ELEONORA RIMOLO, Temeraria gioia (1)

La poesia è l’urgenza di perderci nel labirinto, la necessità di tradurre in versi le nostre mostruosità interiori ed esteriori: un tentativo di conversione dell’oscuro in bellezza, un trascinare fuori dalle tenebre infernali quel cono di luce che fin dal principio permette di osservare il mondo e il canto eterno che esso custodisce. Considero la poesia anche come un figlio: come potrebbe, dunque, non somigliarci e allo stesso tempo non essere noi? L’arte è il nostro modo di organizzare il vuoto, direbbe Lacan: questo, però, non vuol dire banalmente che la poesia esiste solo in rapporto con i fantasmi di chi la scrive (cioè che il verso sia solo la strutturazione in linguaggio del nostro inconscio), ma che proprio a partire da questa traduzione in significante della nostra interiorità si aprano spazi vuoti e sterminati di significato da riempire con tutte le possibili alterità che ci circondano, e che sono universalmente valide per tutti (Eleonora Rimolo).

 

* * *

 

Avvolta in fragranze di limoni vorrei,

tu con il maglione a quadri, in cucina

mi sorridi dall’altro capo del filo

in tasca hai tutte le piaghe del senno

piegate stanno in mezzo al fazzoletto

sopra il tavolo lucerna senza vento

aroma di caffè, disusate tenerezze

di vecchio, la luna sovrasta il tetto

non si vede che il velo dell’altro

suo volto, nei tuoi occhi,

come un vaso ornato privo di fiori:

tra i disegni e le chiacchiere

sono morti numerosi altri

idoli ma in te solo, nelle tue ossa,

io rivedo la tovaglia, le carte, le forbici

in fila indiana, la fruttiera,

in principio.

Lì dove nacqui erano già in cammino

i tuoi passi, ancora e ancora

stritolano speranze

e – solo ̶ il tuo amore fa ruggire

a me dentro tempesta.

Ci riabbracciamo qui sotto il letto,

aiuto, ho buttato via l’asso

di denari, sono stata davvero, ho fatto

proprio la mossa sbagliata: tu

batti le mani, vincitore, il vino

ti colora rughe nuove e le Erinni

finalmente

abbandonano l’estate.

 

*

                                  ad A.G.

 

Non conosco l’uccello che vola

basso sopra il raccordo autostradale

si ferma e poi con la sua lunga ala

abbatte tutte le scene cittadine

– di molte cose non conosco il nome

ma so che oggi è finita un’epoca,

so che lui scriverà ancora ma questo

non lo salverà, so che avremmo potuto

dire di più e che nel guanto di queste

ispirazioni imperiture c’è l’estremo

tentativo di conciliare la vita

con la violenta gratitudine di morire.

E a questo punto tutte

sono ostili figure da taglio:

il povero sul ciglio, la donna in procinto

di spegnersi alla finestra

– o dentro la sacrestia, tutte le sere

e quelli che fanno della noia

il sufficiente nutrimento.

 

*

Ripensare ai bambini così,

molte fasi lunari da attraversare

col brillio dei piedi piccoli

diamanti della costa ornati

e alcune sere davanti

accaldati dopo il gioco poi

attratti dalla marea, a mano

a mano che monta l’estate

sereni e vuoti quei pensieri

sul pelo dell’acqua viaggiano

ed il tempo ci occorre

adesso

per gonfiare i petti e rincorrere

dalla fine dell’orizzonte

le idee che crescono:

percepire della leggerezza

la puntura, subire la letizia

senza piegarci mai.

 

*

Amarti è di nuovo covare

la nausea del non capire,

è l’aver smarrito

il sentiero scavato

dall’aratro, è chiederti

quanti sono i superstiti,

spegnere la luce, abbandonarsi

nel sonno alla strage.

 

*

Lasciatemi dire

la foglia immarcescente

la processione degli orfani e delle spose,

lasciatemi fare l’umano e capire

che non si può bastare a nessuno.

 

*

E saprai di quella migrazione verso

lo strisciare nella pazienza, saprai

come guaisce il piacere di uccidere

mentre leali puntiamo alla gola:

 

così, tenendosi allo specchio,

nascondendo le lame tra le guance,

avvicinando il naso al vetro,

sgonfiando il petto, facendo

col fiato una macchia, scrivendoci dentro la pena.

 

*

A noi piace il mare. Questa terra arida

putrida non la tradiamo. In via S. Giacomo

i tossici del Sud sono piccoli e quasi

scompaiono dietro uccelli di carta:

non un commento, non uno, sugli avanzi

della festa. Solo si sbucciano la pelle,

provano pietà per il cane zoppo. Qui

pure le periferie sono insignificanti,

girotondi cruciali tra quattro cortili,

paralizzate possibilità.

 

*

 

All’occorrenza il tuo cranio diventa

una sfera colorata, maiolica con la frattura:

è quello il punto esatto in cui la debolezza

abdica e tutti i manifesti volano via

angeli di carta ci premono la nuca

sul bordo tagliente della gioia.

 

(1) Queste poesie, scelte dall’autrice per F.P., sono tratte dal volume Temeraria gioia (Giuliano Ladolfi, 2017).

 

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