economici. L’unico canone cui dovrebbe accettare un critico è quello di considerare tutti i testi uno diverso dall’altro. Ma siccome il critico, specie quello di professione, è portato a ritagliarsi un proprio canone personalizzato, dove tutto debba passare per quella cruna, viene inficiata l’autonomia del criticare, importante sia per il critico stesso sia per l’autore di turno.

I critici contemporanei sono privi degli spazi nei quali esercitare, sono degli incompresi, sono arresi, o non sono in grado per mancanza di coraggio, d’iniziativa, di conquistarsi il ruolo che rivendicano o, ancora, non hanno nessuna intenzione di provare a modificare nulla?

La mancanza di coraggio non manca (personalmente io ho tanto coraggio quando vesto i panni del critico); casomai mancano gli spazi nei quali esercitare – mi riferisco ai critici contemporanei “liberi” ‒, e mi creda, hanno una grande voglia di provare a modificare l’establishment culturale esistente, contrariamente alla critica legata al potere, assoggettata, la quale, invece, tende a mantenere il privilegio di appartenere al potere, accettando condizioni e direttive spesso contrarie alla loro visione di critica. Diciamocelo una buona volta: la Letteratura (con la L maiuscola) abita tra i piccoli editori, tra autori e critici autonomi, spesso poco conosciuti, per via di quella mancanza di spazio e di possibilità, di cui all’inizio della domanda.

Infine: la critica è moribonda o già morta?

La critica ha qualche ferita infetta ma non è morta. Però la sua vitalità e proposizione maggiore le troviamo in quella sfera di élite o di nicchia, perché non è sottoposta a “ricatti” né a compromessi, tranne quelli con il testo stesso. Più largamente nella critica militante e autonoma.

Vogliamo provare a rianimarla o no?

Se si riferisce a quella “di mestiere”, “professionista”, credo ci sia poco da rianimare se si sottopone quotidianamente ai ricatti delle grandi case editrici, limitandosi in pratica al quasi dettato per avallare il volume pubblicato, meno il suo valore. Contrariamente, quella non-allineata non ha bisogno di rianimazione: vive di se stessa e in funzione ad un’analisi imparziale.

La critica è assopita in attesa di nuovi interpreti/critici, o ha esaurito la sua funzione di studio e di indirizzo non avendo più nulla di valido da “criticare”?

Ritorniamo alla divisione tra critica militante ed autonoma, e critica assoggettata. Qualche critico di vecchio stampo pur tenta di resistere alle trombe del “successo” perpetuo, ma è guardando in basso che ci imbattiamo in critici che hanno ancora qualcosa di valido da criticare: A. Granese, S. Lanuzza, F. Muzzioli, G. Patrizi, S. Verdino, G. Alvino, G. Ferroni, etc. Non ho mai digerito scrittori o poeti che evitano un critico. Uno scrittore senza una critica è scrittore per auto-investimento, cioè nulla! Anzi, la sua arroganza è tale che si auto-convince di aver scritto un capolavoro che può far a meno di una critica. Insomma, un autore deve lasciarsi guidare dal giudizio del critico, che non deve essere considerato il “nemico” dello scrittore o del poeta di turno, ma considerato come un lettore che non si ferma alle apparenze ma approfondisce il testo perché conosce il metodo e gli strumenti per leggere tra le righe,  per meglio qualificarlo o anche per sconfessarlo.

Nel continuo e inevitabile confronto tra la letteratura italiana e quella straniera, si legge spesso che quella italiana è una letteratura che consciamente o inconsciamente tende a imitare, non ha il coraggio e la forza di imporsi come proprio valido e riconosciuto modello,  quanto è d’accordo con questo?

Questa è una questione vecchia, non ancora risolta. Non è che la letteratura italiana abbia la tendenza (inconscia o conscia) ad imitare. Piuttosto non ha il coraggio e la forza di imporre la propria autonomia e la propria potenza nei confronti di una società economicamente deviata che non si pone minimamente di sostituirla con il mondo scientifico, dimenticando che senza cultura, cioè senza letteratura, il mondo economico e scientifico non esisterebbe. Questa autonomia è già da anni conquistata dalla letteratura straniera, al punto di imporre le proprie peculiarità all’editoria e no viceversa come avviene oggi in Italia.

Quanto influisce la differenza tra le lingue, specialmente tra quella inglese e quella italiana, sulla valenza “letteraria” di un testo?

È la stessa delicata situazione della traduzione di un testo. Chi ha più valenza, un testo italiano tradotto in inglese o viceversa? In entrambi i casi la valenza del testo assume, per logica, i canoni di un tradimento. Tuttavia, non possiamo ignorare che tra l’inglese e l’italiano vi è un’enorme differenza dovuta al ritmo, al suono, alla grammatica che non prevede il genitivo sassone inglese, per es.

La letteratura ha ancora un suo ruolo come motore di stimolo e strumento formativo di una collettività sociale?

Direi proprio di sì. L’ho detto prima: non esisterebbe il mondo economico e scientifico senza la letteratura, quindi indispensabile ad una collettività sociale. Altrimenti non ci sarebbe evoluzione.

Scrivere oggi, con tutte le nuove possibilità: siti, blog, pagine facebook, riviste, che senso ha e che senso dovrebbe avere?

Scrivere oggi s’incontrano gli stessi problemi di sempre: realizzare un’idea, scrivere bene e proporre testi degni di essere letti. In tutto questo è ovvio che oggi i social ci hanno dato una grossa mano. Ma attenti, il terreno è pericoloso se si va al di là dell’intento di diffondere più facilmente i propri scritti senza passare per i ricatti economici delle case editrici o del circolo chiuso delle riviste e dei giornali. Non essendoci contraddittorio, chiunque può scrivere quel che vuole investendosi scrittore o poeta. Insomma, bisogna stare attenti a cosa vogliamo imbatterci sui social, evitando la troppa leggerezza e confusione di proposte spazzatura.

Il romanzo, che la fa da padrone in letteratura, è morto?

Non lo so. Non sono un romanziere: a stento riesco a fare il poeta e qualche volta il critico. Ma da lettore le dico che il romanzo ha molti problemi di farsi comprendere, in quanto è ancora molto legato a canoni e stereotipi del passato, con un linguaggio che spesso gira attorno a se stesso e imprigionato dalla facile fruizione dovuta al suo appartenere a mode presenti nella vita comune sociale. Un romanzo dovrebbe rompere i canoni stereotipati anziché farne parte, spesso per raggiungere notorietà senza colpo ferire o accaparrarsi un grosso premio, tutte frivolezze a discapito di un’idea letteraria innovativa.

È sottoposto ad accanimento terapeutico?

L’accanimento terapeutico se lo ha creato da solo se rincorre mode e sviluppi pacifici tanto cari alle grosse case editrici, che arrivano persino a ricattare lo scrittore imponendo scelte e tematiche del romanzo da pubblicare.

In che modo la nostra vita peggiorerebbe senza il romanzo (sia come scrittori sia come lettori)?

Peggiore di come la stiamo vivendo oggi, credo sia difficile. Detto questo, la nostra vita peggiorerebbe non soltanto per mancanza di romanzi, ma anche per mancanza di poesia: entrambi sono nutrimenti della mente di cui non possiamo farne a meno, e veicoli per allargare i nostri orizzonti, le scelte, le programmazioni presenti e future.

L’editoria tradizionale è in crisi, viene sommersa da proposte di pubblicazione, spesso non riesce a far quadrare i conti, sforna libri su libri, lotta con unghie e denti contro la concorrenza diretta ‒ altri editori, e indiretta ‒ altre forme d’arte, d’intrattenimento.  Fino a quando sopravvivrà l’attuale modo di fare/essere editori?

Sarebbe bello e risolto il problema se l’editoria pubblicasse soltanto libri degni di essere pubblicati, visto che oggi si legge poco anche per una cattiva produzione. Sempre più spesso la pubblicazione di un libro funge da pretesto per mantenere i numerosi privilegi – mi riferisco alle grosse case editrici – che provengono da contributi statali, accordi politici e passaggi televisivi. Fino a quando sopravvivrà l’attuale modo di fare, di essere editori? Non saprei. So però che se l’editoria o altre forme d’arte non s’allontanano dall’ingerenza di terzi, quali la politica e la società spettacolo, mettendosi unicamente a disposizione dei testi e del potenziale lettore, scegliendo la qualità e non la quantità, potrà dire addio ben presto alle pubblicazioni cartacee, tradizionali, sostituite da quelle on line (gli e-book) dove almeno si abbasserebbero i costi e si allontanerebbe l’imposizione della grande rete distributiva che è arrivata persino a “consigliare” scelte e strategie all’editore.  

L’editoria inserita in questa nostra realtà ha la volontà e/o la possibilità di esercitare un proprio ruolo in equilibrio tra il commerciale e il sociale?

L’editoria dovrebbe sempre puntare a un equilibrio tra il sociale e il commerciale. Ma non è facile esercitare il proprio ruolo di “portatrice sana di cultura” , non già per questo periodo dove in tutti i settori della vita sociale la cultura è sostituita in gran parte dal dio denaro o, troppo succube al suo richiamo fagocitante e deleterio, ma per insistere su pubblicazioni “rumorose” , per es. di politici, attori, cantanti, cronisti, etc., aumentando semplicemente uno spreco di carta. 

Clima attuale: uno vale uno, l’intermediazione va superata, tutti hanno diritto e possibilità di entrare in prima persona nelle stanze dei bottoni, ergo chiunque può giudicare/criticare tutto sia con cognizione di causa sia con superficialità, sia per passione sia per diletto. Tutti possono essere scrittori, tutti possono essere editori, editor, critici, giornalisti… magari di sé stessi. Chi ha ancora voglia di essere solo lettore?

Il problema della letteratura italiana (ecco, rispetto a quella straniera che è molto selettiva) è che non c’è una selezione degli scrittori. È ovvio che non tutti possono essere scrittori, come non tutti possono essere poeti o pittori, cantanti o attori. Però con internet, i social, tutti possono diventarlo; il problema. semmai, è dovuto alla qualità che nella stragrande maggioranza dei casi è una spazzatura. Non ne parliamo poi di come sia facile oggi essere editori, visto che oggi, anche le grandi case editrici pubblicano praticamente con i soldi degli editori, sotto forma ambigua e perfida dell’acquisto di un certo numero di copie che, in realtà, vanno a coprire tutte le spese indispensabili per una pubblicazione. Ma un editore non è un imprenditore? E le imprese si portano a termine con i soldi degli altri? Ecco come tutti posso diventare editori, magari non hanno letto neanche un libro in vita loro, più o meno.

Quanto valore aggiunto da e quanto invece deteriora il mescolìo tra scrittori, critici, editori, lettori?

Intanto bisogna dire che gli uni non possono fare a meno degli: tutti, scrittori, critici, editori e lettori hanno il compito, ognuno per il suo, di divulgare una cultura indipendente e in grado di reggersi da sola in un villaggio globale dove – appunto – comanda il denaro. L’editoria, quella seria e propositiva, ha sempre avuto un ruolo primario nella diffusione della cultura, nonostante ancora oggi risentiamo delle batoste provenienti dal qualunquismo e postmoderno arrogante e passivo degli anni ’80, del ritorno agli “ismi” e riflusso di canoni troppo legati alla tradizione e ad uno scollegamento con l’andamento della vita sociale. Questo deterioramento si è concretizzato anche all’indomani della decisione degli editori di abolire la “terza pagina” dai giornali dove quasi sempre scrivevano i più importanti e preparati scrittori del nostro panorama letterario. Insomma, credo non sia semplice, con tutte le devianze, la confusione dei ruoli ed il loro appiattimento, che produce la società spettacolo. Se ancora abbiamo voglia di leggere delle interessanti pagine di cultura, dobbiamo abbandonare la grande editoria e guardare in casa della media e piccola editoria se dopo una lettura vogliamo evitare il voltastomaco.


Biografia di Walter White


 

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