LUCA SUCCHIARELLI, Prove aperte di Marco Palladini

Molto del teatro – «tutti “i teatri” (rigorosamente al plurale)» – nostrano e straniero che dal 1981 al 2015 ha lasciato traccia nel sostrato e nello strato culturali dell’Italia è stato captato e catturato da Marco Palladini. Poeta, performer, critico letterario e teatrale, sensibilità percettibilmente (e tangibilmente) vicina – in particolare – agli sperimentalismi rimossi e a quelli ctoni (o underground se dir si vuole), egli ha visto, quindi ripropone le sue visioni concrete e mnemoniche in Prove aperte. Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato (1981-2015). L’opera, in due volumi pubblicati da Fermenti con il contributo della Fondazione Marino Piazzolla (rispettivamente nell’ottobre del 2015 e nel gennaio del 2017; pp. 241 e 322, a 20 euro ciascuno), rappresenta un ulteriore momento ideale e fondamentale dell’azione avviata nel 2009 con I teatronauti del chaos. La scena sperimentale e postmoderna in Italia (1976-2008), anch’esso dato alle stampe dal summenzionato editore. Siffatta operazione (ancor più nella fase attuale: il titolo – Prove aperte – lo suggerisce) invita alla rilettura con frattura delle cristallizzazioni prodotte rotte negli ultimi decenni da un sistema patrio e paraculturale in avaria. L’impresa, che muove contributi palladiniani apparsi in varie testate («Paese Sera», «L’Umanità», «Corriere del Ticino», «alfabeta2», «Le reti di Dedalus», etc.) e utili materiali fotografici, tocca necessariamente – onestamente e naturaliter – anche «i teatri più legati alla tradizione, alla convenzione, alle ribalte “ufficiali”, alla regia critica, all’attore-mattatore e alla drammaturgia», già manovrati da Palladini (allora collaboratore) in Autori e drammaturgie. Prima enciclopedia del teatro italiano del dopoguerra (E & A, Roma, 1988) e ne La drammaturgia del teatro italiano vivente (a cura di M. Prosperi, E & A, 1993).

Il primo volume di Prove aperte (vincitore, per la “Saggistica”, della ventiquattresima edizione del Premio Feronia Città di Fiano-Filippo Bettini 2016), pensato in due riquadri, si dischiude con una prefazione di Cesare Milanese e ha un indice recante un lungo elenco di nomi che può inizialmente apparire come una monumentale ed eterogenea lista testimoniale. Invero, i vari testi della prima parte (Colloqui / incontri / rievocazioni), sovente interviste, sono interconnessi e cuciti dalla (e con la) voce dell’autore, in un campo-controcampo con punto di vista semi-soggettivo che, muovendo l’occhio critico di Palladini, produce tante immagini diverse dello stesso soggetto, ossia della «grave stasi innovativa» del teatro italiano osservata dagli anni Ottanta, qui monitorata non in vitro e quasi esorcizzando il puzzo teatrico ormai stantio. In questo patchwork in fieri, la disposizione diacronica degli scritti che compongono le sezioni (la seconda si intitola Schegge di teatro straniero) favorisce indubitabilmente la compenetrabilità dei “tutti”, anche se, a volte, da un testo posizionato cronologicamente escono fuori e rotolano dappresso, come in un respiro composito, altri interventi composti in anni successivi (è ciò che avviene, ad esempio, per Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Ugo Margio, Dario Fo, Péter Nádas, Franca Rame, Luca Ronconi, Raul Ruiz, Gigi Proietti e Marcello Sambati).

Così, la prima epifania di tra lo spacco del sipario porta il «bel viso abbrunato» e «incorniciato da una candida barba» di Otello Sarzi, burattinaio che «ha instancabilmente operato per condurre il teatro dei burattini su un piano di pari dignità artistica con le altre forme di teatro»: viene per dirci che l’«animazione teatrale» nella scuola (cioè nella «grande greppia») «andrebbe istituzionalizzata». È già molto, ma poco oltre (il 4 maggio 1982) Cosimo Cinieri va più lontano, sostenendo la necessità (realmente disattesa) di un intervento ministeriale atto sì a promuovere «nelle scuole l’educazione teatrale», ma «come base dell’educazione civile dei cittadini», per non rimanere «una nazione teatralmente incivile». Talvolta la voce di Palladini da filo diviene tessuto, si fa sanguigna e dilagante, emorragica e portavoce di tutte le ferite aperte (dalle rimozioni alle emozioni). Ciò avviene, quasi in apertura, con il trittico dedicato a Carmelo Bene: un’anta, del 20 luglio 1982, è imperniata su La voce di Narciso, libro beniano pubblicato nello stesso anno da Il Saggiatore; la seconda (del 6 gennaio 1988) resoconta «un incontro-stampa» al Teatro Quirino avvenuto poco prima dell’Hommelette for Hamlet; la terza – L’eredità perduta di un genio della demolizione – è stata firmata nel decennale della morte. L’attore pugliese (il quale ha scritto, riferendosi al periodo immediatamente successivo al debutto: «Una cosa mi era assolutamente chiara: le mie esibizioni avrei dovuto produrmele») può lecitamente tornare in mente nel momento in cui compare la seguente domanda rivolta da Palladini a Massimo Castri, affacciatosi di seguito: «Un regista che ha ambizioni culturali può limitarsi oggi al fatto artistico, o non deve anche farsi carico degli aspetti organizzativi e promozionali?». Castri, «dopo Strehler e con Luca Ronconi, il più importante esponente del teatro di regia in Italia», nonché traduttore, per Einaudi, dell’opera teatrale di Boris Vian, risponde parlando di «dissolvimento del teatro pubblico», della necessità di «farsi organizzatori in proprio», di «individuare nuovi livelli di committenza», di inventarsi nuovi interlocutori, tutto ciò alla luce del fatto che, per il regista, quelli in cui parla (la conversazione è dell’85) sono «anni di piombo», beninteso «teatralmente parlando». L’indagine sollecita di Palladini prosegue per concatenazioni, con la sua voce-ponte che tesse una polifonia a distanza. Attraversando la «dissolvenza incrociata tra teatro e cinema» di Giancarlo Sepe (per il quale l’avanguardia, dopo essere stata «pompata più del dovuto» dalla critica, è stata «brutalmente scaricata»), riporta a Carlo Cecchi quanto detto da Castri e dal regista casertano, con ulteriori riprese nelle pagine successive e un apparente crollo strutturale (necessario e desiderato) in quelle con Leo de Berardinis (21 dicembre 1985). Costui, difatti, taglia i sedicenti fili e spazza via gli equivoci (pure quelli di circostanza) parlando di «invenzione» in riferimento al «movimento di avanguardia delle cantine romane negli anni ’60». In esse (tra «personaggi fasulli, che aspiravano a entrare nel circuito ufficiale, negli apparati istituzionali», con i quali era pertanto impossibile «fare alcun discorso diverso da quello delle istituzioni», stigmatizzate quindi sotto il segno della medesima «“non-qualità”») si muovevano soltanto «due o tre persone di talento»: Carmelo Bene, Mario Ricci, Perla Peragallo e lo stesso De Berardinis (che altrove fa anche il nome di Carlo Quartucci). Ergo, nel caso «di Sepe, di Nanni, di Perlini, di Cecchi», a suo avviso, non si può parlare di «un teatro alternativo». Poi, nel 2010, la ripubblicazione de La bellezza amara – Arte e vita di Leo de Berardinis, «ottima monografia critica di Gianni Manzella», offre a Palladini l’occasione di notare come il suddetto libro testimoni «con grande acume l’onnivalente senso di smarrimento dinanzi ad un paesaggio teatrale dove tutto si eguaglia a tutto».

Dopo questa dilatazione testo-temporale, il ritmo riassume la precedente regolarità e con essa riprendono le connessioni. Palladini torna al 1986 con un’intervista a Bruno Mazzali nella quale segnala – dentro la sequenza teatrale – il settembre del 1985 come data crocidante di riferimento che porta la «fine prematura» di Julian Beck: «una sorta di simbolico requiem dell’avanguardia scenica internazionale degli ultimi 20-25 anni».

Seguono altri colloqui (quelli con Memè Perlini, Peter Stein e Aldo Giuffrè, ad esempio) e, nella sezione Schegge di teatro straniero, interventi critici su Lindsay Kemp, Jean Genet, Jeanne Moreau, Roman Polanski, Ingmar Bergman, Harold Pinter, Samuel Beckett e Peter Brook, il Living Theatre e altri ancora.

Il secondo volume di Prove aperte si compone di tre parti. La prima – Lampi di memoria random sulla scena italiana – raccoglie esami critici realizzati a caldo e riguardanti (tra i tanti): Salvo Randone, Peppe e Concetta Barra, Vittorio Gassman, Eduardo, Laura Betti, Giorgio Albertazzi, Walter Chiari, Moni Ovadia, Ennio Flaiano, Paolo Poli, Carlo Quartucci, Roberto Lerici e Perla Peragallo.

Il teatro tra libri e interventi d’abord è la parte caratterizzata da una maggiore eterogeneità: troviamo infatti recensioni di libri (come La riscossa di Lucifero di Maurizio Grande; La fabbrica degli attori di Maurizio Giammusso; L’attore di Roberto De Monticelli; Teatro come differenza di Antonio Attisani; Lettere sul teatro di Giorgio Strehler e Sotto la tenda dell’avanguardia di Pippo Di Marca); la trascrizione di un intervento al convegno “Il Sipario S/doppiato: il Teatro nell’Era dell’Audiovisione Globale” (Teatro della memoria: Ipotesi sulla conservazione dell’esperienza teatrale, del 2000); un estratto della prefazione che ha apprestato per Tertium non datur di Noemi Israel (Sulla drammaturgia, del marzo 2009) o postreme riflessioni sortite da addii: Teatro Vivente: per Judith Malina (1926-2015).

Il lettore, però, dovrà prestare particolare attenzione alla terza sezione – Domande e risposte, note critiche personali e autoracconti – perché in essa sono documentate (attraverso interviste, riflessioni, note di scena, appunti) le esperienze teatriche attive – cioè a dire specificatamente creative (pur continuativamente critiche) – di Palladini, da quella di autore a quella performativa (quest’ultima concretamente comprovata dall’audio-antologia Poetry Music Machine, Onyx Editrice, 2012). Sul significato e sul valore dei termini «attore» e «performer» si sofferma segnatamente in “Liminateatri”: intervista in cinque domande sull’arte del performer e sull’arte dell’attore/danzatore (del marzo 2013), offrendo definizioni qualificanti il primo come «il praticante ortodosso che replica più o meno bene, più o meno nobilmente, sempre il medesimo rito scenico»; per contro, il secondo è «l’eretico, il fuorilegge che introduce una variante imprevista, che segna uno scarto, una infrazione alla norma», il cui «atto artistico è sempre una palingenesi». È proprio da queste pagine palingenetiche che emergono le opere (e le operazioni) teatrali palladiniane: da Me Dea (1991 e 2014) a quelle nate dall’«esplorazione drammaturgica, poetica e teatrale» del «fuoco noetico del pensiero sadiano: ossia il contrasto tragico, insormontabile e illuminante tra natura e cultura» (è il caso di Justine. Il Vizio della Virtù, 12 Settimane a Sodoma e Il Rumore della Notte, riunite – era il 1996 – nel libro Destinazione Sade pubblicato da ARLEM, da cui è tratta la citazione); da Trans Kerouac Road – «live performance poetico-musicale» del 1995 e «work-inprogress» mutante (che «ha avuto un momento celebrativo centrale nell’esecuzione realizzata al club Alpheus di Roma», nel 1999, e un’edizione in cd pubblicata da Zona nel 2004) – alla Litania per Emilio Villa (2003), «il più grande e insieme il più misconosciuto sperimentatore in versi del Novecento italiano»; da Hudèmata Actàbat – suite nera (2007-2008) di Marino Piazzolla (messinscena realizzata in collaborazione con l’omonima Fondazione) a Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), dedicata nel 2009 a Gianni Toti («straordinario ed eterodosso esponente dell’avanguardia letteraria e poliartistica dell’ultimo mezzo secolo che non ha mai trovato posto nei “canoni” e nelle storie ed antologie “ufficiali” delle patrie lettere»); da Fratello dei cani (Pasolini e l’odore della fine), del 2012, a Male detto Céline (2012-2015), con testo di Stefano Lanuzza (anche recentemente riattivato).

La lunga onda creativo-performativa di Palladini («oggi appena entrato in una maturità che» – ha scritto Mario Lunetta – «calibrandone i naturali spiriti polemologici, ne ha caricato le membrane di elementi di lucida energia intellettuale e di severità mai gratuita», entrambe scaturite dall’«onestà teorico-comportamentale di tutta l’operosità» palladiniana) testimonia, quindi, pure una sua operazione critica assolutamente libera e necessaria, la quale – per ammessa volontà – ha dato (e continua a dare) «voce scenica a poeti e scrittori sia italiani che stranieri per lo più ignorati o negletti o tralasciati dal teatro italiano». È tantissimo, soprattutto in un paese dove, Carmelo Bene dice, «basta voltarsi un attimo, e non si è più. Non si è più stati».


Biografia di Luca Succhiarelli


 

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.