CARLO CENCIARELLI, Il cerimoniale

Sarei una bugiarda se dicessi che accade spesso. Non è così. Accade raramente. Una o due volte l’anno. Però accade. E si svolge in questo modo.

Io mi stendo a pancia sotto sul lettino, nella cameretta. Mio zio entra di lì a poco. Chiude la porta a chiave. Mi solleva la gonna. Le sue dita fredde, grassocce, corte corte — come le conosco bene! — si insinuano sotto l’elastico del collant e lo fanno scorrere giù, fino alle caviglie. Poi abbassano anche le mutandine.

Lo zio s’allontana un momento. Si toglie la cintura. Comincia a battermi selvaggiamente.

Assaporo un dolore tremendo, quasi insopportabile, che però è insieme una liberazione: tra dieci minuti al massimo sarà finito tutto e io me ne potrò stare tranquilla, senza temere più nulla, per molti lunghi mesi.

Raccontando questo non vorrei mettere in cattiva luce mio zio che è un uomo delizioso: sempre affabile, disponibile, costruttivo, e per giunta molto spiritoso. Non lavora, quindi si dedica completamente a me. Facciamo la spesa insieme, cuciniamo insieme, vediamo la televisione insieme. Mi compra un sacco di bei vestiti e mi insegna anche molte cose complicate e importanti: giocare a scacchi, ad esempio. È un uomo molto generoso: i miei veri genitori mi hanno abbandonata a due anni; lui, invece, mi ha presa con sé per sempre. È sposato. Mia zia è una biondina esile, magra, dalla carnagione bianca bianca, claudicante alla gamba destra. Lei lavora: ha un posto d’impiegata all’Archivio di Stato. In più è una delle animatrici laiche della nostra parrocchia. Da come guarda di continuo mio zio si vede bene che lo ama smisuratamente. Anch’io, da parte mia, voglio tanto bene a tutti e due e quindi, insieme, siamo molto felici.

Posso dire di essere una brava ragazza, assennata e studiosa, tuttavia proprio non riesco a non cadere in due colpe che mio zio, poi, è costretto a punire.

Frequento il terzo anno di Liceo Classico e sono bravissima nelle materie che lo caratterizzano: Latino, Greco, Italiano, Filosofia. Ma non sopporto Matematica e Scienze: sono qualcosa di troppo grigio, arido, astratto: con loro non riesco a prendere confidenza. Quindi ogni anno rischio di essere rimandata. Mi salvo poi all’ultimo trimestre, compiendo una sorta di violenza su me stessa. Inoltre — nonostante mio zio mi abbia avvertito che da questo possono nascere conseguenze terribili — ho preso il vizio di chiacchierare e molto a lungo con i ragazzi della mia età. Sia detto per inciso: ho sedici anni. Mi piace molto saper qualcosa della loro vita, così diversa eppure in qualche modo così vicina alla mia. Quando sto insieme ai ragazzi non guardo più l’orologio e mi capita di arrivare con mezz’ora di ritardo a pranzo o addirittura a cena.

Non c’è bisogno che mio zio parli: quando mi guarda in un certo modo, cupo e torbido, so già che prima o poi sarò punita. La tortura è in questo: non so quando. Può essere quasi subito, tra una settimana, tra un mese, tra un mese e mezzo… E io precipito in una paura senza limiti, senza rimedi. Talvolta dico a me stessa: so bene come e quanto soffrirò, è già accaduto tante volte, non c’è proprio ragione per esserne così spaventata. Quest’idea mi dona un po’ di quiete. Mi concentro su altro. Trascorre un’ora. In altre occasioni anche due. Poi, all’improvviso, il terrore e l’ansia per quel che succederà riemergono: mostruosi, dilaganti.

Quando, una bella sera, dopo cena, mio zio mi dice: «Vai nella tua camera a prepararti per il cerimoniale della punizione», già in quel momento, in qualche modo, comincia il mio sollievo.

In questi ultimi tempi ho conosciuto un ragazzo siciliano d’origine normanna, coi capelli biondi e la pelle bruno dorata. Mi fa impazzire. Ho cominciato a uscire con lui il pomeriggio. E a non pensare più allo studio. Alla fine sono stata rimandata sia in Matematica che in Scienze. Mio zio mi ha guardata nel solito modo. Ho smesso di vedere quel ragazzo che si chiama Gabriele e mi sono messa su quei libri gelidi che detesto. Ce l’ho fatta a superare gli esami di riparazione. E non so nemmeno io come ci sia riuscita perché intanto sono trascorsi ben tre interminabili mesi e il cerimoniale ancora non s’è svolto. Non vivo. Sono precipitata in un abisso senza fondo, fatto soltanto di tenebre e di paura selvaggia. Qualche volta addirittura mi faccio la pipì addosso senza un pericolo concreto davanti, al solo pensiero di quel che accadrà. Che cosa mai avrà in mente mio zio?

Finalmente la sera tanto desiderata è arrivata! Mio zio mi ha detto di prepararmi per il cerimoniale della punizione e io sono andata a distendermi sul mio lettino nella cameretta quasi felice. Ho atteso molto più del solito: mio zio sembrava non arrivare mai. Alla fine ce l’ha fatta e ha chiuso la porta a chiave come sempre. Poi però è successo qualcosa di sconosciuto, di strano. Ho sentito un rumore: come se poggiasse un oggetto piuttosto pesante contro il muro. Mi ha ripreso un terrore folle. Intanto mio zio mi spogliava. Quindi s’è ritratto. Una pausa abbastanza lunga. Ho trovato la forza per voltarmi e l’ho visto che brandiva un bastone enorme, ferocemente appuntito ad entrambe le estremità, un’espressione vacua sul volto sudaticcio. Però non stava per colpirmi: era perfettamente, assurdamente immobile, con quel bastone smisurato fra le mani. Ne ho approfittato per tirarmi su mutandine e collant e scappar via. Lui non mi è venuto dietro.

È poi successo un episodio che non ho capito molto bene. Una notte mi ha svegliata la voce di mio zio che sbraitava altisonante — come non fa praticamente mai — in camera sua. Mi sono alzata, sono andata in corridoio, ma alla fine non ho avuto il coraggio di avvicinarmi troppo alla porta chiusa della stanza da letto dei miei: è una cosa che mi è proibita da sempre, specialmente di notte. Quindi ho afferrato poco o nulla di quel che diceva mio zio. Più che altro le mie orecchie erano ferite e irritate da quegli urlacci concitati e rabbiosi, assai debolmente contrastati da una specie di mugolio, querulo e lacrimoso, che emetteva mia zia. Sono rientrata in camera e mi sono protetta ficcando la testa sotto il cuscino, mentre speravo con tutta l’anima mia che tornasse al più presto il silenzio.

L’indomani mia zia era scomparsa. Al mio stupore e alle mie domande, lo zio ha risposto in modo vago ed elusivo, prendendo subito a parlare di altro. Non ho osato insistere. Più tardi ha aggiunto che comunque la zia sarebbe tornata fra pochi giorni. Intanto però adesso in casa c’eravamo soltanto io e lui.

Tre quattro giorni sono passati nel modo più tranquillo poi, però, ha cominciato a passeggiare di notte davanti alla mia stanza e spesso sento il colpo secco e cupo del suo bastone che batte sul pavimento di marmo del corridoio. Io impazzisco dalla paura: non dormo più e durante quelle bianche ore interminabili bagno molte volte le lenzuola, come fossi ridiventata una bambina piccola.

Per caso, ho incontrato di nuovo Gabriele. Fra le sue braccia mi sono sfogata, gli ho raccontato tutto. Lui non ha detto niente; mi ha stretto a sé con tutta la forza e tutto l’amore che aveva in corpo e mi ha regalato un coltellino a serramanico. L’ho messo sotto il cuscino e la cosa mi ha donato una pace inaspettata: addirittura ho ripreso a dormire. Ho poi trovato il coraggio di chiudermi a chiave almeno di notte, nonostante mio zio mi avesse proibito da sempre di farlo. Infatti, non appena ha sentito lo scatto della serratura, s’è avventato sulla porta e ha cominciato ad alzare e abbassare forsennatamente la maniglia intimandomi di aprire. Allora, tutto il mio timore, tutto il mio tremore si sono trasformati in audacia. Ho acceso la luce, ho aperto il coltellino, l’ho impugnato e mi sono accorta che la sua lama era più lunga e aguzza di quel che sembrava a prima vista. Quindi ho girato la chiave e ho spalancato la porta. Quando mio zio ha visto quello che avevo in mano e che gli brandivo contro, è rimasto quasi intontito per lo sbalordimento. Poi ha lasciato cadere il suo bastone in terra, ha dato un atroce urlo quasi disumano ed è scappato via sbattendo furiosamente la porta di casa dietro di sé.

La mattina dopo ho ricevuto una telefonata da un ospedale: mio zio era stato investito da un’automobile in circostanze poco chiare. Ne aveva ricavato molte fratture ma la vita era salva.

È stato comunque costretto a una lunga permanenza in quell’istituto di cura: più di un mese. Io e mia zia che, intanto, era riapparsa lo abbiamo accudito in una vera e propria gara di affettuosità e tenerezze: lo pulivamo, gli portavamo da mangiare, lo vegliavamo per tutta la notte.

Dopo qualche tempo ha cominciato a rimettersi e a poco a poco è riapparso il suo proverbiale buonumore. Alla fine il medico ci ha annunciato che fra una settimana sarebbe tornato a casa.

La paura che avevo quasi completamente dimenticato è riaffiorata all’improvviso: mostruosa, dilagante. E cresce e mi tortura sempre di più man mano che s’avvicina il giorno in cui mio zio lascerà l’ospedale.

È già l’ultima notte. E tocca a me vegliarlo. Ma mi sono presa una piccola pausa per bere un caffè. Quando rientro nella sua stanza lo trovo addormentato. Ha un’espressione placida, soddisfatta; un vago sorriso sulle labbra. Lo guardo e riassaporo tutto l’amore che ho sentito e in parte ancora sento per quell’essere. Poi tiro fuori il coltellino, faccio scattare la lama e gliela affondo nel petto. Osservo affascinata una gran macchia scura dilagare sul suo ventre mentre lui storce orribilmente la bocca cercando di gridare.

Esco. Richiudo la porta dietro di me con un colpo forte, deciso, definitivo.

E mentre sto aspettando l’autobus per tornare a casa, mi accorgo con un certo stupore di non essermi mai sentita così infinitamente serena.


Biografia di Carlo Cenciarelli


 

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