OCTAVIO PAZ, Henri Michaux: viaggio nell’abisso

Nato in Belgio nel 1899 [e morto nel 1984], Henri Michaux fu educato in una scuola gesuita a Bruxelles. Prese in considerazione l’idea di entrare in seminario, quindi si iscrisse alla facoltà di medicina prima di abbandonare gli studi e diventare un marinaio mercantile. I suoi viaggi hanno ispirato due diari sull’Ecuador e sull’Asia. Si stabilì a Parigi dove iniziò a scrivere e dipingere. La sua opera è stata lodata da numerosi scrittori, tra cui André Gide. Nel 1948, la moglie di Michaux morì dopo aver accidentalmente appiccato il fuoco alla sua camicia da notte: devastato, iniziò a prendere la mescalina, registrando meticolosamente le sue esperienze nel testo accompagnate da disegni a linee calligrafici distintivi.

Henri Michaux ha pubblicato tre libri tra il 1956 e il 1959 ricavati dalle sue esperienze con la mescalina, Miserable Miracle, L’infini turbulent e Paix dans les brisements, confrontandosi anche con una serie inquietante di schizzi, la maggior parte dei quali in bianco e nero, e alcuni a colori, eseguiti poco dopo ciascuna delle sue esperienze. La sua prosa, le sue poesie e i suoi disegni sono intimamente legati, poiché ogni mezzo di espressione rinforza e illumina gli altri. Gli schizzi non sono semplici illustrazioni dei testi.

La pittura di Michaux non è mai stata un semplice complemento alla sua poesia: sono al contempo mondi autonomi e complementari. Nel caso dell’“esperienza di mescalina”, linee e parole formano un tutto quasi impossibile da scomporre nei suoi elementi. Forme, idee e sensazioni si intrecciano come se fossero un’entità singola, vertiginosamente proliferante. In un certo senso, gli schizzi, lungi dall’essere illustrazioni della parola scritta, sono una sorta di commento. Il ritmo e il movimento delle linee portano alla mente una sorta di curiosa notazione musicale, tranne che non ci troviamo di fronte a un metodo di registrazione dei suoni ma a vortici, tagli, intrecci dell’essere. Incisioni nella corteccia del tempo, a metà strada tra l’ideogramma e il segno magico, personaggi e forme “più palpabili che leggibili”, questi schizzi sono una critica della scrittura poetica e pittorica, vale a dire un passo oltre il segno e l’immagine, qualcosa che trascende parole e linee.

La pittura e la poesia sono lingue che Michaux ha usato per cercare di esprimere qualcosa che è veramente inesprimibile. Iniziò a dipingere quando si rese conto che questo nuovo medium avrebbe potuto consentirgli di dire ciò che aveva trovato impossibile dire con la sua poesia. Ma è una questione di espressione? Forse Michaux non ha mai provato a esprimere nulla. Tutti i suoi sforzi sono stati diretti a raggiungere quella zona, per definizione indescrivibile e incomunicabile, in cui i significati scompaiono. Un centro allo stesso tempo completamente vuoto e completamente pieno, un vuoto totale e una pienezza totale. L’opera di Michaux – le sue poesie, i suoi viaggi reali e immaginari, la sua pittura – è una spedizione che si snoda verso alcuni dei nostri infiniti, i più segreti, i più spaventosi, a volte i più derisori.

Michaux viaggia attraverso le sue lingue: linee, parole, colori, silenzi, ritmi. E non esita a spezzare il retro di una parola, come un cavaliere non esita a caricare la sua cavalcata. La lingua come veicolo, ma anche il linguaggio come un coltello e una lampada da minatore. La loro utilità è paradossale, tuttavia, dal momento che non sono impiegati per promuovere la comunicazione, ma piuttosto pressati al servizio dell’incomunicabile. La straordinaria tensione del linguaggio di Michaux deriva dal fatto che si tratta di uno strumento indubbiamente efficace, ma il suo unico scopo è di scoprire qualcosa che è completamente inefficace per sua stessa natura: lo stato di non-conoscenza che va oltre la conoscenza, il pensiero che non pensa più a lungo perché è stato unito a se stesso, alla trasparenza totale, a un vortice immobile.

Miserabile Miracolo si apre con questa frase: «Questo libro è un’esplorazione, attraverso parole, segni, disegni, mescalina, il soggetto esplorato». Quando ho letto l’ultima pagina, mi sono chiesto se il risultato dell’esperimento non fosse stato esattamente il contrario: il poeta Michaux esplorato dalla mescalina. Un’esplorazione o un incontro? Un incontro con la mescalina: un incontro con noi stessi, con il noto sconosciuto. Un grande dono degli dei, la mescalina è una finestra attraverso la quale osserviamo interminabili distanze in cui nulla incontra mai il nostro occhio ma il nostro stesso sguardo. Non c’è io: c’è spazio, vibrazione, animazione perpetua. Battaglie, terrori, euforia, panico, delizia: è Michaux o mescalina? Era già tutto lì a Michaux, nei suoi libri precedenti. La mescalina era una conferma. Michaux può dire: ho lasciato la mia vita alle spalle per intravedere la vita.

Tutto inizia con una vibrazione. Un movimento impercettibile che accelera di minuto in minuto. Vento, un lungo fischio stridulo, un uragano sferzante, un torrente di volti, forme, linee. Tutto precipita, si precipita in avanti, sale, scompare, riappare. Un’evaporazione vertiginosa e condensazione. Bolle, più bolle, ciottoli, piccole pietre. Scogliere rocciose di gas. Linee che attraversano, fiumi che si incontrano, infinite biforcazioni, meandri, delta, deserti che camminano, deserti che volano. Disintegrazioni, agglutinazioni, frammentazioni, ricostituzioni. Parole spezzate, copulazione di sillabe, fornicazione di significati. Distruzione del linguaggio. La mescalina regna attraverso il silenzio, e urla! Un ritorno alle vibrazioni, un tuffo nelle ondulazioni. Ripetizioni: la mescalina è una “macchina infinita”. Niente è stato risolto. Valanghe, regno di numeri incalcolabili, proliferazione maledetta. Spazio cancrenoso, tempo canceroso.

Colpito dalla tempesta della mescalina, risucchiato dal vortice astratto, il moderno occidentale non trova assolutamente nulla a cui aggrapparsi. Ha dimenticato i nomi, Dio non è più chiamato Dio. L’azteco o il tarahumara dovevano solo pronunciare il nome, e immediatamente la presenza sarebbe scesa, in tutte le sue infinite manifestazioni. Unità e pluralità per gli antichi. Per noi che mancano dèi: pullulazione e tempo. Tutto ciò che abbiamo lasciato sono «cause ed effetti, antecedenti e conseguenze». Spazio brulicante di banalità. Miracolo miserabile.

Il primo incontro di Michaux con la mescalina si conclude con la scoperta di una “macchina infinita”. L’infinita produzione di colori, ritmi e forme si rivela alla fine un’incredibile, assurda ondata di cianfrusaglie economiche. Siamo milionari con vasti depositi di spazzatura da fiera. La seconda serie di esperimenti (L’infinito turbolento) provocò reazioni e visioni inaspettate. Sottoposto a continue scariche fisiologiche e a una spietata tensione psichica. L’esplorazione della mescalina, come un grande incendio o un terremoto, fu devastante; tutto ciò che restava intatto era l’essenziale, ciò che, essendo infinitamente debole, è infinitamente forte.

Che nome possiamo dare a questa facoltà? È in realtà una facoltà, un potere, o è un’assenza di potere, la totale impotenza dell’uomo? Sono propenso a credere che sia quest’ultima. Questa impotenza è la nostra forza. A l’ultimo momento, quando non c’è più nulla in noi – quando il sé si perde, quando l’identità è perduta – si realizza una fusione con qualcosa di estraneo a noi che è l’unica cosa che è veramente nostra. La fossa vuota, il buco che ci riempie di traboccare, diventa una fonte ancora una volta. Quando la siccità è più grave, l’acqua sgorga.

Forse c’è un punto in cui l’essere dell’uomo e l’essere dell’universo si incontrano. A parte questo, nulla di positivo: un buco, un abisso, un infinito turbolento. Equidistante dalla sanità mentale e dalla pazzia, la visione che Michaux descrive è totale: la contemplazione del demoniaco e il divino come realtà ultima. Lo stadio demoniaco dell’esperimento fu soprattutto la rivelazione di un erotismo transumano e quindi infinitamente perverso. Uno stupro psichico… Per nulla sessuale. Un universo infinitamente sensuale, dal quale il corpo e il volto umano erano scomparsi. Una lascivia astratta: «Dissoluzione, una parola adatta che ho capito immediatamente. Delizia di delinquescenza». Tentazione, nel senso letterale della parola, come hanno riferito tutti i mistici (cristiani, buddisti, arabi).

Forse la causa del senso di repulsione di Michaux non era tanto il contatto con Eros come la visione della confusione del cosmo, vale a dire la rivelazione del puro caos. Le viscere visibili, il caos è la sostanza primordiale, il disordine originario e anche l’utero universale. Ho sentito una sensazione simile, anche se molto meno intensa, durante la grande estate dell’India, durante la mia prima visita nel 1952. Una volta caduto in quella bocca ansimante, l’universo mi sembrava un’immensa fornicazione multipla. Improvvisamente ho intravisto il significato dell’architettura di Konarak e l’ascetismo erotico. La visione del caos è una sorta di bagno rituale, una rigenerazione attraverso l’immersione nella fontana originale, un ritorno alla “vita primitiva”. Le tribù primitive, i primi greci, i cinesi, i taoisti e altri popoli non hanno avuto paura di questo contatto fantastico. L’atteggiamento occidentale non è salutare. È morale. La moralità, il grande isolatore, il grande separatore, divide l’uomo a metà. Per ritornare a l’unità della visione è riconciliare corpo, anima e mondo. Alla fine dell’esperimento, Michaux ricorda un frammento di un poema tantrico:

 

Inaccessibile alle impregnazioni

Godendo tutte le gioie,

Toccando tutto come il vento,

Tutto lo penetra come l’etere,

Lo yogi sempre puro

Bagnato nel fiume sempre fluente.

Ama tutte le gioie e nulla lo contamina.

 

La visione divina – inseparabile dalla visione demoniaca, poiché entrambe sono rivelazioni di unità – ha avuto inizio con “l’apparizione degli dei”. Migliaia, centinaia di migliaia, uno dopo l’altro, in una fila infinita, un’infinità di volti augurali. E mari di luce. «Mi aggrappo alla perfezione divina della continuazione dell’essere attraverso il tempo, una continuazione che è così bella – così bella che perdo coscienza – così bella che, come dice il Mahabharata, gli dei stessi diventano gelosi e vengono ad ammirarlo».

La visione degli dei è seguita dalla non visione: siamo nel vero cuore del tempo. Questo viaggio è un ritorno: un lasciarsi andare, un disimparare, un viaggio verso casa, alla nascita. Leggendo queste pagine di Michaux, ho ricordato un oggetto precolombiano che il pittore Paalen mi ha mostrato alcuni anni fa: un blocco di quarzo con l’immagine del vecchio e rugoso dio Tlaloc inciso su di esso. Andò verso una finestra e lo sollevò alla luce:

 

Toccato dalla luce

Il quarzo è improvvisamente una cascata.

Il dio bambino galleggia sulle acque.

 

Non-visione: al di fuori della realtà, della storia, degli scopi, dei calcoli, dell’odio, dell’amore, «oltre la risoluzione e la mancanza di risoluzione, oltre le preferenze», il poeta torna alla nascita perenne e ascolta «l’infinito poema, senza rime, senza musica, senza parole, che l’universo recita incessantemente». La pace nel cratere del vulcano, la riconciliazione dell’uomo – ciò che rimane dell’uomo – con la presenza totale.

Intraprendendo il suo esperimento, Michaux scrisse: «Propongo di esplorare la mediocre condizione umana». La seconda parte di questa frase – una frase che si applica, potrei aggiungere, a tutta l’opera di Michaux e a quella di ogni grande artista – si è rivelata straordinariamente falsa. L’esplorazione ha mostrato che l’uomo non è una creatura mediocre. Una parte di se stessi – una parte murata, oscurata fin dall’inizio dell’inizio – è aperta all’infinito. La cosiddetta condizione umana è un punto di intersezione con altre forze. Forse la nostra condizione non è semplicemente umana.

 

Michaux in parole e immagini

I devoti della prospettiva semplice possono essere tentati di giudicare tutti i miei scritti come quelli di un tossicodipendente. Mi dispiace dire che sono più il tipo che beve acqua. Mai alcool. Nessun eccitanti e per anni niente caffè, tabacco o tè. Di tanto in tanto vino, un po’. Tutta la mia vita, in materia di cibo o bevande, moderata. Posso prendere o astenermi. In particolare, astenersi. In realtà, la fatica è la mia droga.

Ho dimenticato. Venticinque anni fa, o più, ho provato l’etere sette o otto volte, una volta il laudano e due volte il più indicibile di tutti, l’alcol…

 

Perché ho smesso di prendere la mescalina?

Non è flessibile come si vuole.

 

Nel corso degli anni, ho fatto progressi. Sapevo, avvicinandomi agli stati importanti, avvicinandomi a quelli che contano, come orientarli (e me stesso), ma non con certezza, solo a intermittenza.

 

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Invisibile ma sempre lì, dietro gli stati straordinariamente eccellenti, apparentemente irreversibili, c’è un’improvvisa rivelazione degli stati molto, molto brutti che non vuoi, o del caotico, del bizzarro, dello stravagante che pensavi di aver superato.

Prendendo un po’ di [mescalina] ogni quattro anni, solo per vedere come si sta facendo, probabilmente non sarebbe una cattiva idea.

 

Mi sto arrendendo anche a quello.

Diciamo solo che non ho molto talento per la dipendenza.

 

(Questo è un estratto della presentazione di Octavio Paz del 1967 a Miserable Miracle di Henri Michaux, tradotto da Helen R. Lane dallo spagnolo sul «The Guardian» del 10 agosto 2002 e da Giorgio Moio dall’inglese che ha curato anche la parte iconografica)


 

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