GIOVANNI MATTEO ALLONE, La Leggenda dell’abate Virila o dell’Eternità (1)

L’abate Virila, come sua abitudine, uscì di buon mattino dal monastero per la consueta passeggiata nel bosco, dove, lontano dai rumori del mondo, immerso nel profondo mistero della natura, poteva rimanere solo a riflettere con se stesso. Da qualche tempo un problema lo assillava: il concetto di eternità, e non c’era verso di addivenire a una soluzione che lo soddisfacesse e appagasse la sua sete di conoscenza.

Era una tiepida giornata primaverile e la natura appariva nel suo pieno rigoglio. Nel giardino che circondava il convento, gli alberi di frutta erano rifioriti e le pianticelle dell’orto erano germogliate promettendo un’annata ricca. In un angolo, però, un mandorlo mostrava i rami stecchiti, mentre, accanto, gli altri alberi più giovani, meli, peschi, ciliegi, sfoggiavano una chioma variopinta.

L’abate Virila si avvicinò al mandorlo e toccando i ruvidi rami privi di linfa disse: «Questo ha ormai fatto il suo tempo, dovrò dire a frate Pierino, il giardiniere, che bisogna tagliarlo», e aggiunse con malinconia: «L’eternità non gli appartiene». E osservando gli altri alberi attorno, pensò che non tutto in natura muore, perché il seme ne rinnova la vita. Il seme è eterno. Di quell’albero egli ne aveva goduto i frutti, degli alberi ancora piccoli, altri, non lui, ne avrebbero tratto beneficio. Com’è breve il percorso degli uomini sulla terra, un attimo e tutto svanisce! Sì, solo il seme rimane eterno.

Una voce, però, dentro di sé, gli disse che si sbagliava: «Frate Virila, hai presente quante specie di piante sono scomparse, quanti esseri animali che un tempo popolavano la terra non esistono più? No, frate Virila, il seme non è eterno, e neanche la natura, perché non tutto muore e non tutto rinasce. L’eternità è un attributo solo di Dio».

Il frate scosse la testa. Se Dio è eterno, non sono eterne anche le cose create da Lui? Perché allora tutto ha così breve durata?

Il sole, intanto, s’era alzato luminoso nel cielo inondato d’azzurro, solo una pallida falce di luna s’intravvedeva laggiù verso oriente.

«Il sole è eterno», pensò. «No, neanche lui, un giorno la sua luce si spegnerà e il buio regnerà oltre la notte. Forse il buio è eterno, ma se oggi c’è la luce neanche il buio può considerarsi simbolo di eternità».

L’abate Virila varcò il cancello dell’orto e s’incamminò nel sentiero che portava al bosco tra un intenso profumo di fiori che sbucavano qua e là sull’erba incolta dei prati. Il frate osservava con tenerezza le primule, le viole, le margheritine e già pensava di raccoglierne qualche mazzetto al suo ritorno e porle sull’altare al Crocifisso, a quel Cristo, figlio di Dio, che aveva sacrificato la propria vita per la salvezza dell’umanità, ma che immortale, eterno, era salito in cielo per sedersi accanto al Padre.

Immortalità, eternità, sono la stessa cosa o si tratta di due cose diverse? L’abate rimandò a oltre le sue deduzioni. Si trattava di un argomento scabroso e qualunque accostamento a elementi concreti e reali, qualsiasi raffronto, paragone, gli apparivano fuorvianti.

Tenendo tra le mani Le confessioni di Sant’Agostino, l’abate Virila riprese il cammino, fermandosi di tanto in tanto a leggerne qualche brano e a riprendere fiato perché gli anni cominciavano a pesargli. Sulla soglia del bosco cominciò a sentire lo stormire delle fronde degli alberi, abeti, pini, betulle, pioppi. «Lo stormire è il segno dell’anima del bosco», disse fra di sé, «così come la voce è il segno dell’anima dell’uomo. Ma in quale parte essa si annida? Il corpo è mortale, quindi finito, l’anima è immortale, e se è immortale sarà pure eterna. L’eternità non ha né principio né fine. E allora preesisteva all’uomo ed è stata inserita nel suo corpo nell’atto della nascita?».

Non avendo interlocutori doveva dibattere con se stesso, ma, in tal senso, nessuna risposta lo soddisfaceva.

L’abate si inoltrò nel bosco percorrendo un sentiero ai margini di una sorgente di fresche acque. Si fermò un attimo per dissetarsi poi trovò una pietra levigata e sedette aprendo il libro di Sant’Agostino nelle pagine in cui il Santo di Ippona trattava del tempo e dell’eternità.

«Esiste solo il presente», affermava il vescovo di Ippona.

«Ma come?», gli faceva osservare l’abate, «com’è possibile che esista solo il presente se esso è un attimo fuggente e nello stesso momento in cui giunge, è già passato?».

La risposta si trovava qualche pagina più in là: «I tempi sono tre, ma sono distinzioni dell’anima: il presente del passato, che è la memoria, il presente del presente che è l’intuizione, e il presente del futuro che è l’attesa».

«Mi riesce difficile capire questo benedetto presente», esclamò a voce alta l’abate.

«Il presente è concepibile a condizione che si pensi come il passaggio da futuro a passato. Se il presente fosse un continuo presente, esso non sarebbe più tempo, ma eternità».

«Questo benedett’uomo non poteva essere più chiaro?», disse fra sé l’abate rimandando a più tardi le sue meditazioni e il tacito colloquio con Sant’Agostino.

L’abate appoggiò la testa al ruvido tronco di un pino e chiuse gli occhi come a placare l’intima sofferenza per una difficile soluzione alle sue richieste di chiarire una questione così intrigata. Il dolce canto di un usignolo, posatosi su un albero vicino, addolcì l’amarezza per non essere in grado di dare una definizione concreta all’eternità. I suoi gorgheggi melodiosi lo fecero cadere in estasi. La soavità di quel canto gli conciliò un sonno profondo, consolatore.

Al risveglio l’abate Virila stentò a riconoscere il luogo in cui si trovava, gli sembrava di essersi smarrito nel folto del bosco. Si guardò attorno disorientato perché non riusciva a trovare una via d’uscita. Si incamminò verso un poggetto e dall’alto della radura scorse da lontano il monastero, laggiù in fondo. A fatica, come se fosse appesantito dagli anni, raggiunse la portineria e bussò per farsi aprire.

Un giovane monaco scostò il pesante portone di legno e gli chiese chi fosse.

«Come?», rispose l’abate, «non mi riconosci?».

«Non so chi siete», rispose il monaco.

«Sono Virila, l’abate di questo monastero».

Il giovane monaco scoppiò in una risata fragorosa: «Vi siete sbagliato, fratello. Qui non c’è alcun abate Virila». Preso comunque da pietà per quel vecchio dalla barba bianca, che continuava con insistenza a proclamarsi abate di quel monastero, il confratello lo fece accomodare nel refettorio e andò a riferire agli altri monaci l’accaduto.

Il priore chiamò a sé gli altri monaci e sull’invito dell’abate Virila insieme andarono a cercare nell’archivio del cenobio se veramente era esistito un abate con tale nome. Con profonda meraviglia trovarono, in effetti, un abate Virila, che trecento anni prima s’era smarrito nel bosco e non aveva fatto più ritorno.

Stupiti per quell’evento inspiegabile ma senza dubbio prodigioso, i monaci fecero entrare l’abate Virila in chiesa per celebrare assieme a lui il Te Deum di ringraziamento e rivolgere le lodi al Signore. Nel momento solenne della celebrazione del rito cristiano si aprì la volta della chiesa e risonò potente la voce di Dio: «Abate Virila, sei rimasto per trecento anni ad ascoltare in estasi il canto di un usignolo e ti è sembrato un istante. Le dolcezze dell’eternità sono molto più perfette».

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1  Da una leggenda spagnola.


Biografia di Giovanni Matteo Allone


 

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