FEDERICO PREZIOSI, Nota a margine di Il ramo più preciso del tempo di Ketti Martino

 


«Del tempo, l’inverno è il ramo più preciso, / e in questo ci assomoglia». È poesia quella di Ketti Martino che si nutre di silenzi, di abbandoni e lasciti affacciandosi in tanto lente quanto acute incursioni dell’animo. La materia del distacco (e delle impermanenze, per chi avesse avuto la fortuna di leggere la silloge precedente) fornisce la base per una poetica temprata da uno stile asciutto, sostanzialmente minimale, ma estremamente soppesato, soffuso e non per questo privo di forza e vigore. Su tutto aleggia la stagione invernale, in quanto catalizzatore della negatività che nella vita, ciascuno di noi si ritrova a fronteggiare a un certo punto del proprio percorso. La difficoltà estrema, quella più pura e indomita, capace di rovesciare il nostro equilibrio fino a comprometterlo, penetra e si incunea sotto pelle, e si manifesta come escrescenza dello spirito che cresce fino a divenire una fronda all’apparenza secca, la nostra pelle-corteccia, caratterizzandoci in maniera quasi permanente. È attraverso l’esperienza del negativo che l’essere umano forgia se stesso, una corrispondenza quella tra umanità e male paradossalmente simbiotica: da un ramo temprato in inverno nasceranno i frutti migliori della terra, quelli che connoteranno le nostre azioni e lasceranno il segno. Ma prima di poterne godere quale la via da intraprendere? Ne Il ramo più preciso del tempo le vie indicate sono tre, tante quante le sezioni del libro.

Nella prima parte, La liturgia della casa, il tessuto poetico accade tra le mura domestiche, consumandosi nel rapporto spirito-oggetto attraverso cui si districa lo spazio-vita di una memoria che sa di sopravvivenza. Nonostante tutto la casa protegge, rappresenta il prolungamento del nostro essere e custodisce gli affetti di ognuno di noi, sia pure sotto forma materiale dell’oggetto che rievoca. L’esistenza ritorna continuamente ai luoghi che custodiscono l’anima popolata dai fantasmi del vissuto: «Nella vertigine domestica / c’è una topografia sottile, / una disciplina ragionata a lungo, / a lungo posseduta». La disciplina dello spazio diventa terreno in cui preservare l’affetto e l’amarezza della vita umana nel continuo rinnovamento del distacco.

La seconda parte ci porta alle Rotazioni, ovvero l’assedio della mutevolezza, la trasformazione continua, resistere per esistere, rivendicare ciò che si è e che si è stati, fare incetta di cicatrici e rughe in quanto segni tangibili dell’identità maturata, non un monolite di granito, bensì la misura conquistata all’interno della propria dimensione, mutevole a sua volta: «Del tempo sento ciò che l’asprezza dice», tutto il resto è eco di desideri e aspettative sfumate.

Nella terza e ultima parte, intitolata Distanze, emerge la “rielaborazione del lutto”, la saggezza scaturita dal dolore: «Tu che chiedi braccia schiuse / per le virtù che scorgi ovunque, / vedi il germinare fitto di promesse / come quando dentro al piatto / si sminuzzano parole e poi si asciugano / per conficcarle meglio nel costato». E ci si chiede fin dove spiritualità, rabbia e disillusione possano convivere, fino a dove il dolore redime e fin dove mostra la propria crudezza, laddove il silenzio prende fiato e si ripiega su se stesso accettando la natura subita nella inderogabile necessità del prosieguo. Per amore.

Non ci sono e non ci saranno mai parole adatte a descrivere l’intima essenza umana, l’essere esaustivi non è lusso che spetta al limitato mondo dei vivi; eppure Ketti Martino stupisce con la sua speciale capacità di sprigionare dai propri versi una spiritualità degna di Margherita Guidacci e una malinconica serenità esistenziale che ha connotato le pagine più intense di Mariangela Gualtieri.

Ketti Martino
Il ramo più preciso del tempo 
Oèdipus Edizioni, 2018 pp. 96

Biografia di Federico Preziosi


 

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