MARCO MELILLO, Tato Laviera, un americano senza bandiera

SAGGISTICA


Senso di alienazione, “né da qui né da lì”, “nideaquinedeallá”, “neither from here nor from there”: Tato Laviera ha espresso la condizione di chi, da emigrato, nel suo caso da Portorico agli Stati Uniti, si trovi oramai “straniero” nel proprio Paese d’origine come in quello “adottivo”.

Ma perché tale sensazione attraversò così spesso l’esistenza e la Poesia di un uomo che, in definitiva, aveva svolto il più dei propri studi a New York e che lì ha vissuto e lavorato?

La domanda è molto pertinente se leggiamo i suoi scritti ed a maggior ragione se proviamo ad immaginare quali tristi vicende accompagnino anche e soprattutto oggi il cammino dell’integrazione culturale. L’impressione è che grazie a certo sciacallaggio politico ci siamo abituati a pensare che il modello dell’assimilazione che, tutto sommato, svuota di contenuti e di ricchezza una pluralità di radici culturali (col suo seguito di immagini), sia l’unico possibile e che chi decida ‒ per qualsiasi motivo e quindi anche indipendentemente dalla voglia di lasciare il Paese di nascita ‒ di emigrare, debba ingoiare il frutto (marcio) di una omologazione identitaria che, in definitiva, non fa altro che nuocere in maniera parassitaria, permeando (in molti ma non in tutti i casi) quelle che chiamiamo radici culturali.

A tal riguardo potrei anche esprimere la seguente consapevolezza, da mediatore culturale (anche se non faccio questo lavoro da tanto tempo), e cioè che non possiamo nascondere le difficoltà legate alle differenze nei modi di vivere delle diverse comunità che, peraltro, una volta all’interno di un paese terzo, si comportano in modi totalmente diversi tra loro, dal punto di vista della permeabilità rispetto a valori ed abitudini dei paesi “adottivi”, portando quindi bisogni “nuovi” che tardiamo ‒ nel migliore dei casi ‒ ad identificare, appunto.

Tato Laviera ha usato il bilinguismo fondendo parole e identità proprio per enfatizzare tale condizione di “spaesamento”. “Spanglish” la nuova lingua, “Amerìcan” (come si intitola il suo testo più famoso che troverete qui: https://youtu.be/vhUA7clXmT8) la “fusione identitaria” scaturita da queste esperienze (curiosità: il movimento letterario creato da autori di origine portoricana ma legati al tessuto sociale di New York è chiamato “Nuyorican”).

Un ricco miscuglio dunque di contaminazioni preziosissime per provare a carpirne le pulsioni più profonde. Parliamo di lingua, di umanità non a caso.

«We who integrate / urban America / simmering in each other’s / slangs indigenous / nativizing our tongues’ / cruising accents / who are you, English, / telling me, ‘Speak only English / or die?» (da Mixturao and other poems, Arte Público press, 2008).

«Noi che ci integriamo/ all’America urbana/ covando in ognuno / gli autoctoni slang / arricchendo le lingue / solcando gli accenti / chi sei tu, Inglese,  / per dirmi, “parla soltanto l’inglese / o muori?”».

Nota a mio avviso non trascurabile: nei suoi versi non sembra abbia mai espresso nostalgia della terra natia. Non che al contrario farlo sarebbe da considerare un male, ma in definitiva tale caratteristica contribuisce a mio avviso ad esprimere una volontà netta di appartenenza, una volontà di integrazione.

Si tratta di un “noi” che plausibilmente accetta di essere un Noi proprio in funzione del dovuto scambio, nel rispetto, certo, di norme che non dettino altro che una civile convivenza. È un ragionamento che naturalmente si trova agli antipodi del cosiddetto sovranismo e che anzi, ne rigetta ogni fondamento di tipo razionale. Mi direte che anche questa è una forma di estremizzazione: in realtà ciò che cova di apodittico dentro le parole è una passione smisurata per la comunità umana e per la Poesia. Mi scuserete allora se penso da sempre ad un mondo senza frontiere.

Curioso anche che il suo nome originario dovette subire qualche “aggiustamento”. Si chiamava infatti “Jesús”. Quando si trasferì a 9 anni con la famiglia da Portorico a New York ed introdotto in una scuola cattolica, furono le stesse insegnanti a suggerire di farlo chiamare “Abraham” e non “Jesús” perché pare che il nome “Jesús” poco si addicesse ad un bambino ‒ figlio di emigrati “latinos” ‒ che allora non capiva l’inglese. Si fece poi chiamare “Tato” come oggi lo conosciamo, un soprannome affibiatogli da suo fratello: la pubblica identità di uno dei più importanti poeti ispanici vissuti negli Stati Uniti a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo.

Ma non fu “soltanto” un poeta (il che equivale anche all’impossibilità di scindere l’uomo dallo scrittore). Era volontario di “University of the Street” (letteralmente, “università della strada”): una organizzazione no profit nata nel Bronx di New York per supportare ‒ indipendentemente dal luogo di nascita ‒ giovani talenti ed artisti emergenti nella crescita educativa con lo scopo di fargli seguire le proprie vocazioni.

Infine è proprio così, come scrisse nel testo richiamato: «chi sei tu per dirmi parla solo inglese o muori?».


Biografia di Marco Melillo


 

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