GIORGIO MANCINELLI
“La luce delle stelle morte. Saggio sul lutto e nostalgia” di Massimo Recalcati

«Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi…», poeticava Leopardi che le rimirava “scintillanti”, quando nella realtà del firmamento non sono che tremule fiammelle lontanissime e che, a dire di Massimo Recalcati, sembrano “anime” ormai prossime a spegnersi. «Pensiamo allo strano fenomeno astrofisico della luce delle stelle che osserviamo fare la sua apparizione nei nostri cieli, come spiegano gli scienziati, che arriva a noi con molti anni di ritardo (probabilmente milioni) da una stella già morta, scomparsa nel grande buio dell’universo […] che, quindi (noi oggi) ammiriamo una “presenza che è fatta di assenza” o una “assenza che si rende presente”, […] raggiungendoci come una visitazione inattesa.»
Invero non è passato che un secolo, poco più poco meno, in cui una nuova generazione di poeti e scrittori sperimentavano una visione diversa dello stesso soggetto come le stelle, pur essendo più lontane che mai. In realtà, grazie al rinnovarsi di sofisticati telescopi, sono ormai meno distanti di allora, ancorché fredde, vuote e disabitate. Malgrado ciò sia da sempre nella natura umana guardare alle stelle con la nostalgia di un qualcosa che forse non è mai stato, come del ricordo di un’esistenza avita che si è logorata nel tempo della ricordanza, di un’assenza implicita in quanto parafrasi dell’Eden perduto o, forse, solo di una qualche felicità pregressa che sappiamo non poter tornare, se non sostituita da una nuova felicità.
Il cui raggiungimento, per quanto si cerchi, rasenta l’impossibile, per effetto dell’esegesi archetipica profonda che tutto investe all’interno d’ogni esistenza vissuta, poiché concomitante con la solitudine primordiale, «… come di un mondo in sé compiuto» – risponde Roberto Calasso – che giunge a noi che siamo fin dentro il nostro presente, «… a contrastare il divenire del tempo».
Panta rei… recita l’antico aforisma – attribuito ad Eraclito – in cui “tutto scorre” nel continuo alternarsi degli opposti, dentro la realtà apparente dell’inconoscibile e inesorabile divenire, nel perpetuo mutamento di cui si riveste l’amore degli umani. Vale dunque chiedersi “quale felicità” rincorriamo se ciò che ruota al centro della nostra conoscenza si contrappone a noi, per un eccesso dinamico che scaturisce in energia sottile, come di vortice invisibile, nella nostalgia di ciò che non è e che non potrà mai più essere?
«Può la luce arrivare dal passato?» – si chiede Massimo Recalcati, autore di questo prezioso libro – nel «cercare l’emanazione luminosa del nome da dare all’oggetto e/o al soggetto perduto?» E inoltre, «Può esserci luce nella polvere?»; sebbene sappiamo a chi e a che cosa apparteneva quel dato “nome” che si concreta con determinazione nel nostro pensiero virtuale, quasi per una metamorfosi del meraviglioso, nel malinconico effetto dell’ardore che ci portiamo dentro, allorché entriamo nel mondo estremo dell’incanto, nella «sottesa disponibilità a riconoscere un’immensità che tutto travolge e ovunque è avvertibile.»
Ma gli interrogativi così posti reclamano risposte di assoluta verità, per un ritorno all’espressività “filologica e filosofica” sulle origini dell’umanità e dell’intero creato. Non a caso Sartre considerava effimero ogni costrutto in proposito: «Ogni desiderio di ritorno è precluso; non esiste possibilità di ritornare alla vita dopo la morte, non esiste possibilità di ritornare nel corpo della madre, non esiste possibilità di riappropriarci della nostra origine. L’esodo dell’esistenza esclude la chiusura del cerchio e impone un infinito senza totalità».
Dacché non resta che appellarsi a quell’«… altrove cui ciascuno di noi può proiettare la sagoma del proprio desiderio impedendo alla realtà di sopprimere i nostri sogni», come a voler carpire alla vita la linfa esperienziale che la fa grande, devoluta all’“altro” in quanto estensione di Sé; a quel Figlio spurio al quale, nel corpo effimero del reale si è donato, nel riscatto di quell’amore che ci ha insegnato l’esperienza traumatica del venire al mondo, e la perdita della vita che ne santifica il sacrificio costante, quel “finito” proprio dell’avventura umana che pure contesta «ad infinitum», nello scontro/incontro con l’esistenza stessa.
Tuttavia qualcosa di più si nasconde fra le linee del testo, quel lavorio costante della memoria razionale che narra di un vissuto esperienziale, benché minimalista, di dolore pur nell’amore e dell’amore come nostalgia e rimpianto di una perdita che «La luce delle stelle morte» conduce inesorabilmente verso l’oblio senza possibilità di riscatto…
«… ché d’aver dato l’aggio a Caronte, superata l’infernale sponda, consegna l’anima a quel Dio scontroso che di giudicar s’avvale, del bene e del male dell’umana vanità, del suo voler essere divino sopra ogni cosa, sulle miserie di questo mondo altero che di pianto ha gli occhi colmi di lacrime rapprese.» (GioMa)
La fenomenologia cui accede l’autore proviene dalle fonti più eccelse in fatto di filosofia, di psicologia analitica del profondo, dell’inconscio individuale e collettivo, nomi quali: Arendt, Barthes, Benjamin, Freud, Derrida, Lacan, Sartre, Starobinski, Parmiggiani, Racalbuto e tantissimi altri. Qui ripresi da classici della letteratura antica e moderna, citati nella bibliografia di riferimento di ciascuna delle tematiche testate, relative al “lutto” e alla “nostalgia”, per lo più afferenti ad argomenti consistenti la riflessione psicologica del lutto, la forma psicosomatica del dolore, la commozione, l’emozione, il pianto, il rimorso della perdita; così come il sogno, il desiderio, la visione dell’al di là, l’abbaglio di altri possibili mondi paralleli, il delirio schizofrenico dell’amore.
Altrettanto valide risultano le considerazioni che riempiono le parole spese afferenti alla testimonianza di un qualcosa che è accaduto, dalla nostalgia dell’assenza alla separazione luttuosa, dalla perdita della persona cara, alla negazione della morte; dalla somatizzazione del dolore, all’oblio, al rimpianto, al sogno rivelatore di qualcosa che tuttavia persiste e ruota intorno a noi come rimembranza di una forzata “assenza”: «…vissuta come una perdita quando apre nella nostra vita una mancanza, quando si ripresenta presso di noi nella forma di un’assenza presente».
Il sogno, ad esempio, inquanto «riflesso di un’assenza da noi stessi» – scrive ancora Recalcati – riguarda tutti noi senza distinzione, relegato all’esperienza traumatologica del passato, che lo ha visto conferito alle divinazioni, alle visioni paranormali, ai miti cui è di riferimento e attribuibile alle premonizioni magiche, al lutto delle origini, alle disgrazie successive, come pure alla morte esistenziale e a quanto ne consegue. «Più che ambire a realizzare un effettivo compimento del lutto nel senso freudiano del termine, dovremmo piuttosto assumere che, se c’è un compimento del lutto, esso si realizza solo nel riconoscimento della sua impossibilità, ossia, detto in altre parole, che il solo modo di portare a compimento un lutto è quello di riconoscerne la strutturale incompiutezza.»
Per quanto noi oggi ben sappiamo, ad esempio, che il «sonno della ragione genera mostri», e che tutto questo è registrato nell’emotività e nella indeterminazione di certi soggetti psicolabili, all’interno dei sentimenti contrastanti che si riverberano nei “sogni oppressivi” in cui i mostri generati s’affannano nella creazione di incubi angosciosi che ritornano assillanti a disturbare il riposo dei giusti, come anche quello dei morti e quindi al lutto esperienziale, così come la paura del vuoto e/o delle tenebre, del buio prossimo al dolore e alle privazioni annunciate come la pandemia e l’orrore per la distruzione finale, l’Armageddon, l’Apocalisse cristiana.
Siamo qui messi di fronte a forme di culto apparentate con il folklore e studiate in antropologia, che nei millenni passati hanno determinato subculture talvolta violente, dispotiche e aggressive, insieme ad altre forme spaventose di credenze animiste credenti negli esseri spirituali che animano l’intera natura organica e inorganica cui vengono attribuite qualità divine o soprannaturali, presenti negli oggetti, in luoghi o esseri materiali, in parte inventati dalla creatività orrifica degli umani, e con effetti paranormali e talvolta paranoici che non sono presenti nel libro e che auspichiamo di trovare nel prossimo.
Ovviamente non tutto è detto nelle pagine di questo libro chiarificatore quanto inquietante, né di quanto è detto nello spazio angusto di questa recensione parziale di un lavoro stracolmo di riferimenti e richiami letterari, con i limiti ovvi del lettore qual io sono. Per cui la scelta di una lettura siffatta, diventa ragione arbitrale di un percorso conoscitivo che va appunto “oltre”, ove la libertà di scelta diventa arbitrato di una motivazione, per una predilezione che posso definire “elettiva” legata all’esperienza del lutto che tuttavia rimane una condizione dolorosa. Come pure scrive Roland Barthes, citato nel libro: «La sua morte potrebbe essere liberatrice nei confronti dei miei desideri. ma la sua morte mi ha cambiato, io non desidero più ciò che avevo desiderato. […] Bisogna attendere che si formi un nuovo desiderio successivo alla sua morte».
Secondo Recalcati è questa: «… una condizione che colpisce chi resta e deve misurare la sua totale impotenza di fronte allo strapotere assoluto della morte. L’esperienza del lutto non riguarda però, come abbiamo visto, solo le morti fisiche di persone alle quali eravamo legati, ma accompagna necessariamente ogni separazione. Quanti addii, quanti abbandoni, quanti tradimenti, quante delusioni, quanti dolori si sono rivelati delle specie di morte che ci hanno imposto un tempo di lutto? Se seguiamo la lezione di Freud, dovremmo innanzitutto distinguere tra l’esperienza del lutto come risposta all’evento della separazione in quanto tale e quella del lutto inteso come… attraversamento sacrificale dell’esistenza. […] L’esperienza del lutto come tale – prosegue l’autore – è una conseguenza diretta del trauma della perdita. Accade nei confronti della morte di una persona cara, ma anche di fronte alla fine di un amore, di un’amicizia importante, di un legame famigliare, di qualunque relazione sia stata per noi significativa.»
Torniamo quindi a contemplare le «Vaghe stelle dell’Orsa» che pur s’accendono nel nostro cielo, ma questa volta lo facciamo in compagnia del nostro mentore Massimo Recalcati che nell’atto di sottrarsi all’apparenza, nel silenzio della solitudine avalla, sul filo del crinale, una remissione di colpe senza nemesi contro il giudizio inoppugnabile del passare del tempo, per una pace che «alla luce delle stelle morte», altro non pare che l’equivalente indecidibile della perdita dell’anima a noi cara.

*Tutte le virgolettature con i caporali (« ») non sono di Massimo Recalcati, tranne quelle afferenti alle citazioni esplicite riportate nel testo.

Massimo Recalcati
La luce delle stelle morte. Saggio sul lutto e nostalgia
Feltrinelli, 2022, pp. 144

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Biografia di Giorgio Mancinelli

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