BEATRICE MOGETTA, Nell’anniversario della nascita di Caravaggio

Nell’anniversario della sua nascita, nelle vesti della mia alter ego Camilla de Candey, intervisto l’immenso Caravaggio. Per chi come me vive a Roma, avere il privilegio di imbattersi in una tela del Caravaggio, non è difficile. Il grande pittore disseminò la città di capolavori. Oggi ne restano circa una ventina, e andarli a scovare tutti potrebbe essere il pretesto per un viaggio nella Città Eterna. Trovarli non è difficile, per vederne già sei, basti visitare tre chiese: San Luigi dei Francesi, Santa Maria del Popolo e la Basilica di Sant’Agostino; poi per le altre opere ci sono i grandi musei come la Galleria Borghese, i Musei Capitolini, quelli Vaticani, Palazzo Barberini e il Palazzo Doria Panphili. Proprio in quest’ultimo troviamo il primo quadro del Caravaggio con un soggetto religioso: Riposo durante la fuga in Egitto. Un’opera di Michel Angelo Merisi di Caravaggio, si riconosce al primo sguardo per la luce, che inondando i soggetti riesce a donare loro un aspetto all’occorrenza delicato e sereno o tragico e drammatico, peculiarità, queste, accentuate, quasi sempre, dalla contrapposizione con le tenebre degli sfondi.

Posso dire senz’altro che è il mio preferito in assoluto, con la sua veridicità, il suo fare da spartiacque tra la pittura classica e l’arte moderna. Adoro la forza che emana dalle sue opere, la loro energia: «Quando non c’è energia non c’è colore, non c’è forma, non c’è vita», ebbe a sostenere.
Questo artista che non ha lasciato altra testimonianza di se che i suoi capolavori, è stato definito “maledetto”. Molti altri pittori si sono conquistati questo appellativo. Il sacro fuoco dell’arte, il “genio”, pare si alimenti necessariamente di sregolatezza.

La vicenda umana di Caravaggio presenta ancora tanti lati oscuri, e ancora, negli ultimi anni, quattro università hanno finanziato inchieste e studi, per dipanare in qualche modo quelle ombre.
Per cercare di mettere un po’ di ordine nella sua storia, facciamo finta di intervistarlo, sulla base delle recenti scoperte.

Il vostro carattere, inquieto e rissoso, si manifestò in voi già in tenera età!

Si!

Lapidario e scorbutico. Anche nell’aspetto non dovevate essere rassicurante, intabarrato nel mantello nero, con quel cappellaccio, nero anche quello, in testa, seguito da un cane… nero anche lui.

Cornacchia, si chiamava Cornacchia. 

Arrivaste a Roma per “cambiare aria” in seguito ad alcune malefatte che vi furono attribuite.

Sì, e trovai una modo di dipingere che disprezzavo profondamente. Odiavo che la realtà venisse edulcorata. Per me la pittura doveva essere una copia del vero. 

È per questo che, sconcertando non poco la società dell’epoca, voi andavate a cercare i modelli per le vostre opere nei bassifondi, tra i ragazzi di vita e le prostitute?

Tutto in nome di un realismo assoluto. E comunque, sconcertati o no, i collezionisti si misero ad idolatrarmi, e dopo un primo periodo di miseria, cominciarono ad arrivarmi commissioni per opere “di storia”, il genere più prestigioso e difficile, dove dovevo usare contenuti nobili e altamente simbolici. 

Ecco quindi che voi inventaste un nuovo genere di pittura, dove lo spazio è né più e né meno una quinta teatrale, e la luce violenta che illumina i soggetti, rappresenta il punto culminante della storia che si sta rappresentando.

Esatto, Camilla. Io non mi riferii mai all’arte del passato: preferivo mettere i miei modelli in una stanza buia, con un’unica, scarna fonte luminosa, e restare a guardarli per ore.

I grandi successi professionali, non placarono però la vostra anima. Collezionaste denunce su denunce, e spesso finiste in carcere.

Carel Van Mander, che fu il primo a scrivere di me e che mi ammirava moltissimo, mi definì “grano e pula”. Il momento prima ero impegnato a studiare e dipingere e il momento dopo, armato di spadone, andavo in giro a fare baruffe. E a giocare alla “pallacorda”.

È appunto in uno di queste partite che vi azzuffaste con Ranuccio Tommasoni e lo uccideste.

Io ancora non mi spiego l’accanimento che Ranuccio da Terni mise nel contestarmi un fallo. Era un gioco, e non poteva essere per i 10 scudi in palio… ricco com’era. Mi conosceva, sapeva del mio caratteraccio violento. Perché provocarmi così?

E avvenne che vi condannarono a morte per decapitazione, sentenza che prevedeva che chiunque vi avesse riconosciuto poteva eseguire la condanna anche in mezzo alla strada.

L’avevo fatta grossa, e da allora la mia vita fu una fuga continua. Dovevo stare lontano dallo Stato Pontificio, ma avevo una grande nostalgia per Roma. Andai a Napoli, e lavorai moltissimo anche lì. La mia fama mi precedeva sempre. 

Due anni dopo il delitto.

L’incidente…

Va bene, voi andaste a Malta, dove vi avevano promesso il cavalierato. Diventare Cavaliere di Malta avrebbe potuto aiutarvi ad ottenere la grazia.

Ottenni un primo grado di cavalierato, ma poi…

Ma poi il vostro caratteraccio ebbe la meglio un’altra volta e foste imprigionato. In seguito evadeste, ma l’Ordine di Malta vi espulse “come un membro putrido e fetido”.

E non smisero di vendicarsi. Quando dopo Palermo raggiunsi Napoli, mi fecero un agguato nel quale rimasi col viso sfregiato. Sono sicuro che ad ordirlo furono loro. 

In quel periodo, per dirla alla maniera di oggi, dovevate sentirvi sotto forte stress. Si capisce dallo sconvolgente quadro che dipingeste in quegli anni, dove la testa mozzata di Golia, tutta insanguinata e con quell’urlo cristallizzato nell’espressione ultima, pare che sia il vostro autoritratto.

Dipinsi quel quadro per donarlo al Cardinale Scipione Borghese, nipote del Papa Paolo V. Speravo di ottenere il perdono. 

E qui arriviamo al mistero intorno alla vostra morte. È il 1610 e voi vi imbarcaste a Napoli per Roma. Avevate con voi delle opere che servivano per “comprare” la vostra riabilitazione. Che accadde?

Le storie intorno alla mia morte sono state scritte da Giovanni Baglione, in una biografia del 1642 e riprese dal critico Pietro Bellori. Il primo era un pittore di mezza tacca, invidioso, che ha voluto dare di me un’immagine denigratoria, e Bellori lo aiutò in questo progetto oltraggioso e calunnioso. Io in realtà, cercai di entrare nello Stato Pontificio senza clamori, mi era stata promessa la grazie, e sbarcai a Palo, un piccolo porto vicino a Ladispoli. Non so ancora la ragione ma venni arrestato e potei uscire solo dopo aver sborsato una grossa somma di denaro. Ma intanto la mia nave era salpata con tutti i miei bagagli a bordo, verso Porto Ercole. E con i quadri da dare al Cardinale.

È vero che voi correste sulla spiaggia come un folle per raggiungere la barca che era salpata?

L’immagine patetica di me che corro dietro alla nave, mi ha sempre disgustato. Certo che io volevo recuperare i miei averi, e cercai di farlo in tutti i modi. Ero disperato e fuori di me per la perdita delle mie cose, ma la mia agonia sotto quel sole cocente che avevo evitato di ritrarre tutta la vita non corrisponde al vero. Baglione e Bellori intendevano punirmi inventando una morte miserabile e in solitudine, per la mia vita ribelle e perché, secondo loro, avevo compromesso l’immagine dell’arte italiana con le mie rappresentazioni scure e volgari. Poiché evitavo di dipingere sereni cieli e nubi dorate, i due dicevano di me che “non sapevo uscir fuori dalle cantine” e che a causa mia, molti artisti che mi imitavano, dipingevano, anche loro, “cose vili… sozzure e deformità”. 

Da poco pare siamo stati trovati i vostri resti. Le ossa sono piene di piombo. Quello dei colori?

Allora gli effetti del piombo sulla salute non si conoscevano. Goya pare bagnasse il pennello mettendolo in bocca. Morì proprio per questo. E forse anche io. Le mie ultime opere comunque scomparvero. Anche se pare che il Cardinale, tempo dopo, quella a lui destinata, la ricevette.

Ancora non è chiaro dove moriste.

Che importanza ha ormai. Forse la malattia che mi colpì, impedì che io cadessi vittima di un complotto di stato, dove i committenti potevano essere diversi.

Vorrei sorvolare sulla vostra mania di accompagnarvi a giovani che poi ritraeste, come dice Sgarbi, in pose allusive e lascive, un Pasolini “ante litteram” che, come qualcuno pensa, potrebbe aver fatto anche la stessa fine, ma sono convinta che tutto è stato usato contro di voi in un processo per oltraggiare e denigrare la vostra vita e soprattutto la vostra arte. L’impegno dei vostri detrattori fu premiato, e dopo tanta celebrità in vita, cadeste nell’oblio, per secoli. Solo a metà del XX secolo si ricominciò a parlare della vostra grandezza e dell’importanza che aveste nell’influenzare l’arte a venire. Qualcuno ha affermato che Ribera, Vermeer, La Tour e Rembrandt non ci sarebbero stati, senza di voi, e che la pittura di Delacroix, di Coubert e di Manet, sarebbe stata completamente diversa.

Meglio tardi che mai.

Scorbutico fino alla fine. Ma a me non resta che inchinarmi davanti a cotanto genio, e a rammaricarmi della durata troppo breve della vostra impetuosa vita. Che è una di quelle che hanno il potere di far sembrare le nostre, quelle di noi comuni mortali, dipinte con le tinte sbiadite di acquarelli troppo annacquati.

Addio Camilla. 

Addio Maestro. Rimarrete sempre dentro di me a scuotere con i vostri forti contrasti di luci e tenebre la mia anima.


 

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