MICHELE NIGRO, 1978 – 2018: comunicato n.7

Non desidero altri padri

che non siano i miei ricordi

 

«È passato più di un mese dalla cattura di Aldo Moro, un mese nel quale Aldo Moro è stato processato così come è sotto processo tutta la DC e i suoi complici; Aldo Moro è stato condannato così come è stata condannata la classe politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese, con le infamie, con il servilismo alle centrali imperialiste, con la ferocia antiproletaria. La condanna di Aldo Moro verrà eseguita così come il Movimento Rivoluzionario s’incaricherà di eseguire quella storica e definitiva contro questo immondo partito e la borghesia che rappresenta…». 

20 aprile 1978. Mentre le Brigate Rosse consegnavano in una busta arancione, nei pressi de “Il Messaggero” di Roma, il comunicato n.7, il più drammatico e surreale, mio padre moriva in una clinica di Villejuif, in Francia. A ucciderlo non erano state le Brigate Rosse ma un cancro allo stomaco. La condanna non fu emessa da un tribunale del popolo ma da un’equipe medica francese che in un altro tipo di comunicato, meno ideologico e più scientifico, sentenziò: «… carcinome gastrique avec métastases ganglionnaires…».

Mio padre faceva di mestiere il poliziotto ma non morì durante un agguato terroristico delle BR, come quello di via Fani del 16 marzo o di qualche altra strada sconosciuta d’Italia, resa famigerata in seguito a uno dei numerosi attentati che durante quel periodo nero della storia repubblicana insanguinavano quasi quotidianamente la penisola; a portarselo via in maniera altrettanto cruenta, ma senza gli onori della cronaca e nel rispettoso silenzio di un nosocomio, furono le complicazioni post-operatorie dell’ennesimo tentativo di asportare chirurgicamente – con ferocia antitumorale – la parte intaccata dell’organo colpito dal carcinoma. A quell’epoca, parliamo – come avrete capito – degli anni ’70, dopo aver giocato la carta della “medicina locale”, molti tentavano i cosiddetti “viaggi della speranza”: si preparava una valigia e si andava a morire all’estero – spinti, forse, anche da una certa dose di esterofilia tipica di noi italiani – dove tutto funziona meglio, si diceva, dove sono più bravi; lì dove, in base a una tradizione orale trasmessa dagli stessi addetti alla sanità del nostro paese, operavano medici e chirurghi più aggiornati ed esperti di quelli nostrani. Oggi non è più così: anche in Italia abbiamo strutture all’avanguardia e operano luminari che non hanno nulla da invidiare a quelli di altre nazioni. E si può morire tranquillamente in patria.

Anche in questa storia privata compare il cognome Ricci, quello di mia madre: Domenico Ricci, infatti, era uno dei due carabinieri caduti in via Fani.

«… Detto questo occorre fare chiarezza su alcuni punti».

1 – In questo mese abbiamo avuto modo di vedere una volta di più la DC e il suo vero volto. È quello cinico e orrendo dell’ottusa violenza controrivoluzionaria. Ma abbiamo visto anche fino a che punto arriva la sua viltà. Ancora una volta la DC, come ha fatto per trent’anni, ha cercato di scaricare le proprie responsabilità, di confondere con l’aiuto dei suoi complici la realtà di uno Stato Imperialista che si appresta ad annientare il movimento rivoluzionario, che si appresta al genocidio politico e fisico delle avanguardie comuniste. In Italia, come d’altronde nel resto dell’Europa “democratica” esistono dei condannati a morte: sono i militanti combattenti comunisti. Le leggi speciali, i tribunali speciali, i campi di concentramento sono la mostruosa macchina che dovrebbe stritolare nei suoi meccanismi chi combatte per il comunismo. Gli specialisti della tortura, dell’annientamento politico, psicologico e fisico, ci hanno spiegato sulle pagine dei giornali nei minimi dettagli (l’hanno detto, mentendo con la consueta spudoratezza, a proposito del “trattamento” subito da Aldo Moro, che invece è stato trattato scrupolosamente come un prigioniero politico e con i diritti che tale qualifica gli conferisce; niente di più ma anche niente di meno), quali effetti devastanti e inumani producano lo snaturare l’identità politica dell’individuo, l’isolamento prolungato, le raffinate ed incruente sevizie psicologiche, i sadici pestaggi ai quali sono sottoposti i prigionieri comunisti. E dovrebbe esserlo per secoli, tanti quanti ne distribuiscono con abbondanza i tribunali speciali. E quando questo non basta c’è sempre un medico compiacente, un sadico carceriere che si possono incaricare di saldare la partita.

Questo è il genocidio politico che da tempo e per i prossimi anni la DC e i suoi complici si apprestano a perpetrare. Noi sapremo lottare e combattere perché tutto ciò finisca, e non rivolgiamo nessun appello che non sia quello del Movimento Rivoluzionario di combattere per la distruzione di questo Stato, per la distruzione dei campi di concentramento, per la libertà di tutti i comunisti imprigionati.

L’appello “umanitario” lo lancia invece la DC. E qui siamo nella più grottesca spudoratezza. A quale “umanità” si possono mai appellare i vari Andreotti, Fanfani, Leone, Cossiga, Piccoli, Rumor e compari?…”

Per mio padre, rivoluzionario fu arruolarsi in Polizia per sfuggire, come per altri colleghi provenienti dalle regioni meridionali, a un destino rurale inesorabile o alle orme paterne già fin troppo conosciute.

«Addio amata Lucania!», disse con piglio elfico-manzoniano, forse; non lo saprò mai. «Ti lascio la boscosa eredità di mio padre, commerciante di legnami, e me ne vado in città per indossare la divisa da poliziotto che significa ordine, pane sicuro, miglioramento sociale e figliole da conquistare… Sarò un ragazzo della via Gluck con il tonfa!».

Scegliere una strada inedita e rispettabile oppure lasciarsi annientare da un’esistenza anonima e semplice in una terra da sempre luogo di confino, prima politico e in seguito – nonostante il boom – sociale ed economico? Non sentirsi avanguardia, non militante ma servitore, non prigioniero ma uomo libero, non condannato ma graziato dalle opportunità; non campi di concentramento ma campi di grano puntellati di papaveri rossi; non torturato annientato ma nutrito dal ricordo della sua terra semplice; non identità snaturata ma uomo completo; non isolato ma in comunione con la natura, non seviziato ma coccolato dalla penombra dei boschi, non disumano ma giusto…

Scegliere lo Stato Imperialista, diventare uno dei suoi devoti difensori, “Sub Lege Libertas”: spiega il motto del Corpo che vi è libertà solo nel rispetto della legge, mentre tutto intorno è disordine, illegalità, prigionia dietro le sbarre di false ideologie farneticanti; scegliere San Michele Arcangelo, le scuole di polizia di Alessandria e Nettuno, le foto in bianco e nero con i sorridenti compagni di corso durante la pausa mensa, e i ritorni a casa, giù, in Basilicata, con il vestito buono, in borghese e con gli occhiali da sole Persol appena comprati, per far vedere in paese di avercela fatta, di aver fatto la differenza, di aver svoltato, di venire dalla città, di essere solo un ospite di passaggio, ora, anche se la voglia di scendere in Lucania c’era sempre ed era matta. Mettere da parte la divisa per qualche giorno e ritornare a sentire l’odore delle tavole di legno appena tagliate, messe a stagionare al vento e al sole nel deposito all’aperto, dietro la casa paterna in via Appia, era un’esigenza periodica a cui non si poteva sfuggire («… andare e venire / tra il vuoto e la città / come in un pendolo esistenziale / oscillare…»); deposito di legname che per noi, figli arrivati in seguito, sarebbe diventato “il giardino”: luogo, nascosto e dimenticato, di battaglie con pietre tra cugini, micro-guerre di soldatini nella terra, e di ruvidi scivoli legnosi su cui strusciare i nostri giovani culetti e distruggere, finalmente, i panni dismessi da madri pazienti e sacrificati per l’occasione sull’altare di un’ennesima estate spensierata.

E con semplicità, forse anche per necessità, mio padre scelse.

«… Ma ora è arrivato il tempo in cui la DC non può più scaricare le proprie responsabilità politiche, può scegliersi i complici che vuole, ma sotto processo prima di tutto c’è questo immondo partito, questa lurida organizzazione del potere dello Stato. Per quanto riguarda Aldo Moro ripetiamo – la DC può far finta di non capire ma non riuscirà a cambiare le cose – che è un prigioniero politico condannato a morte perché responsabile in massimo grado di trent’anni di potere democristiano di gestione dello Stato e di tutto quello che ha significato per i proletari. Il problema al quale la DC deve rispondere è politico e non di umanità; umanità che non possiede e che non può costituire la facciata dietro la quale nascondersi, e che, reclamata dai suoi boss, suona come un insulto.

Nei campi di concentramento dello Stato imperialista ci sono centinaia di prigionieri comunisti, condannati alla “morte lenta” di secoli di prigionia. Noi lottiamo per la libertà del proletariato, e parte essenziale del nostro programma politico è la libertà per tutti i prigionieri comunisti.

Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della LIBERAZIONE DI PRIGIONIERI COMUNISTI.

La DC dia una risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre possibili.

La DC e il suo governo hanno 48 ore di tempo per farlo a partire dalle ore 15 del 20 aprile; trascorso questo tempo ed in caso di un’ennesima viltà della DC noi risponderemo solo al proletariato ed al Movimento Rivoluzionario, assumendoci la responsabilità dell’esecuzione della sentenza emessa dal Tribunale del Popolo…».

Che cosa significa proletariato? Leggo: «Termine (dal latino proletarius) riferito, in base alla riforma di Servio Tullio (6° sec. a.C.) che divideva la popolazione di Roma in classi, a quella inferiore. I proletari erano i cittadini in condizioni di povertà tali da non possedere altro che i propri figli (proles). Nullatenenti e privi di capacità…». In passato i figli, quasi sempre numerosi, rappresentavano una vera e propria ricchezza, si vendevano “a chili”, in alcuni casi si barattavano o si prestavano a chi ne aveva avuti di meno o nessuno: erano un investimento sul futuro, un capitale di carne da tenere a disposizione per i tempi difficili della vecchiaia o in caso di morti premature che ne dimezzavano la portata; erano, con un termine oggi adoperato per indicare un’altra categoria di persone non appartenenti alla nostra comunità nazionale ma che potrebbero rivelarsi utili e preziose nella felice eventualità di una riuscita integrazione, delle risorse umane.

Nel giro di un paio di generazioni, non solo si è dimezzato il numero dei figli, ma oggi una coppia può ritenersi fortunata dal punto di vista riproduttivo se ne riesce a concepire almeno uno. E non per mancanza di desiderio sessuale o genitoriale, ma per questioni economiche, sociali e, perché no, anche culturali. I figli non sono più una forma sicura di investimento perché il sistema familiare un tempo aperto, provvisto di numerosi effluenti che tuttavia continuavano a orbitare intorno al bacino genitoriale principale e creavano bene o male un movimento economico autogestito basato proprio sulla forza del numero, si è andato man mano chiudendo, diventando “fiume sotterraneo” incastonato tra le rocce di un sistema socio-economico che non lascia molte possibilità di manovra. Se prima, la quantità elevata di figli permetteva ai genitori addirittura il lusso di poterne “investire” alcuni nella carriera ecclesiastica o militare, e lasciare i restanti, forse perché più predisposti, ai lavori tipici del nucleo familiare e all’assistenza dei genitori una volta raggiunta l’età avanzata, oggi si assiste all’aumentante presenza – quando riescono a formarsi – di famiglie di tipo monadico, indivisibili, autonome e anche un po’ asfittiche. Il sistema economico, all’apparenza aperto, su cui è fondata la famiglia moderna – costituita quasi sempre da genitori lavoratori dipendenti o liberi professionisti e da una prole (si spera!) di futuri lavoratori dipendenti o liberi professionisti, traslando di fatto l’asse genitori-figli dalla quantità alla qualità dell’investimento – non riconosce più al numero la forza autorevole di un tempo. Anzi, aggiungere altro “capitale umano” significa molte volte mandare in default il già fragile micro-sistema economico familiare. Questa famiglia monadica è costantemente connessa tramite i social con altre famiglie monadiche, ma la rete non assicura una vicinanza umana reale e sufficiente, e quindi siamo costretti a “importare” badanti dall’estero (così come s’importano energia elettrica dalla Francia e pezzi di ricambio dalla Cina) per fornire ai nostri genitori diventati vecchi quella presenza operativa che in passato era assicurata dalla famiglia stessa.

La Democrazia Cristiana (più che una cristiana democrazia), l’immondo partito secondo le BR, contrapponeva il proprio modello di “famiglia cristiana” di stampo presepiale, borghese, imperialista (e prima ancora, forse, anche un po’ monarchica: il referendum del ’46 non era poi tanto lontano nel tempo! E sappiamo quanta conveniente intimità ci sia stata, tra monarchia e Chiesa, nel corso della storia), rispettosa del simbolismo pseudo-religioso della croce cristiana e del senso del sacrificio a essa legato (al sacrificio degli altri, però, delle altre classi sociali, stando alle accuse delle BR, come riportato nel comunicato n. 7 qui riproposto a stralci corsivi, interrotti da frammenti di storia personale), al modello familiare di tipo proletario molto meno “fortunato”, non investito dal boom economico dei decenni precedenti, escluso – sempre secondo l’analisi del Movimento Rivoluzionario di cui i brigatisti rappresentavano il braccio armato – dai giochi economici di un potere democristiano di gestione dello Stato durato trent’anni. I comunisti, i perseguitati eredi italiani di quel marxismo-leninismo, istigatore della meravigliosa Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia, che avevano contribuito con il proprio sangue alla liberazione della penisola italica dall’orribile esperienza nazi-fascista, erano stati di fatto esclusi, nonostante la presenza significativa dal punto di vista parlamentare – oggi impensabile! – del grande Partito Comunista Italiano, dalla ricostruzione di un’ideologia economica capace di favorire le classi più deboli. Decisionismi occulti, fortemente voluti da quelle centrali imperialiste nominate nel comunicato delle BR, che travalicavano persino il (che a questo punto dovremmo definire “ingenuo”?) tentativo di Moro e Berlinguer di dare vita a un governo di centro-sinistra, il primo della storia della giovane Repubblica Italiana. Un governo non voluto dai brigatisti e dalla rivoluzione proletaria; un governo non voluto dagli stessi “compagni” di partito di Moro e forse non voluto dai servizi segreti deviati italiani e quelli non deviati statunitensi.

Contrapposizione tra “famiglie”, quella democristiana e quella proletaria, che non poteva essere sanata, evidentemente, dalla generosa distribuzione di pacchi di pasta da parte di Giulio Andreotti alle famiglie indigenti che bussavano alla porta della sua dispensa!

“Proletarier aller Länder, vereinigt euch!” (Proletari di tutti i Paesi, unitevi!): recitava il noto slogan politico contenuto nel Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, scritto nel 1848. Ma di quali proletari potremmo parlare oggi? Si è passati dalla liberazione del proletariato alla liquidazione del proletariato, alla sua graduale, inesorabile diluizione nella classe amorfa dei consumatori. Esisti, sei qualcuno, solo se hai potere d’acquisto e consumi, se contribuisci alla grande festa del capitalismo. L’economia ha fagocitato qualsiasi ideologia.

Ritornando al discorso sulla prole: sono forse scomparsi i figli in qualità di prodotti dei nostri lombi? È forse scomparsa la capacità riproduttiva della specie umana? O forse la fertilità e la natalità sono diventate un’utopia come nel romanzo distopico di P. D. James, I figli degli uomini (Children of Men)? No di certo. A essere stata annullata, “asfaltata”, disintegrata, appiattita, messa a tacere, senza che ce ne accorgessimo – tra una pubblicità e l’altra -, è la cosiddetta coscienza di classe, ovvero la consapevolezza – una consapevolezza non politica, non ideologica ma semplicemente antropologica – di essere ancora la stessa identica carne sfruttata del Secolo Breve.

Dobbiamo dircelo: nonostante l’illusione consumistica, nonostante le creme miracolose e i profumi raffinati, le automobili che ci rendono “liberi” (sì, liberi di restare imbottigliati nel traffico, ma con più comfort!), gli smartphone intelligenti, le carte igieniche che valorizzano l’ano, nonostante tutto questo e molto altro ancora, siamo la medesima chair à canon del XIX e XX secolo, figlia illegittima della Rivoluzione Industriale. E questa cosa, saperla, potrà sembrarvi strano, mi conforta!

Da un simile appiattimento ideologico, da questo stato di inconsapevolezza della propria appartenenza sociale, poteva mai nascere una classe dirigente di sinistra in grado di intercettare le istanze di una base che, essa stessa, non sa più chi o cosa è? Il risultato è stato il concepimento di una classe dirigente, che il mio pudore non mi permette di definire di sinistra per la seconda volta nell’ambito dello stesso paragrafo,  costituita da radical chic arroganti (più arroganti e leggeri dei rampanti yuppie degli anni ’80!), preoccupati di emulare le prodezze di un irraggiungibile Partito Democratico Americano, di salvare banche, di curare esigenze lobbistiche, di fare spending review e finte riforme del lavoro, restando lontani milioni di chilometri dai bisogni reali di quell’inconsapevole proletariato che avrebbero dovuto rappresentare politicamente. Anche i diritti civili curati da questa sinistra hanno un certo sapore lobbistico.

Cose da far rivoltare nella tomba Moro e Berlinguer!

Se nel comunicato del ’78 si lamenta – parlando addirittura di genocidio politico – una politica trentennale anti-proletaria da parte dei democristiani, oggi sarebbe più onesto parlare di suicidio proletario. O meglio, il proletariato è stato suicidato dall’evoluzione socio-economica e culturale in atto da alcuni decenni. Se negli anni ’70 la situazione sociale e politica aveva posto le basi per la nascita di un solido e organizzato movimento rivoluzionario armato – solido anche dal punto di vista culturale, prim’ancora che militare: i brigatisti non erano certamente degli ignoranti sprovveduti ‒, oggi il non auspicabile ritorno di un simile Movimento Rivoluzionario sarebbe a dir poco impensabile, se non addirittura impossibile. Nonostante, bisogna sottolinearlo, vi siano tutti i presupposti sociali ed economici, più che quelli politici ed ideologici, per un ritorno. Presupposti negativi, s’intende.

Oggi, invece, il partito prevalente è quello della paura; l’ideologia imperante è quella della paura che si prova dinanzi alla precarietà esistenziale: la disperazione non lascia spazio a disquisizioni politologiche ma chiede risposte immediate, pretende soluzioni – da qualcuno definite populiste – che nulla hanno a che fare con un’eventuale ideologia di appartenenza o di provenienza. La diluizione dei contenuti politici e delle classi sociali ha raggiunto un tale livello da non permettere la realizzazione di una contrapposizione netta tra le parti anche se sembrerebbero esserci degli schieramenti, delle aree ben definite di pensiero con relativi confini. Non vi è in atto né una rivoluzione, né una controrivoluzione, perché tutto è deciso da un’entità finanziaria superiore a questi termini obsoleti. Uno scontro ideologico simile a quello degli anni ‘70 – senza per questo giungere a una forma di lotta armata come nel caso del terrorismo rosso – oggi appare come un miraggio nel deserto programmatico di formazioni politiche che, dietro la falsa scenografia di un’originalità difficile da realizzare, finiscono per dover obbedire all’unico potere veramente sovrapartitico: quello economico.

2 – Il comunicato falso del 18 aprile.

«È incominciata con questa lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica, la preparazione del “grande spettacolo” che il regime si appresta a dare, per stravolgere le coscienze, mistificare i fatti, organizzare intorno a sé il consenso. I mass-media possono certo sbandierare, ne hanno i mezzi, ciò che in realtà non esiste; possono cioè montare a loro piacimento un sostegno ed una solidarietà alla DC, che nella coscienza popolare invece è solo avversione, ripugnanza per un partito putrido ed uno Stato che il proletario ha conosciuto in questi trent’anni e nei confronti dei quali, nonostante la mastodontica propaganda del regime, ha già emesso un verdetto che non è possibile modificare.

C’è un altro aspetto di questa macabra messa in scena che tutti si guardano bene dal mettere in luce, ed è il calcolo politico e l’interesse personale dei vari boss DC. Come sempre è accaduto per la DC, i giochi di potere sono un elemento ineliminabile della sua corruzione, del suo modo di gestire lo Stato. Sono un elemento secondario ma molto concreto, e ci illuminano ancora di più di quale “umanità” è pervasa la cosca democristiana. Aldo Moro che rinchiuso nel carcere del popolo ormai ne è fuori, ce li indica senza reticenze, e nel caso che lo riguarda vede come in particolare il suo compare Andreotti cercherà con ogni mezzo di trasformarlo in un “buon affare” (così lo definisce Moro), come ha sempre fatto in tutta la sua carriera e che ha avuto il suo massimo fulgore con le trame iniziate con la strage di piazza Fontana, con l’uso oculato e molto personale dei servizi segreti che vi erano implicati. Andreotti ha già le mani abbondantemente sporche di sangue, e non ci sono dubbi che la sceneggiata recitata dai vari burattini di Stato ha la sua sapiente regia.

La statura morale dei democristiani è nota a tutti, rilevarla può solo renderceli più odiosi, e rafforzare il proposito dei rivoluzionari di distruggere il loro putrido potere. Di tutto dovranno rendere conto e mentre denunciamo, come falso e provocatorio il comunicato del 18 aprile attribuito alla nostra Organizzazione, ne indichiamo gli autori: Andreotti e i suoi complici.

LIBERTÁ PER TUTTI I COMUNISTI IMPRIGIONATI!

CREARE ORGANIZZARE OVUNQUE IL POTERE PROLETARIO ARMATO!

RIUNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE!

20/4/1978

Per il Comunismo

Brigate Rosse».

 

*

 

A che serve la verità? A volte serve solo a sapere qualcosa che non si conosceva, altre volte – la maggior parte delle volte – a conoscere meglio, oggettivamente, ciò che conoscevamo a metà, in maniera approssimativa, per sentito dire, seguendo l’istinto dell’intuito.

«Il tutto è falso / il falso è tutto…», cantava Gaber anni fa, prima di andarsene; inconsapevolmente le BR, pur essendo marxisti, – parlando di grande spettacolo in questo loro comunicato – tirano in ballo il filosofo francese Guy Debord che nel 1967 scriveva di una società dello spettacolo in cui tutti siamo immersi, compresi i brigatisti e le loro drammatiche decisioni. L’agguato di via Fani e le immagini di quei minuti sanguinosi impressi per sempre nella storia televisiva e congelati nell’immaginario collettivo degli italiani, i comunicati delle Brigate Rosse che scandirono i successivi 55 giorni, le telefonate fatte dai brigatisti ai parenti di Moro sapendo di essere registrati, le lettere “private” di Moro diffuse dalle BR a mezzo stampa perché al proletariato niente deve essere tenuto nascosto, le sedute spiritiche di Prodi e i “giochetti” con l’acqua per far scoprire covi, la “fermezza” dello Stato e il corpo di Moro ritrovato in via Caetani con la sabbia di mare nei pantaloni: tutto questo, e molto altro ancora, fa parte già di un grande spettacolo, senza la specifica collaborazione della DC.

Fu tutto un “comunicarsi addosso” tra i protagonisti, per far sapere al mondo intero quali fossero le posizioni delle parti: in realtà tutto lo spettacolo coprì drammaticamente un meccanismo ancor’oggi non del tutto compreso, nonostante le senza alcun dubbio illuminanti “commissioni Moro”.

In una scena del film Thirteen Days, sulla “crisi dei missili di Cuba”, il Segretario della Difesa americano Robert McNamara spiega con una certa veemenza a un alto ufficiale della Marina statunitense che l’incontro tra le navi americane e quelle sovietiche al largo di Cuba – durante il blocco navale – deve essere interpretato come una nuova forma di dialogo indiretto tra il Presidente americano Kennedy e il Segretario del PCUS Kruscev.

La mattina del 16 marzo 1978, in via Fani, si “coagulò”, in pochi istanti e dinanzi agli occhi del mondo, la dialettica della Guerra Fredda; anche se l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America erano lontanissimi da quel quartiere di Roma, quella mattina i due blocchi entrarono in corto circuito proprio lì! Anche se i presupposti furono molto più complessi e gli schemi eterogenei, anche se non tutto è riassumibile nella banale contrapposizione tra bianco e nero ma una complicata scala di grigi caratterizzò l’intera vicenda, il massacro di via Fani rappresentò la materializzazione concreta, visibile, “calda”, di una guerra non dichiarata che sembrava lontana ed estranea agli scenari italiani. La mattina del 16 marzo 1978, in via Fani, i due blocchi “dialogarono” direttamente! Avevano già “dialogato” in altre occasioni drammatiche, e non solo in Italia, ma in quell’agguato, e nei giorni successivi, l’importanza politica degli interlocutori traslò inevitabilmente i contenuti del dialogo su altri livelli.

L’arroganza dei democristiani descritta nei comunicati delle BR ricorda la stessa arrogante sicurezza del protagonista del film di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, con la sola differenza che mentre nel film il sistema “sfida se stesso” cercando di alterare la visione collettivamente accettata dell’incorruttibilità di un rappresentante della legge, e quindi appurare la propria in-so-spet-ta-bi-li-tà, nei confronti della realtà politica italiana degli anni ‘70 le forze eversive in campo non si fanno pregare e… denunciano, sui giornali, tramite i comunicati, quello che secondo loro è il reale volto del potere democristiano. Nel film, il dottore (Gian Maria Volonté) dice all’anarchico Pace: «Visto che per te è tutto così chiaro, denunciami!». E risponde Pace: «Ti piacerebbe… Qui ci sei e qui ci rimani, un criminale a dirigere la repressione è perfetto!». Che poi è ciò che realmente affermavano anche i brigatisti.

Il secondo punto del comunicato n.7, e non solo quello, sembra essere scritto da teorici della comunicazione del calibro di Noam Chomsky: … specialisti della guerra psicologica…, mistificare i fatti…, … organizzare il consenso…, … montare un sostegno…, … propaganda del regime… Frasi a effetto che avrebbero dovuto svelare gli oscuri strumenti di un potere trentennale, aizzando il popolo alla rivoluzione armata organizzata. Ma così non fu! Non che non avessero ragione nell’utilizzare tali espressioni: conosciamo piuttosto bene le caratteristiche comunicative e propagandistiche di tutti i poteri, nessuno escluso, durante tutte le epoche storiche. D’altronde gli stessi comunicati delle BR sono un esempio di comunicazione propagandistica atta a scardinare le tesi dell’avversario, a favore della propria lotta. Ecco perché tutto diviene spettacolo, propaganda, mostra di sé, per modificare lo storytelling (come dicono quelli bravi!), per convincere le masse, per sostituire la realtà con una più vicina alla nostra presunta verità.

E poi ci sono i corpi: quelli non mentono mai; non possono mentire. Come scrissi in una mia poesia anni fa: «… disarmato e privo di strutture / conquistate negli anni del credersi eterni, / si ritorna innocenti agli albori / della propria storia nata finita…».

C’è il corpo di Moro in via Caetani, o come scandì il brigatista al telefono mentre comunicava dove trovare il cadavere dello statista: «Ca-e-ta-ni!». Affinché non si mancasse l’appuntamento con l’ultima puntata dello spettacolo.

E c’è il corpo di mio padre proveniente dalla Francia con un volo aereo Parigi – Napoli Capodichino; anche ai funerali di mio padre c’era il picchetto d’onore della Polizia di Stato, pur non essendo un caduto, il tricolore e il suo berretto sulla bara portata a spalla da altrettanti colleghi in divisa. Una bella immagine, una coreografia da film.

Mentre svolgevamo i funerali di mio padre nella Chiesa S. Maria della Speranza di Battipaglia, Aldo Moro era ancora prigioniero delle Brigate Rosse. Mentre tutta l’Italia seguiva con il fiato sospeso gli sviluppi di quello che in seguito sarebbe stato definito “caso Moro”, in una cittadina della provincia di Salerno un anonimo poliziotto riceveva l’ultima benedizione come previsto dal rito cattolico, prima di raggiungere il cimitero.

Che cos’era la verità per mio padre? Forse era una verità semplice, non articolata ma schietta, genuina: il valore delle proprie origini, la famiglia, il dovere… In realtà non ho avuto modo di conoscerlo a causa della mia giovane età quando è venuto a mancare, ma dai racconti fatti da chi gli è stato vicino ho capito che era gioioso, ironico, ma anche intransigente, tenace, ombroso. Come il suo cancro.

I corpi morti sono veri: non fanno filosofia, non attendono la fine di commissioni, non sono “corpi politici”, non ascoltano discorsi commemorativi, non seguono inaugurazioni di lapidi; queste sono cose che interessano chi resta in vita sulla terra, a combattere tra ideologie e mezze rivelazioni. Cantano i Baustelle nel brano Monumentale«… tra le urne amiche del monumentale, di realtà e d’irreale, vieni a fartene un’idea».

C’è un’involontaria saggezza in un passaggio del comunicato, quando i brigatisti affermano: «Aldo Moro […] ormai ne è fuori…». Non è bello dirlo, ma c’è come una sorta di senso di liberazione in questa frase, in quel caso riferita all’essere fuori da parte di Moro dai giochi di potere e dai calcoli politici, in quanto prigioniero e condannato. Però chi muore effettivamente è fuori dalle dinamiche umane e raggiunge, nell’eventualità di un aldilà non per forza religiosamente inteso, un livello superiore di verità, di energia, lì dove non c’è bisogno di fare nomi, di condannare, dove non c’è malattia o sangue che scorre, dove non si cerca la giustizia perché tutto è già meravigliosamente giusto.   

(nel 40° anniversario della morte di Nigro Ermanno, appuntato di P.S. – Commissariato di Pompei-Na, 20/4/1978 – 20/4/2018)


 

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