Ho conosciuto Tiziana ai tempi dell’Università e abbiamo seguito insieme per tre anni i corsi di Letteratura Comparata del prof. Armando Gnisci. Era una ragazza spigolosa e assolutamente singolare, tirava fuori dal suo cilindro autori mai sentiti – e questo era abbastanza normale nell’ambito della comparatistica – ma ciò che la rendeva unica era il suo modo di collegarli in modo all’epoca azzardato e affascinante. Ciò che quegli anni di studi “matti e disperatissimi” hanno impresso in tutti noi e in particolare in lei è stato un metodo, critico e di scrittura creativa, di estensione spaziale, orizzontale e globale – oggi la globalizzazione della letteratura è scontata, ma all’epoca affatto ed era un concetto spesso inviso a molti storiografi –, ma anche verticale, di approfondimento ermeneutico delle viscere di ogni testo, per accedere al magma pulsante celato sotto la crosta della lettura apparente ai più.
Lengua de striga. Teatro delle voci (Bertoni, 2024) è una raccolta di testi che si nutre di questo metodo ormai interiorizzato, nell’abbraccio tra fatti di cronaca e dolori ancestrali, una sofferente quotidianità che si fa mito ed epos, ma nuovi e attuali. Tiziana raccoglie a sé in questi testi tutte le sue muse, dal canto lirico alla tragedia, passando per la storia e la coralità, in un’opera totale che crea un nuovo modello di sintesi delle arti. In questo senso Tiziana si fa vestale di Mnemosine, se non dea ella stessa nell’imporre il ricordo di tutto ciò che la nostra società vorrebbe gettare nel Lete e nel suo oblio. Ci obbliga a tenere i nostri occhi spalancati di fronte a ciò che molti preferirebbero non vedere o sentire sulla propria pelle, ci obbliga alla Verità.
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Il tuo teatro mette in scena la mente e le voci che si rincorrono nel suo labirinto di stanze e corridoi, come in un appartamento infinito, dove comunque giungono, come da un televisore o dalla radio, sia le voci della realtà esterna, della cronaca ad esempio, sia quelle del mito, che possiamo immaginare evocate dai libri riposti nelle librerie di quelle stanze. Tutto è parola. Quanto c’è in questo di difesa dalla realtà e quanto invece di azione su di essa?
Per me il teatro è anzitutto spazio, al tempo stesso interiore e visibile. Nella nota introduttiva al volume sottolineo proprio che “la mente è la prima scena”, parlando del mio più antico testo drammaturgico, “Sparizione di Giovanna” (1991), dove la passione e l’ossessione per il teatro si creano nella mente di una ragazzina, figlia di una sarta teatrale, che passa l’infanzia a dormire nei camerini, avvolta dalle voci che filtrano dal palcoscenico, voci degli attori e dei personaggi, senza soluzione di continuità, fino a quando questa mescolanza crea in lei, diventata giovane attrice, uno spaesamento insanabile tra realtà e finzione. Ma anche nei testi successivi la tessitura di parole crea uno spazio scenico interiore che si mescola con spazi visibili, reali o evocati, creando attriti come nubi mosse da venti interiori nello spazio visibile del cielo, generando fulmini, incontri, illuminazioni. Nel caso di “Ars Fulguratoria” la metafora è particolarmente pertinente, dal momento che la struttura drammaturgica si compone di voci evocate dall’Ars fulguratoria, la magia vaticinante della sacerdotessa etrusca Vegoia. E così via, in altri testi, ad esempio la dimensione mitica di Circe si mescola alle voci della cronaca e degli atti processuali ne “Il Precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria”; in “Leonora, atto quinto” a interagire sono lo spazio scenico reale di un’Opera lirica con lo spazio emotivo degli attori impegnati in una tenzone amorosa; in “Mida alla circonvallazione est” il corto circuito spazio-temporale è tra la leggenda di Mida, che la protagonista greca mette in atto in modalità straniate nella sua soffitta parigina, e la presenza asfissiante di una Parigi ridotta alla sua rumorosa strada di circonvallazione, la Périphérique. Ne “Il tempo del vaiolo” l’evocazione dei gaudenti del Decamerone, autoesiliati in una villa in collina per sfuggire alla Peste di Firenze, è attualizzata in una squallida casa chiusa in una Roma contemporanea, stremata dall’epidemia di vaiolo (da notare che il testo era stato messo in scena nel 2001 e pubblicato in un’antologia nel 2003, quasi vent’anni prima della pandemia di Covid). Fino al testo più recente, “Casa senza bambole”, nel quale il monologo interiore della protagonista satura lo spazio visibile della sua prigionia, una stanza già colma all’inverosimile di oggetti polverosi, di libri, di quadri.
Da questo labirinto interiore che è specchio dello “gnommero” del mondo esteriore, il gomitolo che dipana e collega con un filo tutte le esistenze, affine a quello delle Parche, senti di poterne uscire catarticamente rafforzata o te ne senti eterna prigioniera? E qual è il suo legame con la tua intensa ricerca spirituale?
La ricerca spirituale, per me, non è altro che il tentativo di trovare il bandolo di questo “gnommero” gaddiano, questo gomitolo di cause e concause, di forze del destino e destini senza forza; la necessità e insieme la condanna sisifesca a spingere sempre di nuovo la stessa pietra su per il monte; l’impulso per il quale «ogni mattino dobbiamo penetrare di nuovo attraverso cumuli di pietre morte per arrivare al vivo, caldo nucleo», come diceva Wittgenstein in “Pensieri diversi”. In sé, la ricerca spirituale si può solo evocare, non si può teatralizzare, ci è riuscito solo in parte Flaubert con la “Tentazione di Sant’Antonio”, che ho citato in un mio romanzo, con la mise en abîme di una rappresentazione di teatro di marionette, in un paese di montagna, che la protagonista vede come evidenza scenica di un suo dramma interiore.
Qual è la differenza che senti tra le voci del teatro e la voce poetica? È forse nella possibilità di questa pluralità?
In verità, in me la voce poetica è a volte elaborata e presentata come “spazio scenico” della parola, soprattutto in alcuni poemetti pensati già come piccole drammaturgie poetiche. Da un lato c’è la tensione verso l’asciugatura, il silenzio, che è comunque l’orizzonte metafisico della parola poetica. Dall’altro, dicevo scherzando proprio a te che vorrei poter scrivere una piccola “Odissea”, ovviamente senza “esametri epici” ma coniugando una tensione poetica di ritmo e di immagini con il dipanarsi di una storia, con le voci evocate ed evocanti tessute in una narrazione di senso compiuto.
Le tue drammaturgie citano a volte espressamente nel titolo, a volte nelle pieghe dei dialoghi e della trama, alcuni classici precisi, da Ibsen a Verdi. Mi parleresti di questo rapporto in termini di filiazione o innovazione, se non addirittura di superamento e distacco?
Come dicevi tu giustamente all’inizio, bisogna immaginare il primo spazio scenico come tensione tra lo spazio interiore e lunghi corridoi rivestiti da scaffali di libri: non solo quei pochi presenti nella mia casa, ma tutti quelli consultati nelle biblioteche, ad esempio nella vecchia sede della Bibliothèque Nationale di Parigi la densità di voci secolari era tale da saturare i lettori anche soltanto a restare seduti silenziosi ad occhi chiusi. Ad un certo punto della vita, i libri letti o anche soltanto sognati – per dirla con Jorge Luis Borges – formano nella testa di uno scrittore un humus fecondo, da cui nascono testi che non ne serbano più tracce visibili, se non come energie fecondanti, come echi di echi di echi… questo vale ovviamente per ogni tipo di scrittura; in più, per il teatro, gli echi sono anche quelli dei luoghi fisici, che in presenza o evocati diventano personaggi essi stessi. Ricordo ad esempio una memorabile messa in scena, nel lontano 1983, in una segreta di Castel Sant’Elmo a Napoli, di una versione peculiare dell’”Otello”, firmata dal regista Mario Martone, all’epoca ai sue prime innovativi spettacoli. Lo spazio diventava personaggio, e interagiva con la tessitura emotiva del dramma shakespeariano facendone moltiplicare gli effetti.
L’opera di Enrico Frattaroli è il fil rouge visivo di questo viaggio attraverso le voci della mente e anche la tua scenografia “ideale”. A me quest’opera ricorda un Fontana cosmico, ma carnale, che appunto non solo rappresenta perfettamente il tuo teatro e le tue trame, ma le “esprime”, come una sorta di sintesi di arte vocale e visiva. Qual è il tuo rapporto col il concetto di teatro “totale” ovvero come sintesi delle arti?
Con il regista e artista visivo Enrico Frattaroli in particolare, ma anche con altri artisti visivi lungo gli anni – Silvana Leonardi, Salvatore Giunta e altri – si è creata un’alchimia di amorosi e poetici sensi, che ha dato vita a opere visive, scritture, libri d’artista. Ne parla in dettaglio Enrico Frattaroli stesso in una delle note di testimonianza contenute nel libro. Il mio sogno segreto è di abitare un teatro visionario creato da un artista visivo, con quinte che si aprono trasformando un cahier d’écriture in un fondale con quinte, in cui io mi possa calare e celare. Un piccolo teatro di carta dipinta, come nel libro d’artista di Salvatore Giunta “Nel giardino di Sharazâde”, che ora è sulla copertina di un mio libro non di teatro ma di saggi, Residenze & Resistenze creative.
Tiziana Colusso
Lengua de striga. Teatro delle voci
Bertoni Editore, 2024, pp. 168