PAOLO ALLEGREZZA, La neoavanguardia napoletana tra arte e poesia verbo visiva (1958 – 1980)


Gli inizi

Il manifesto della pittura nucleare, scritto da Enrico Baj e Sergio D’ Angelo in occasione della mostra di lancio del movimento (Bruxelles, 1952) è al contempo atto di accusa nei confronti delle prime avanguardie e ripresa di un tema profondamente novecentesco quale la reinvenzione della pittura.  Costituisce l’atto fondativo del secondo ciclo delle avanguardie il Italia, ispirato al ripensamento dei modi e delle forme dell’arte che, pur tenendo in conto la lezione Dada e Surrealista, intende superarla in nome di un rinnovato rapporto critico con la realtà. La medesima assunzione di responsabilità la troviamo, pur nella molteplicità delle tendenze che segna la stagione dell’informale, nel lavoro di Burri o nello spazialismo di Fontana. L’elemento comune è il richiamo ad una presa di responsabilità che si proclama non solo estranea alla ratio occidentale, ma considera inadeguate le stesse pratiche dadaiste e surrealiste. La centralità assunta dai materiali, la negazione dell’opera sostituita dal suo farsi, la volontà di affermare la nuova verità dell’umano contenuta nell’atomo, sono l’espressione di una nuova consapevolezza dell’artista, radicata in un presente erede degli orrori della guerra e segnato dal nuovo equilibrio nucleare. Ne derivano forme che richiamano il fungo atomico, come in Bum, l’opera manifesto di Baj in occasione della mostra del ‘52, la disintegrazione materica di D’Angelo, i crateri di Colombo che aderì al movimento nel ‘55. I nucleari si andavano ad inserire nel dibattito in corso tra il Bauhaus immaginista sostenuto da ex esponenti del gruppo CO.BR.A., che si muoveva nel solco del primitivismo astratto e dell’action painting all’insegna di una pittura di forte impronta allegorica e il nuovo Bauhaus di Ulm fondato da Max Bill, fautore del funzionalismo in architettura e nel design, lontano dalla ricerca artistica. Si sviluppa un percorso alternativo a quello dell’astrattismo geometrico alla Mondrian che, nei decenni successivi, costituirà una dei percorsi della ricerca artistica in Occidente (Vasarely, Stella, Scully). I nucleari rileggono i maestri dadaisti e surrealisti (Ernst, in particolare) non trascurando espliciti richiami a Pollock, all’espressionismo astratto, all’arte giapponese. Considerano indispensabile l’apertura al plurilinguismo, unico in grado di rendere quel grado di intensificazione cui la percezione è sottoposta nell’era nucleare.  Ne scaturisce un’arte di opposizione, volta alla sovversione dei tradizionali percorsi di fruizione (mostra, critica, mercanti) che tendevano a confermarne la riproduzione mercantile. Di qui la destituzione dell’ultimo baluardo dell’arte: lo stile.  Il rifiuto della codificazione, la rivendicazione del gesto come espressione dell’inconscio collettivo, l’opera come esclusivo documento del fatto artistico, chiariscono il percorso di destrutturazione su cui, alla metà dei ’50, si attestano i nucleari (Per la scoperta di una zona d’immagini, manifesto 1956). Il manifesto contiene anche un inedito richiamo al mito, al recupero di un alfabeto di immagini vergini, auto giustificate ed in quanto tali in grado di affermare una vitalità gioiosa; tema quest’ultimo che ritroveremo, come vedremo, nel lavoro del Gruppo ’58. Sono i prodromi del manifesto Contro lo stile (1957, firmato tra gli altri da Baj, D’Angelo, Colucci, Bemporad, Sordini, Verga) che proclama l’esaurimento dell’esperienza nucleare e rivendica la “presenza”, intesa come semplice atto, contro ogni tentazione celebrativa.

          Già l’impressionismo liberò la pittura dai soggetti convenzionali; cubismo e futurismo a loro volta tolsero l’imperativo della imitazione oggettiva e venne poi l’astrazione per dissipare ogni residua ombra di una illusoria necessità di rappresentazione. L’ultimo anello di questa catena sta per essere oggi distrutto: noi nucleari denunciamo oggi l’ultima delle convenzioni – lo stile. Noi ammettiamo come ultime possibili forma di stilizzazione le “proposizioni monocrome” di Yves Klein: dopo di ciò non resta che la “tabula rasa” o i rotoli di tappezzeria di Capogrossi. Tappezzieri o pittori: bisogna scegliere. Pittori di una visione sempre nuova e irripetibile “commedia dell’arte”. Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come “presenza modificante” in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze.

L’accusa di accademismo che i nucleari rivolgono alle prime avanguardie coglie nel segno quando allude al processo di musealizzazione subito dai vecchi leoni degli anni ’20 ed ha il merito di una ulteriore radicalizzazione senza mai indulgere in tentazioni linguisticamente regressive.

Emerge la ben nota asimmetria, molto italiana, tra un dibattito artistico che dava per scontato il superamento della rappresentazione e una scena letteraria che negli stessi anni scontava ancora l’ipoteca neo realista. «Il Verri» inizia le sue pubblicazioni nel ’56, stesso anno di uscita del Laborintus sanguinetiano, richiamando finalmente l’attenzione su psicoanalisi, fenomenologia, strutturalismo. Sarà merito del nucleo di critici e poeti raccolti intorno ad Anceschi affermare la centralità della ricerca linguistica e la necessità di superare le ipoteche liriche e realistiche ancora egemoni nella letteratura italiana. L’incontro con i nucleari (o per meglio dire i post) è la conseguenza di quella poetica della realtà che rifiutava il realismo e la mistificazione implicita che ne derivava; ma poneva l’esigenza di far parlare con un linguaggio e modalità del narrare che ne rendessero l’irriducibile novità. Non a caso anche i poeti fanno riferimento al gesto e, come scrive Giuliani, “all’immediatezza del risultato”, secondo quella impostazione anti contenutistica che era stato uno dei punti fermi dei nucleari (A. Giuliani, 1965). Il lavoro della neo avanguardia letteraria rimanda all’oggettivismo freddo à là nouveau roman in cui lo spiazzamento consiste nel gesto, nell’anti narratività, nell’enucleazione di un vissuto scevro da adesioni emotive. Beckett e Robbe Grillet, la lettura in chiave anti romanzesca di Gadda, l’esperienza del tedesco Gruppo ’47 sono i riferimenti da cui partono novissimi e Gruppo ’63. Gli artisti andavano esplorando piste di lavoro diverse. Nel manifesto di Albissola (1957) firmato da Biasi, Colucci, Manzoni, Sordini, Verga, si proclama “la follia di un idealismo puro senza un’origine concreta o umana”. La pratica dell’astrazione, fondamentale nel lavoro della neoavangardia letteraria, è vista dagli artisti come un ostacolo “all’affermazione delle emozioni più intime della nostra coscienza”. Da una parte un lavoro sul linguaggio che annunci la possibilità “di creazione di un nuovo organismo morale”, dall’altra la ricerca di una scrittura finalmente immune da modelli para ottocenteschi. Una tensione cui di lì a poco Sanguineti darà una risposta teorizzando il nesso tra ideologia e linguaggio, ma destinata ad emergere pochi anni dopo, segnando l’esaurimento della esperienza di «Quindici» (1969). Da una parte la consapevolezza della necessità di coniugare pratica letteraria e politica, dall’altra la rivendicazione dell’autonomia della scrittura.

Fin dagli anni ’50, è evidente la pluralità dei percorsi che distingue la prima dalla seconda stagione delle avanguardie: si pensi, in poesia, alla differenza tra le pratiche di assemblaggio di Balestrini e l’oggettivismo di Giuliani o Porta o al neo espressionismo di Baj di contro al recupero dadaista di Manzoni. Una ricchezza di percorsi confermata dall’ingresso nel circuito neo avanguardistico degli artisti napoletani. Il legame tra Milano e Napoli è forte fin dalla fondazione del gruppo concretista napoletano nel ’54, il cui manifesto, firmato da Barisani, De Fusco, Tatafiore, Venditti, rimanda ad un nuovo astrattismo in grado di rappresentare la realtà fuori dei cerebralismi delle esperienze primo novecentesche. Si tratta di un annuncio della “nuova figurazione” (ancora Sanguineti) che pochi anni dopo segnerà la poetica della neo avanguardia artistica napoletana.  Ma si consolida con la nascita del movimento nucleare, allorché Biasi e Colucci si recano a Milano per incontrare Baj e pongono le premesse del futuro Gruppo ’58 (Luigi Castellano, Luca, Guido Biasi, Mario Colucci, Bruno Di Bello, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Mario Persico). Un percorso segnato dall’adesione dei napoletani al movimento nucleare e ai suoi sviluppi nel corso degli anni ’50, come dimostra la comune elaborazione dei tre manifesti del ’57: “Per una pittura organica”, “Contro lo stile”, “Albissola Marina”. Ma l’interesse per l’avanguardia a Napoli risale ai decenni precedenti, pur se è impossibile stabilire un legame tra quelle lontane esperienze e la nuova generazione formatasi nel dopoguerra.

Tra la fine degli anni ’20 e l’inizio del decennio successivo, la città era stato teatro di un intenso attivismo riconducibile al secondo futurismo. Lo stesso Marinetti si recò più volte a Napoli e diede pieno appoggio al movimento. Carlo Cocchia, Antonio D’Ambrosio, Emilio Notte, Guglielmo Pierce, Mario Lepore, Pepe Díaz, Gildo De Rosa costituirono un gruppo di giovani che, a distanza di vent’anni, avevano preso il testimone della prima ed effimera stagione del futurismo napoletano. Il manifesto dei pittori circumvisionisti, firmato nel ’28 da Cocchia, D’Ambrosio, Peirce, affermava il bisogno di un ritorno alla rottura con la retorica sentimentalista in nome di un nuovo oggettivismo in grado di cogliere il reale circumvisionisticamente: nella sua interezza, compreso l’utilizzo delle più diverse tecniche espressive. Al neo cubismo di Cocchia e Lepore, si affiancarono l’espressionismo di Pierce e Paolo Ricci, il surrealismo “lunare” di Pepe Diaz, in tutti i toni cupi cari alla “oggettività tedesca”. Nel ’29 fu pubblicato, firmato da Carlo Bernard, Peirce, Ricci, il manifesto dei Distruttivisti Attivisti, gruppo che si collocava anch’esso nell’ambito di un rilancio del futurismo; tuttavia aperto ‒ come dimostra la presenza di Bernard che quattro anni dopo, con lo pseudonimo di Bernari, pubblicherà Tre operai ‒ ad un intervento politico, seppure dietro lo schermo dell’arte, della letteratura, dell’architettura (Luigi Cosenza). Il destruttivismo rimanda al perenne movimento che caratterizza l’arte e al rifiuto di leggerla secondo le lenti dell’idealismo, da cui consegue l’inevitabile polemica anti crociana. Il macchinismo futurista è declinato entro un impianto che non risparmia critiche allo stesso Marinetti, pauroso “di eliminare il senso del divino” e si identifica in un materialismo profondamente estraneo alla retorica del regime. Il binomio avanguardia – politica è, quindi, tutt’altro che ignoto alla cultura artistica napoletana degli anni ’50, grazie anche al lavoro svolto all’Accademia di Belle Arti per più di un trentennio da Emilio Notte, di cui Biasi, Colucci, De Pezzo, Rotella furono allievi. Tuttavia, non vi fu un reale continuità tra i due momenti. Il secondo futurismo napoletano, causa la dispersione dei suoi componenti, può dirsi esaurito già nel ’33 e destinato ad un rapido oblio; nel ventennio successivo la scena napoletana sarà dominata dal più vieto conformismo (L. Vergine, 2018, pp. 43 – 45).

Così la ripresa di una tendenza d’avanguardia non poteva che venire dall’esterno e dal doppio legame che i napoletani instaurano con i nucleari e con le più avanzate esperienze europee del tempo. Il punto di contatto con i nucleari è nel comune interesse per un’arte allegorica, profondamente calata nel proprio tempo dal quale l’artista non depone la sua necessaria assunzione di responsabilità. Al fondo vi è il rifiuto della neutralità dell’artista e della sua riduzione ad innocuo facitore di segni. Di qui l’uso, scevro dall’alfabeto realista, della figurazione e di un’arte esplicita che non rifiutasse, come insegnava Baj, l’adozione di moduli didascalici. Nelle figure allegoriche di Biasi e Persico, espressioni di un neo figurativismo debitore del folklore meridionale e immerse nel lascito dada e surrealista, si misura una distanza profonda dal realismo socialista, allora sostenuta dal PCI. In Ideologia e linguaggio (1965), Sanguineti, il più assiduo compagno di strada degli artisti napoletani, chiarirà il legame tra avanguardia artistica e sovversione: l’operazione sul linguaggio procede di pari passo con la destituzione dei consolidati rapporti di forza nel campo sociale. I nucleari e i napoletani lo capirono prima di altri ed ebbero il merito di ripensare pratiche come il collage o il ready – made in una chiave non meramente emotiva ma in grado di attivare nuove associazioni e significati. Non è un caso che lo stesso termine avanguardia sia messo in discussione ‒ come si legge nell’editoriale di apertura di “Quaderno” (1962), la rivista diretta da Mario Diacono e Stelio Maria Martini ‒ perché evocativo di una pratica puramente oppositiva. Conseguenza di questa ricchezza di percorsi è la presenza a Napoli non di un gruppo d’avanguardia, ma di un vero e proprio movimento che coinvolse artisti e poeti verbo visivi appartenenti a diverse generazioni in una pratica di ricerca e di opposizione che si sviluppò lungo almeno due decenni.

La convergenza fra artisti e letterati si formalizzò per la prima volta nel Manifeste de Naples (1959), ma era ampiamente praticata nella redazione di «Documento – Sud». Firmato, tra gli altri, da Balestrini, Paolazzi, Sanguineti, Del Pezzo, Persico, Biasi, Baj, Fergola contiene un violento attacco all’astrattismo accusato di ridurre l’arte a convenzione intellettuale; “un neo neoplatonismo”, incapace di interpretare il presente e ormai privo di forza vitale. È l’alternativa all’astrattismo in nome della poetica della materialità dell’arte su cui da tempo si era concentrato il dibattito dei post nucleari e che qui si manifesta nella felice allegoria del Vesuvio, fonte di nuova energia.

Siano le nostre opere meteore, lava e lapilli, polvere cosmica, carburo in accensione, orbite di violenza, traiettorie di sensi, intuizioni radioattive, zolfo, fosforo e mercurio…

Ma non fu un inizio, lungo tutto il decennio gli artisti napoletani avevano tenuto i contatti con riviste quali «Phases» (Parigi, 1952), «Edda» (Bruxelles, 1957), «Panderma» (Basilea, 1950), vicine al gruppo CO.BR.A. e incubatrici del movimento situazionista. A Napoli la poesia visiva nasce dal lavoro comune tra artisti e poeti del Gruppo ’58 che consideravano il loro lavoro estraneo a distinzioni disciplinari, nonché dall’attivismo di Luigi Castellano (Luca), figura fondamentale nella vicenda della neo avanguardia napoletana.

 

Per un’arte totale

Il lavoro di questi anni trova una sintesi in «Documento – Sud», la rivista che tra il ’59 e il ’61 diede voce al Gruppo 58 e ne definì la poetica. Il motore della rivista è Luca, cui nel numero d’esordio si deve l’editoriale di apertura che ne riassume il progetto. Divulgare le forme più vive ed attuali dell’arte che vuole misurarsi senza infingimenti con la vita contemporanea. Se si mettono a confronto il testo di Luca e l’introduzione ai novissimi scritta due anni dopo da Alfredo Giuliani, sono evidenti le consonanze. Bersagli polemici dei poeti erano il sublime e il neorealismo, bersaglio degli artisti l’accademismo da cui non era immune la stessa avanguardia. Di qui il legame tra il Gruppo ’58 e Sanguineti che dei novissimi era il più disponibile ad entrare in sintonia con quell’idea di avanguardia come cambiamento della vita che Luca assegna alla missione di «Documento – Sud»; ne deriva che più che di Gruppo ’63 sarebbe corretto parlare di rapporto tra il movimento napoletano e Sanguineti.

Il palombaro e la sua amante è il primo di una serie di testi che negli anni Sanguineti dedicò agli artisti del Gruppo ’58 (Sanguineti, 2004). Facendo ricorso al plurilinguismo (latino, francese, tecnicismi, lingua corrente), Sanguineti interpreta il carattere onirico della pittura di Biasi, immaginandolo protagonista di un sogno nel quale si immerge come un demone nelle profondità dei mari; ma, commenta il poeta, il senso non è decifrabile, rimane solo l’ironico richiamo alla speranza di animare l’inanimato. Lo stesso Sanguineti dedica alla nuova figurazione un articolo su «Il Verri» (12/63) nel quale ricostruisce la continuità tra nucleari milanesi e napoletani, individuando nel lavoro comune condotto nei secondi ’50 il passaggio dalla fase della “pre figurazione” a quello della “nuova figurazione”. La creazione di un nuovo alfabeto, consapevole della sua collocazione storica e culturale, ormai liberato dai primitivismi, dal culto dell’incontaminato, da un certo infantilismo presente nella prima stagione nucleare. È chiaro che qui Sanguineti, peraltro senza alcuna forzatura, coglie un’evoluzione cara alla sua poetica della consonanza tra ricerca e critica del presente e non può che condividere la declinazione dell’informale proposta da questa nuova generazione di artisti. Così come ci sembra colga nel segno quando individua l’esibita napoletanità, in particolare di Luca e Persico, come una delle qualità del gruppo, in quanto «un ostinato attaccamento ad un luogo, a quello strano spazio mitico e concreto esaltante e ossessivo che è Napoli, possa essere, più che un motivo di forza, addirittura una condizione per certi aspetti di assoluta autenticità». Giudizio che spiega anche l’interesse per i napoletani a scapito di altre esperienze coeve, come la nuova scuola romana, le cui influenze rimandavano alla pop art.

Il secondo numero di «Documento – Sud» propone in apertura un auto collage di Luca, Napulione e’ Napule costruito sulla sovrapposizione del viso dell’artista, avvolto in una nuvola di sfregature che evocano l’eruzione del Vesuvio, mentre nella parte inferiore è riportata una cartolina convenzionale raffigurante il paesaggio cittadino. Segue un’invettiva all’insegna della rivolta necessaria innescata dalla pratica artistica:

DOCUMENTO – SUD è il DOCUMENTO di un SUD insoddisfatto. Napoli e tutto il sud sputano il loro DOCUMENTO. DOCUMENTO – SUD è un DOCUMENTO di smania. DOCUMENTO – SUD è il tic nervoso della protesta, è il vizio del pericolo, l’abuso del rifiuto.

Mario Persico parla della necessità di un’etica dello scandalo da praticare utilizzando “la ridicolizzazione del serio” senza annullare lo spirito di rivolta teso ad innescare un sommovimento “verso l’inesauribile magia dell’ignoto”. Non si tratta di definire canoni estetici ma attivare “la reversibilità delle forze k di ricerca” in architettura e in arte, come conferma la non meno esplicita condanna della scultura contemporanea contenuta in un articolo di Guido Biasi nella rubrica Invettive. Nella sezione dedicata alle opere del Gruppo 58 compaiono un testo di poesia visiva di Marcello Andriani e due testi di Eduard Jaguer, poeta e critico d’arte componente del gruppo CO.BR.A., insieme alle “macchie” di Persico e Colucci di impostazione nuclearista, ai segni di Del Bello espressione di una ricerca legata all’informale, al neo primitivismo di Biasi e Fergola. La rivista – documento lavora su una proposta tutt’altro che monocorde sul piano dei linguaggi, ma che non rinuncia ad una esplicita e condivisa scelta di campo estetica e politica. Di qui, la differenza tra “nostra avanguardia e la loro”, come ricorda l’editoriale di Luca in apertura del terzo fascicolo. Da una parte l’avanguardia ufficiale, innocua perché “dietro un’apparente virilità di pensiero e d’azione cela interessi disseminati di singoli o di gruppi disseminati come pidocchi sull’epidermide del mondo”; dall’altra l’avanguardia documento forte del suo essere “anti tutto” ma consapevole che essere “guappi di cartone” è meglio che essere artisti disonesti.  Guappi che scelgono di immergersi nel folklore e nello spirito religioso come se l’artista dinamitardo utilizzasse la nitroglicerina per far emergere quei residui dimenticati che, una volta saliti alla superficie, possono scomporre il reale (Delau, D.S., 3/60). È proprio questa “imaginerie cosmica” ad individuare un filo conduttore nella pittura dei napoletani, il cui timbro mischia il tragico e il riso seguendo una stratificazione che in alcuni opere (Biasi) rimanda ad Arcimboldo; così la serie “umour anatomico” di Del Pezzo, i collages di Luca, la simbologia reinventata di Biasi, i vortici di colore di Colucci, le sculture evocanti il primitivo di Venditti. Assunto anti specialistico che porta a pubblicare un lungo pezzo dedicato ad Homar Khayyam, un mistico persiano dell’XI secolo riferimento del sufismo, la stroncatura della nouvelle vague indicata, al pari di tutto il cinema contemporaneo come un prodotto industriale, un proclama – elogio di Sant’Elia a firma di Luca (D.S., 4/60). Tutto ciò è lo specchio della contraddizione feconda tra spirito iconoclasta e volontà di denuncia che attraversa il movimento napoletano e che emerge negli interventi teorici di Luca, Persico, Biasi, Andriani.

L’incontro con i futuri “novissimi” trova così i napoletani già preparati, il primo poema – collage ad opera di Persico e Del Pezzo è pubblicato da «Documento – Sud» nel 1960 (Martini, 2001, p. 25). Il lavoro sulla poesia visiva è uno degli elementi qualificanti il Gruppo ’58, «Documento – Sud» e, soprattutto, la successiva «Linea Sud». La rivista pubblica in ogni numero poesie visive: S.M. Martini, Kurt Leonard, Egito Goncalves, Luca. Si determina in questa fase la presa di distanza nei riguardi del Gruppo ’63 e la teorizzazione di una poetica all’insegna dell’arte totale legata al lettrismo e al situazionismo (Caruso, Martini, Diacono).

Uno dei protagonisti di quella stagione, a cavallo tra sperimentazione visiva e poesia, Stelio Maria Martini, ha indicato nel genovese Gruppo studio un’esperienza simile a quella napoletana proprio grazie alla comune carica anti establishment e ha espresso un giudizio piuttosto liquidatorio nei riguardi del Gruppo ’63, rilevandone la deriva “mondana e salottiera” (Martini, 2001, p. 26). Si profila una divaricazione fra due modi di essere avanguardia, uno incline alla conquista dell’egemonia culturale e destinata ad inserirsi nei ruoli di potere dell’industria culturale; l’altro volutamente marginale, incline a scelte di vita all’insegna della non integrazione. Nel Gruppo ’63 questa seconda opzione fu interpretata da una componente laterale che si raccolse in una seconda fase nell’esperienza del Mulino di Bazzano (Spatola, Niccolai, Costa, Vicinelli), mentre nel caso dei napoletani costituì la ragione d’essere dell’intero movimento. I primi tre fascicoli di «Linea Sud» sono dedicati alla poesia visiva, alla pittura e alla poesia concreta allora in voga in Germania e America latina. A conferma dei due elementi che caratterizzano l’esperienza napoletana: il respiro europeo, per cui sarebbe da rivedere la celebre osservazione arbasiniana sull’incapacità degli intellettuali italiani di varcare il confine di Chiasso e la coincidenza tra lavoro artistico, letterario e politico. Esaurita la parabola del Gruppo ’58, causa l’allontanamento da Napoli di Del Pezzo, Fergola, Biasi, inizia un’ulteriore fase di espansione del movimento che, caso piuttosto unico, percorre il successivo ventennio.

«Linea Sud», la rivista diretta da Luca di cui tra il ’63 e il ’67 uscirono sei fascicoli, è il risultato di questa ulteriore fase segnata dalla tensione verso l’arte totale. Biasi compare come corrispondente da Parigi, Balestrini da Milano, Diacono da Roma, Persico, Martini, Colucci intervengono regolarmente.

La rivista sviluppa una linea più esplicita rispetto a «Documento – Sud» di cui riprende lo spirito combattivo ed il respiro internazionale, adattandolo, però, a scelte editoriali più mirate. La continuità con la precedente rivista è resa dal medesimo sottotitolo della testata che si limita ad aggiungere l’aggettivo nuova alla dicitura “rassegna d’arte e d’avanguardia. Nel primo numero l’editoriale di Luca rivendica la continuità con «Documento – Sud», ma menziona la volontà di costruire una rivista che affronti «più vasti, acuti e circostanziati problemi della cultura attuale». Una “linea” che declini in modo chiaro la poetica del movimento, in quanto espressione di quell’idea di avanguardia che considera inscindibile il binomio tra cultura di opposizione e rinnovamento del linguaggio. Una via napoletana all’avanguardia in cui “i Nuovi del sud”, si candidano al ruolo di protagonisti dell’arte e della cultura italiane attuali. Una consapevolezza del proprio ruolo cui corrisponde un esibito radicalismo. Stelio Maria Martini («Linea Sud», 1/63) liquida la rappresentazione dell’alienazione proposta dalla letteratura industriale, in un articolo non firmato (probabilmente di Luca) è condannata la deriva commerciale del cinema, cui è contrapposta l’opera di Eisenstein.  Una linea radicale che non dà credito a poetiche anti narrative e vertoviane, pur presenti nell’esperienza del nuovo cinema francese (Godard, Rouche).

A dimostrazione di come l’avanguardia semini i suoi frutti al di là di vincoli generazionali, un articolo del ’74 a firma del gruppo Continuum, nato dall’esperienza di «Linea Sud», dal titolo inequivocabile di “Per un azzeramento del cinema”. Vi si parla di abolizione della nozione di autore, superamento dei ruoli, caduta del diaframma fra schermo e spettatore, uso generalizzato della cinepresa, superamento delle estetiche cinematografiche considerate fattore di conservazione (ALC, Continuum, pp. 108 -110).

A fronte di queste premesse non stupisce la dura polemica pubblicata sul n. 1 bis di «Linea Sud» tra Biasi e Martini. L’occasione era stata la mancata pubblicazione, “dittatura di redazione” la definisce Biasi, del materiale raccolto da quest’ultimo a Parigi. Lo scontro nasce da due diverse concezioni del ruolo della rivista. Biasi ricorda come «Linea Sud», a dispetto del nome, avrebbe dovuto essere una rivista di documenti con una forte vocazione internazionale, a differenza di «Documento – Sud» che, al contrario, era stata rivista dal forte orientamento ideologico. Di qui l’accusa di provincialismo rivolta alla redazione che pretenderebbe di fare una rivista d’avanguardia quando quest’ultima “puzza come un pesce andato a male”. La polemica è un frutto tardivo della divisione che aveva attraversato il Gruppo 58 tra chi aveva scelto Napoli e il sud nel segno dell’avanguardia (Luca, Persico) e chi (Biasi, Del Pezzo) aveva preferito andare via sviluppando una linea di lavoro non più di gruppo. Si afferma un’idea dell’avanguardia non come pratica di una forma d’arte, ma come sperimentazione di nuove forme di vita. Stelio Maria Martini ne è il più esplicito sostenitore. Un suo articolo apre il n. 1 bis con una analisi del concetto di schema, dal titolo della sua prima raccolta in versi, inteso come produzione intuitiva propria della comunicazione simbolica che realizza il massimo dell’immediatezza possibile. Lo schema riesce a riprodurre la struttura stessa della mente superando la vocazione avanguardistica allo scandalo, innescando una produzione di soggettività alternativa. Per Martini portare allo stremo la radicalità del linguaggio, vuol dire creare le condizioni per liberare l’energia sovversiva della psiche. Influenzato dalla lezione della Gestalt, teorizza un’arte totale che produca modelli percettivi (schemi) che, passando per l’inconscio, guidino il pensiero.

«Linea Sud» è anche testimonianza di un’evoluzione nella poetica di Luca che, dall’impostazione meramente dada degli anni precedenti, passa all’idea di avanguardia come strumento di intervento politico da attivare grazie alla promozione di nuovi artisti e, naturalmente, gruppi. Un giardino privato e immaginario, come lo definì Biasi (L. S., 1 bis/64), in cui convivono barocco e avanguardie storiche dentro una sensibilità fortemente legata alla napoletanità e, in particolare, ad uno dei suoi codici originari: il barocco. Una pittura legata all’immaginario visivo della tradizione popolare utilizzata, tuttavia, in chiave problematica e sempre più esplicita nella sua polemica. Si manifesta uno degli elementi di continuità del movimento napoletano in grado di attivarsi fino alla successiva generazione di poeti (Baino, Cepollaro, Ottonieri, Voce) che, tra il ’90 e il ’96, daranno vita alla rivista «Baldus». Ripresa della tradizione popolare di cui sono rovesciati i richiami più convenzionali, plurilinguismo, rifiuto del lirismo, pratica collettiva, funzione oppositiva dell’arte, costituiscono i fondamenti di una poetica che ha nel lavoro iniziato negli anni ’50, le sue origini.

Centrale in tutta questa vicenda è la figura di Luca, in quanto in grado di unire una sua produzione artistica, lavoro teorico, ideazione e gestione di gruppi, riviste, mostre. Attivo dagli esordi del Gruppo ’58 fino al limite degli anni ’80, allorché l’idea della corrispondenza tra lavoro artistico e militanza conobbe un inevitabile stop. Luca rimase sempre fedele alla militanza nel PCI, pur con evidenti segni di eterodossia, testimoniando una scelta d’avanguardia tutt’altro che facile da sostenere in quel contesto. La cifra della sua figura è nell’adesione ai principi della patafisica attivati nella pratica dello shock suscitato dal rovesciamento di senso. I materiali più diversi, di qui la predilezione per la pratica dada del collage, sono utilizzati per disarticolare percezioni consolidate e, soprattutto, quella tradizione napoletana fatalista e rassegnata che in quegli anni trovava una sua pur nobile espressione nel teatro di Eduardo. La scienza delle soluzioni immaginarie diviene lo strumento ideale per affermare l’adesione e la contemporanea destituzione di certa napoletanità di cui, negli anni successivi (’84), Luca doveva affermare il patafisico superamento creando con Giuseppe Capasso, Emilio Capolongo, Emilio Villa il movimento dei nopoletani (la Repubblica, 2007). La sostituzione prefissale alludeva, secondo un classico capovolgimento patafisico, alla reinvenzione di Napoli (nous, intelletto filosofico) come luogo in cui, attraverso l’arte liberata da ogni solipsismo, sperimentare forme di vita liberate. La patafisica forniva la strumentazione per praticare lo spiazzamento in modo non irrazionalistico, come spesso nelle avanguardie, ma calandolo a suo modo nella realtà, non per descriverla ma per pensarla. Un’operazione alternativa a quella della Pop art che, al contrario dell’avanguardia, alla critica e alla destituzione dell’immaginario consumistico, prediligeva la riproduzione seriale. Lontani i napoletani erano anche dalla sperimentazione romana che negli anni ’60 (Angeli, Schifano, Fioroni) aveva sviluppato una sua via al pop. Se si vogliono trovare elementi di contatto con la ricerca italiana del periodo, il riferimento non può che essere all’arte povera, nella quale si ritrova la medesima istanza critica nei riguardi della mercificazione dell’arte.

Il primo dei gruppi promossi da Luca è l’NA/6, (A. Dentale, Gennaro, P. Lista, M. Longo, S. Piersanti, Torre) che nel ’62 raccoglie giovani artisti provenienti dall’Accademia di belle arti su una poetica in continuità con il Gruppo ’58 approfondendo quella via meridionale all’avanguardia che, secondo Luca che ne firma il manifesto, mira a “creare immagini della nostra civiltà”. Seguono Operativo Sud ’64 (A. Dentale, G.B. Nazzaro, Ray Pattison, G.B. Del Pozzo, A. Bonito Oliva, F. Piemontese, A. Carlini), in cui l’accento militante richiama, a partire dal nome del gruppo, un intervento attivo degli artisti, Gruppo Studio P. 66 – La Comune 2. Esperienza quest’ultima volta ad uscire dalla logica del gruppo ristretto per lanciare l’idea di una comunità artistica, protagonista di un più generale movimento di rivolta meridionale. Fino a giungere all’esperienza liminare della Prop art (’73 – ’75) in cui la pratica artistica diviene elaborazione collettiva al servizio della militanza politica. Il gruppo segna il superamento della figura dell’artista come soggetto autonomo il cui posto è preso da una voce collettiva, come nel caso della sala allestita per la Quadriennale romana del ‘75 con trenta bandiere rosse ciascuna firmata da un artista diverso.

«Linea Sud» sviluppa l’interesse alla commistione, come abbiamo visto già presente in «Documento – Sud», nel senso del superamento delle differenze tra linguaggio dell’arte e della poesia, tema sviluppato dal gruppo Continuum che fa il suo esordio con un’apposita sezione di “parole disegnate”, nell’ultimo numero di «Linea Sud». In questo senso va letta la pubblicazione, nel secondo numero del ’65, del fascicolo di poesia visiva Poiorama, raccolta di testi presentati al convegno di Reggio Emilia (1964) del Gruppo 63 che precedettero la pubblicazione del primo libro di poesia visiva curato da Lamberto Pignotti. L’intenzione del fascicolo era di raccogliere le diverse esperienze che nell’ambito della poesia visiva si erano andate sviluppando nel corso degli anni precedenti: il gruppo genovese di Luigi Tola, quello fiorentino di Pignotti e Miccini, la ricerca sulla poesia concreta di Lora Totino, il lavoro che proprio in quegli anni stava iniziando Spatola, le sperimentazioni di fine anni ’50 di Luca, Persico, Martini.

 

Da Continuum ad E/mana/azione

Nei due ultimi numeri di «Linea Sud» (1967) fa la sua comparsa una sezione denominata Continuum contenente testi di poesia visiva curati da Martini e Caruso. È l’esordio di uno spazio aperto di ricerca verbo visiva che negli anni successivi, fino ad «E/mana/azione» (1981) segna l’esperienza del movimento napoletano nella sperimentazione di un linguaggio unico delle arti. Protagonisti di questa fase sono Luciano Caruso, Stelio Maria Martini, Mario Diacono.

Dopo la chiusura di «Linea Sud» si apre una nuova stagione che vede la presenza di due tendenze che fino ad allora avevano convissuto dentro la rivista; da una parte Luca radicalizza la sua poetica nel senso della pratica artistica come esperienza collettiva e politica, dall’altra Continuum, vicino alle tematiche lettriste e situazioniste, aperto ad una varietà di contributi internazionali (M. Caesar, R. Carpentieri, M. Bulzoni, L. Caruso, F. De Filippi, G. Desiato, M. Diacono, S. M. Martini, M. Oberto, M. Persico, F. Piemontese, G. Polara, G. Ricci, P. Vicinelli, E. Villa), segnato da un’esibita radicalità nella scelta degli strumenti d’intervento. Di qui la critica nei riguardi della neo avanguardia. Caratterizza Continuum la poetica del sabotaggio della funzione autoriale cara a Luciano Caruso e confermata, a differenza del Gruppo ’63, da scelte editoriali militanti. Compito dell’avanguardia è la destituzione della sacralità dell’arte che, nonostante gli strali lanciati dai suoi nemici, inesorabilmente rispunta. Un divenire di restaurazione/sovversione che annulla l’annosa questione sull’attualità dell’avanguardia per affermarne la necessità.

Nell’introduzione all’antologia Il gesto poetico (’68), Caruso parla di superamento della poesia che cessa di essere esercizio letterario, concentrato sul linguaggio, ma azione – gesto, scrittura oggetto. Una sorta di manufatto linguistico in cui la temporalità ritmica scaturita dai sintagmi e dal lessico l’autonomia spaziale (fonica e grafica) della parola. Il superamento della poesia attuale, compresa quella prodotta dalla neoavanguardia, fondata sulla centralità del verbo porta ad una forma d’espressione che rifiuta di autodefinirsi poesia per giungere ad uno stadio di intercomunicazione con tutti i possibili processi poetici che appartengono all’umano. Il gesto, il suono, qualsiasi rappresentazione visiva, sono scrittura in quanto appartengono alla sfera del comunicabile. Né Caruso ignora che l’idea secondo la quale la poesia non dovrebbe che essere associata alla sua dimensione ritmico – sonora era già stata affermata da Mallarmé, il fondatore della letteratura secondo il celebre assunto foucaultiano. Dalla scrittura – gesto nascono nuove unità semantiche, provenienti dai contesti più diversi: la figurazione tecnica e pubblicitaria, la psicanalisi, il magico – fiabesco, il grido di protesta. L’elemento comune è il rifiuto violento della società letteraria, la scelta di uno spazio autonomo, in fondo simile al lavoro che in quegli stessi anni, secondo modalità solo più esplicite, stava conducendo Luca. Il dato peculiare della neo avanguardia napoletana è la presenza di una poetica comune confermata, pur nella specificità dei percorsi individuali, nel corso degli anni. Nessuna divaricazione paragonabile alla conclusione dell’esperienza di «Quindici» (’69). I napoletani svilupparono negli anni ’60 modalità ed interessi diversi, tenuti insieme, tuttavia, dalla riaffermata consapevolezza della qualità militante della pratica artistica (Caruso, 1983, pp. 5-6).

Continuum comparve per la prima volta su «Linea Sud» (5-6, 1967), su sei fogli usciti fra il giugno ‘68 e il maggio ‘70, cui seguirono una miriade di interventi individuali e collettivi che si svolsero nell’arco del decennio. Il gruppo si caratterizza per la negazione della figura dell’autore cui è contrapposta la pratica dell’opera collettiva. Continuum termina, come scrive lo stesso Caruso, con l’uscita del primo numero di «E/mana/azione» (aprile ’76), anche se la dicitura del gruppo è presente sotto la testata in diversi numeri della nuova rivista (Caruso 1983, p. 172).

Filo conduttore di Continuum è la negazione della poesia come spazio catturabile dall’industria culturale; premessa da cui muove Martini per teorizzare la sua poetica del fallimento come negazione di una possibile riconoscibilità dell’opera. L’unità di intenti tra Caruso, Diacono, Martini, Polara all’insegna della condivisione di un percorso di anti scrittura ha i suoi numi tutelari in Lautréamont, Jarry, Artaud, Bataille e trova una fondamentale sponda nel lavoro di Emilio Villa; la traduzione di questi legami nei libri oggetto, nei film, nel lavoro verbo visivo, è l’elemento trainante del progetto Continuum. In particolare, nel lavoro di Caruso queste genealogie si arricchiscono della lettura di Wittgenstein e della sua idea del linguaggio come “evocazione” del reale, diversamente dalla logica che ne costituisce lo specchio (Moio, 2018).

Ricerca militante quella di Continuum che scaturisce una progressiva divaricazione rispetto al Gruppo ’63, come traspare da questo intervento di Caruso del ’66 in cui riserve poetiche e modo di intendere l’avanguardia procedono di pari passo.

Insomma, per parlare chiaramente, dirò che già presentando come novissime (corsivo) le poesie de La ragazza Carla accanto a quelle di  Laborintus ( che pure erano un punto di partenza) si è compiuto il primo gravissimo passo sulla strada dell’addomesticamento della produzione, si è venuti a compromesso (assolutamente non necessario) col modulo della produzione già corrente […]. A me pare che questi scrittori del Gruppo ’63 siano troppo indaffarati tra incarichi, commissioni e faccende delle quali, poiché  né vivono, sarò l’ultimo a volere che se ne allontanino (P. P. Daniele, Cronistoria del gruppo Continuum, in Caruso, 1976, p. 42). La dimensione concreta del lavoro creativo, la diffidenza rispetto alle ideologie, in primis letterarie, la rivendicazione della inscindibilità del binomio arte – vita, il rifiuto della pratica estetica come attività di compensazione, la critica della citazione come addomesticamento dell’opera, sono elementi che collegano il lavoro di Continuum a quello del gruppo che più di ogni altro ha affermato il binomio arte – vita: il situazionismo e, prima ancora, il lettrismo, alle cui esperienze Il gruppo non lesina apprezzamenti (Daniele, pp. 80-81). Si pensi all’azione, realizzata da Bugli, Caruso, Colucci, Diacono, Gallina, Marcheschi, Martini, Piccolo, Piemontese, Rivieccio, Villa, Visco, messa in atto nel ’72 in occasione della mostra “Operazione Vesuvio”, la cui unica opera consisté in una raccolta di lapilli accumulati all’ingresso della Galleria “Il Centro”.

Già il fatto che il termine “lavoro” abbia sostituito quello di “opera” accenna all’interazione uomo – tempo – ambiente che si sta attuando un po’ ovunque; e in cui ambiente non designa più uno spazio da attivare, come per la scultura environmental degli anni sessanta, ma la quantità indefinita di presenza umana, oggettuale e spaziale in cui il lavoro viene attuato. Questo lavoro non è tanto un’art of existence quanto un’art of experience; il corpo in cui essa si evidenzia è quello non dell’artista ma del destinatario; lo scopo tende comunque non alla messa in luce di un comportamento formale quanto all’attuazione di un ulteriore esperienziale da agire come autonoma consapevolezza innovante del corpo” (M. Diacono, in Caruso…, 1976, pp. 423-424).

Il riferimento esplicitato dal gruppo è alla body art che si muove in quello spazio bianco dell’altro dall’arte per cui l’atto, lo stesso prelievo di materia ha una sua compiutezza tanto da rendere inutile ogni altra informazione che non quella contenuta nel lavoro stesso. Continuum elabora una poiesi alternativa alle estetiche storiciste, da Aristotele a Croce, che affermi il valore del “gesto poetico” e cancelli una buona volta la dipendenza della letteratura dal logos, letteratura che si è “infeudata” all’industria culturale, estenuandosi in una stanca riproduzione di sé. Privilegiando l’attenzione alla materialità e al comune sensibile da formalizzare anche attraverso l’uso dei nuovi mezzi tecnologici, come il video tape (A.L.C., Martini, «E/mana/azione», 25/81). Premessa da cui nasce il lavoro sui libri oggetto di Caruso, Diacono, Martini nei quali la parola scompare nel manufatto che diviene l’elemento costitutivo del linguaggio poetico (Diacono, 2013).

«E/mana/azione», rivista a circolazione privata pubblicata tra il ’76 e l’81, si auto definisce un diario in pubblico liberamente riproducibile che conta su una redazione aperta che può variare da numero a numero che chiunque può realizzare concordandolo con gli altri componenti. La rivista ribadisce il valore politico della militanza culturale, ma è consapevole della sconfitta vissuta dalle istanze di rinnovamento su entrambi i fronti all’inizio del nuovo decennio. In una lettera a Caruso, Martini parla della necessità di riaffermare, a fronte delle spinte conservative, la “festa poietica” che nel ’68 ha iniziato a destrutturare il reale. Il che è coerente con la posizione elaborata dal gruppo fin dagli anni ’60 riguardo al “gesto poetico” (Caruso), compresi i canali materiali entro i quali era esperito (A.L.C., «E//mana/azione», marzo 1980). Rimane intatta la polemica verso le conventicole affiliate alla grande editoria e l’ambizione ad elaborare per via della poiesi la possibilità di una nuova soggettività, che rimanda al tema dell’arte totale caro ai dadaisti e ripreso da lettrismo e situazionismo. Il che dovrebbe dimostra come il testimone dell’avanguardia possa essere ripreso in ogni dove, in barba al refrain sul suo esaurimento.

Non a caso, nella stroncatura di un libro di Ballerini sulla poesia visiva, Caruso e Martini definiscono “la scrittura visuale come il primo fenomeno per il quale la poesia si mostra idonea ad intervenire sensibilmente nel quotidiano” (A.L.C., «E/mana/azione» n. 2, settembre 1976). È dal futurismo, come abbiamo visto ben sedimentato a Napoli, che la scrittura promossa da Continuum utilizza il paroliberismo e la conseguente liberazione del testo dalla dittatura del significato. L’altro riferimento è Emilio Villa, compagno di strada con il quale, oltre alla predilezione per il futurismo, Martini, soprattutto Caruso, condividono l’interesse per le lingue antiche e le culture misteriche. Nell’introduzione a “Il gesto poetico”, Caruso aveva parlato della volontà di superare “le forme sperimentali e di lavorio sul verbo come fenomeno esclusivo delle conventicole neo – avanguardistiche” per dare inizio ad un processo di poesia totale che si proponga di creare rivoluzionare tutti i mezzi di comunicazione di cui l’uomo dispone. Anche il gesto di una mano, scrive Caruso con chiaro riferimento situazionista, è scrittura comunicabile. Di qui la rivendicazione di uno spazio clandestino, di una scrittura volutamente settaria e tendenziosa. Martini, citando Mario Diacono, parla della poesia come funzione del senso e, come tale, soggetta ad una quotidiana reinvenzione; altro dalla poetica del come se, in grado di immaginare universi potenziali, “qualcosa di formidabile che sta per realizzarsi”, ma che si traduce nella pochezza di ciò che si realizza. La poesia è la vita, il linguaggio – corpo che materializza l’aspirazione al nuovo.

Ovviamente non c’è problema di quantità: emerge chiaro, invece, quell’altro problema, per il quale si tratta semplicemente di entrare nel gioco, anche sapendo di dover girare a vuoto. Per questo, al presente, alcuni di noi vivono come se qualcosa di formidabile stia finalmente per entrare nella realtà: qualcosa che potrebbe addirittura schiacciarne la morte. (Martini, 1970, p. 154).

Questa pista di lavoro nel segno dell’arte totale la ritroviamo anche nel lavoro di Enrico Bugli (’37), autore tra il ’70 e il ’76 di una serie di film sperimentali. Bugli non prende parte attiva all’avventura di «Linea Sud», ma, rimanendo sempre in contatto con Caruso e Martini, diviene uno degli interpreti più originali della poetica del gruppo; artista vicino al gruppo ’58, poeta verbo visivo in contatto fin dai primi anni ’60 con il gruppo di Miccini e Pignotti, attivo anche fuori della scena napoletana ma sempre vicino a Caruso con cui realizza anche libri oggetto, condivide fino in fondo l’esperienza di Continuum.

Luca e il gruppo Continuum riassumono bene l’intensa parabola della neo avanguardia napoletana. Opposizione irriducibile all’industria culturale, radicalità politica per via linguistica, apertura internazionale in grado di bypassare la scena italiana, sabotaggio della dimensione autoriale cui è contrapposta la pratica del gruppo, arte totale secondo lezione artaudiana, auto produzione. Su tutto ciò si innesta la dimensione cittadina, nel senso della necessità del confronto con la stratificazione culturale proposta da Napoli e la costante esigenza del suo rovesciamento. La neo avanguardia napoletana costituisce un capitolo tutt’altro che laterale della cultura di opposizione in Italia negli anni ’60 e ’70. Il mancato accesso ai media che contano, la scarsa accessibilità dei materiali prodotti e la loro cifra spiazzante, la radicalità teorica, hanno contribuito alla creazione del cono d’ombra che ancora la avvolge. Tuttavia, se mai da qualche parte dovesse ricomparire, per l’ennesima volta, il fantasma dell’avanguardia, non potrà che avere le qualità messe in campo da Luca, Persico, Caruso, Martini e gli altri. A meno che non ci si accontenti di operazioni di retroguardia come quella che alla fine del millennio ha visto protagonisti i cannibali e i loro promotori o si prediligano le algide poetiche della neo oggettività di provenienza nord americana. È tempo di tornare all’avanguardia e riscoprirne il piacere. Gli autori, vecchi e nuovi, non mancano, occorre superare la dispersione e riscoprire le pratiche di gruppo non solo nell’elaborazione di una poetica comune, ma (Caruso e Martini insegnano) nella sperimentazione di strumenti alternativi. Riprendendo la strada per Napoli.

Bibliografia

 Bonito Oliva https://www.artapartofculture.net/2018/03/28/achille-bonito-oliva-ut-pictura-poesis-tra-poesia-e-immagine/, contiene un’intervista sulla sua esperienza giovanile di poeta visivo. Sulla poesia visiva, si veda http://www.archiviomauriziospatola.com/prod/pdf_storici/S00250.pdf .

Archivio Luciano Caruso (ALC), http://archiviolucianocarus.wixsite.com/archivio-caruso-4/altri-artisti. Contiene un’ampia mole documentaria, soprattutto in ambito di riviste e poesia visiva, oltre che opere di Caruso e altri.

Belloni, Movimento arte nucleare (Milano 1952 – 1957), in http://giacomobelloni.com; http://www.archivioettoresordini.org, contiene i manifesti prodotti dai nucleari tra 1956 e il 1959, compreso il Manifeste de Naples, secondo manifesto del Gruppo ’58 dopo quella redatto da Guido Biasi il 5 giugno 1958; http://ww.artribune.com, E. Baj, Bum – Manifesto nucleare; http://www.capti.it/index, per la rivista nucleare il gesto.

Biasi, Restaurazione e rivoluzione, Il Centro, Napoli, 1964.

Caruso – C. Piancastelli, Il gesto poetico. Antologia della nuova poesia d’avanguardia, Uomini e idee, Napoli 1968; Id, L’avanguardia a Napoli (Documenti 1945 – 1972); Id., Alchimia della scrittura. Opere 1965 – 1995, Belforte editore, Livorno, 1995.

Caserta – N. Scontrino, Avanguardia a Napoli. Riviste 1958 – 1963, Esi-Uni, Napoli, 2002. Si veda anche l’intervista a Mario Diacono in https://www.doppiozero.com/materiali/interviste/diaconia, 2013.

Corbi, Quale avanguardia? L’arte a Napoli nella seconda metà del novecento, Paparo, Napoli 2012.

«Documento – Sud» e «Linea Sud» sono consultabili in http://www.capti.it/index.php?ParamCatID=1&id=41&lang=IT.

Giuliani, introduzione alla seconda edizione de I novissimi (1965), in, http://alfredogiuliani.blogspot.com/2009/12/i-novissimi-di-alfredo-giuliani.html; I novissimi, ricostruzione del fenomeno editoriale, a cura di O. Alicicco – L. Mastroddi – F. Romanò, Oblique studio, 2010.

M. Martini, Schemi, edizioni di «Documento – Sud», Napoli, 1962; rist. Morra, Napoli, 1989. Id., Neurosentimental, Continuum, Napoli 1974, rist. Morra, Napoli 1983; L’impassibile naufragio: le riviste sperimentali a Napoli negli anni 60 – 70, Guida, Napoli, 1986; Tramonto della parola, Bulzoni, Roma, 1999; Per forma di parola: Stelio Maria Martini dagli anni dell’avanguardia a Napoli ai “labirinti verbali”, (a cura di C. Caserta e M. G. Sessa), Guida, Napoli, 2001.

Sanguineti, Il palombaro e la sua amante (per Guido Biasi), Mikrokosmos, Feltrinelli, Milano, 2004; il testo per Mario Persico, https://m.youtube.com/watch?v=7rRbyC2si7E.

Su Enrico Bugli, http://www.verbapicta.it/dati/autori/enrico-bugli.

Su Continuum, L. Caruso, Continuum/Manifesti 1968-1970, 23 copie numerate, Belforte Editore Libraio, Livorno; Id., Continuum, contributi per una storia dei gruppi culturali in Italia, All’insegna del sapere, Napoli, 1983; G. Moio, Continuum tra avanguardia e “disoccupaizone mentale”, in http://frequenzepoetiche.altervista.org/continuum-avanguardia-disoccupazione-mentale/.

Sui “napoletani”, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/05/17/come-diventare-nopoletani.html?refresh_ce).

Sul Gruppo ’58, G. Bacci, Non una rivista ma un documento: Documento Sud (1959-1961) tra avanguardia artistica e testimonianza socioculturale, in www.palinsesti.net/index.php/Palinsesti/article/download/72/86. http://verbapicta.it, contiene un’utile schedatura su Gruppo 58, gruppi di Luca fino alla Prop art, Continuum, – E/mana/azione.

Su Luca, http://www.verbapicta.it/dati/autori/luca; http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/04/26/il-ritorno-di-luca-il-patafisico-nell.html; http://cominciaadessoblog.blogspot.it/2012/06/.

Sulla poesia neo oggettiva, http://gammm.org/.

Vergine, Napoli 25/33, Il Centro, Napoli, 1971; rist. Clean, Napoli, 2018.


Biografia di Paolo Allegrezza


 

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Una risposta a “PAOLO ALLEGREZZA, La neoavanguardia napoletana tra arte e poesia verbo visiva (1958 – 1980)”

  1. Caro Giorgio,
    intanto ringrazio Allegrezza per avermi dedicato addirittura un piccolo paragrafo. Nel suo brillante articolo.
    Vorrei aggiungere che mancano nella abbondante bibliografia la citazione delle stesse riviste che l’autore commenta . Vorrei anche se possibile ricordare almeno a te, che dal primo all’ultimo numero sono stato insieme a Persico, Martini e successivamente Caruso, redattore di Linea Sud , come si evince dalla consultazione delle riviste.
    Abbiti il mio più cordiale saluto con ogni cordialità e molti complimenti

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