UGO PISCOPO, La poesia non è un tranquillante


Mi ricordo. Eravamo nel secolo scorso e io ero poco più che un giovanotto, anzi, più esattamente, un giovanottino, considerando la mia mediocre statura. Seguivo con puntualità il programma dei “lunedì letterari”, che si tenevano al Palazzo Reale, presso il Teatro di Corte a Napoli, dove venivano a trattenerci e a stimolarci degli intellettuali di prestigio. Quella volta, il relatore era Giuseppe Ungaretti. Al termine dell’intervento, andammo in molti a salutarlo. Fortunatamente fui uno dei primi. Quando sentì il mio nome, Ungaretti sorridendo mi disse: «Ho letto le tue poesie. Interessanti, bravo. Me le ha date a leggere Carlo». Carlo era Giulio Carlo Argan, il principe dei critici d’arte, che aveva preso a volermi bene e ad apprezzarmi come poeta. Una volta, volle che lo accompagnassi a una riunione di studiosi che si teneva presso l’Accademia della Crusca a Roma e mi presentò puntualmente ai suoi amici e interlocutori come “il poeta Piscopo”.

Ungaretti volle che io stessi con lui a ricevere quelli che venivano a salutarlo. Aveva un grande garbo nell’ascoltare e nel parlare, con gli occhi, però, sempre puntati sull’interlocutore, ma come guardando lontano, molto lontano. Intanto, mi teneva per un braccio e la cosa era un po’ curiosa, lui così alto e di notevole stazza, io, purtroppo, una specie di nipote fisicamente irrilevante che era in sua compagnia. Era venuta, per un gentile omaggio, una giovane e graziosa poetessa, che portava al “maestro” un suo volumetto di poesie. Ungaretti la guardò compiaciuto, mostrando di gradire la sua presenza. Per un momento lasciò il mio braccio e prese a sfogliare la raccolta. La poetessa aveva preso a parlare con disinvoltura e con appropriatezza, ma lui improvvisamente la interruppe, chiedendo: «Senti, figliola, che hai voluto fare con questo libro?». Lei, con prontezza e con una sicurezza di chi conosce bene il mestiere, rispose: «Ho voluto spalancare le finestre su un mondo nuovo». «Già», disse lui, guardando interrogativamente e amaramente me e gli altri che facevano corona attorno, «il nuovo, il nuovo. Tutta la vita ho cercato il nuovo senza trovarlo. Che abbiamo fatto allora noi?!». E congedò rattristato la disinvolta poetessa.

Fu per me una lezione, che mi tengo cara cara. A tanti anni di distanza, devo dire che si trattò come di una consegna di verità a futura memoria, di cui resto grato al donatore, che veniva dalla lontana Africa e dialogava alla pari con poeti e intellettuali europei di alto profilo.

Veniamo a me. Nella mia poiesi, il filo rosso è costituito dalla ricerca, dalla ricerca, dalla ricerca, con la consapevolezza che la poesia è, insieme, una novità, così come sempre ogni volta che ritorna la luce del sole all’alba o delle stelle la sera, e una conferma di un sogno avvolgente e inquietante l’umanità fin dai suoi albori, la vita stessa animale e vegetale, il mondo in quanto cosmo, che ci rassomiglia, anzi che ci fabbrica come una sua naturale manifestazione alla vita. In fondo, non siamo che  simboli e semi (in senso semiotico), fatti per interagire con altri semi e con altri simboli, di cui è pieno l’universo. Entro questa interrelazionalità, fatta di dare e avere, diamo e riceviamo informazioni, impulsi, interpretazioni, che si pongono in essere in forma di figure, di numeri, di geometrie, di disegni, in armonia con tutto il resto, che si rappresenta in declinazioni di figure, di numeri, di disegni. E’ questa la lingua madre con cui parliamo e da cui siamo parlati.

Se, pertanto, siamo in un flusso antico e sempre nuovo di parlare e di essere parlati entro un reticolo diramato e spontaneo di segni, figure, allegorie, simboli, non può non aurarsi di mitologie e di meraviglie l’abilità di muoversi disinvoltamente e audacemente in questa sorgente di vita e, possibilmente, manipolarla a fini ludici e interattivi con gli altri. E questa sorgente è lo specchio, in cui si guarda la parola poetica.

E il poeta chi è? È il disturbatore per eccellenza della tranquillità e dell’ordine pubblico, uno che va cercando sensi nascosti in ciò che appare semplice e naturale, uno che si specializza nel disoccultamento di quanto di nascosto sta sotto la pelle delle figure, che si presentano ordinariamente agli occhi dei più come scontate e risolte una volta per sempre in una confezione di coseità. In realtà, tutto tende a chiudersi e a farsi accogliere come cosa, ma questa cosa, che noi chiamiamo cosa, è puntualmente un modulo che sta nella nostra testa, un’etichetta che noi apponiamo sull’oggetto materiale o immateriale che sia. Perché, dietro la facciata, si viene svolgendo un dramma, nient’affatto pacificante, della cosa in attesa di esplicare tutte le sue valenze e dinamicamente proiettata a potenziare in sé la coseità, a legittimare dunque la propria presenza in termini di coseità compiuta. Come la roccia che si è fatta, si fa roccia appropriandosi pienamente, totalmente di sé. E’ un po’ come il passero solitario di Leopardi, che,  dall’alto della torre recanatese, «cantando va finché non muore il giorno», se possiamo così dire con un nostro adattamento minimale. Quest’uccellino, di una specie un po’ rara, non sta lì semplicemente a testimoniare la propria presenza, a compiacere per l’intero giorno sé e chi ascolta, ma è un simbolo significativo, intrigante e un po’ conturbante dell’intreccio tra solitudine e canto, dell’appartarsi del soggetto in un altrove misterioso e non nominato, che intanto andrebbe scandagliato e ascoltato. Analogamente, come mette in luce Heidegger (Sentieri interrotti), le scarpe di una contadina, che costituiscono il soggetto principale di una notissima opera di Van Gogh, rappresentano non banalmente  un paio di scarpe del mondo contadino, ma sono tracce e spunti per prendere contatto con un reticolo di interrogativi e di denunzie insospettato sulla fatica di vivere, sulla solitudine e la distanza fra le cose, sulla dura condizione di chi lavora materialmente, sul complesso di interscambi che si cela dietro la facciata di ciò che sembra ed è ordinariamente inventariato nel registro del quotidiano e dello scontato. Dietro e sul fondo di queste verità silenziose, che, intanto, stanno in attesa di essere scoperte e valorizzate, il poeta procede da pioniere e da appassionato indagatore delle latenze, come in una foresta vergine, e viene interrogando pieno di curiosità e di voglia di divertimento questo e quell’aspetto, questo o quel segreto, sostanzialmente per dire che quella è la verità e che questa ci è data, ci può essere data non gratuitamente, ma attraverso una paziente opera di svelamento di ciò che si nasconde dietro ciò che appare e non è semplice.

Il poeta, dunque, lavora per sé e per gli altri a non essere conniventi con i nascondimenti, con le conclusioni facili e comode, a tirare fuori e portare alla luce del sole i procedimenti, i linguaggi, i ritmi, gli enigmi e le ambiguità da decrittare. Richiede che si abbia il coraggio di affrontare la sfida dell’unheimliche e della disaurazione e demitizzazione delle rappresentazioni delle cose, che, per lo più, si vuole che siano semplicemente di ornamento e decoro, se non anche di trastullo, della vita quotidiana. Il fare, invece, e l’ostinato operare del poeta, che si vota a un lavoro di destrutturazione del noto e dell’ordinario, per poi riproporlo a rischio dell’insuccesso entro una nuova e sorprendente combinazione di rapporti e di tensioni, che si proiettano in avanti nel tempo e nell’immaginazione umana come work in progress, non sono comodi per nessuno, tranne che sotto forma di raccontino da salotto o per scolari. I più non gradiscono i messaggi espliciti o impliciti di interrompere il proprio pacifico stato di torpore. Vogliono stare in pace con sé stessi e con gli altri, sul fondamento di un patto, che per i poeti è di omertà. Guai a chi sconsideratamente  va di notte per la città e va gridando: «Niente è tranquillo, non dormite in pace, brava gente!».

I poeti, intanto, se indirizzano inviti a entrare in reticoli di sentieri che s’incrociano attorno al castello della poesia, se si investono del compito di guardiani e guide di questo mondo altro costituito su quello che Heidegger chiama litoticamente il “non-nascondimento”, cioè la messa a nudo nella luce della rivelazione della “verità”, che gli antichi greci chiamavano “a-letheia”, cioè non occultamento (dal verbo “lanthano”), aprono ampi e concreti varchi all’introduzione in scena di nuove e altre contraddizioni.

Si tratta di quelli che Valéry chiama i “non-linguaggi” (Varietà, a cura di Stefano Agosti), quei linguaggi, che stanno celati dentro i linguaggi noti e praticati in attesa che qualcuno se ne accorga e vi attinga materia e suggerimento per la necessaria opera di valorizzazione della loro presenza. Inizialmente, a opera dei lavori di destrutturazione da parte del poeta, questi linguaggi nascosti si prestano a essere e a funzionare da preziosa e formidabile risorsa, da strumenti di smantellamento e sovversione dei vecchi linguaggi in pantofole, ormai in pensione. Poi, però, introdotti sulla scena dell’invenzione, mostrano nei fatti, al di là delle originarie pulsioni, una loro cedevolezza a processi di invecchiamento e di vischiosità delle relazioni linguistiche. E tornano nell’ombra e nel circolo delle banalizzazioni, fin quando non vengano forse ripescati e reinterrogati sulle loro potenzialità di supporto di rottura con l’esistente e con la sua coattività, per accendere, se possibile, una nuova luce, che, tuttavia, non ha niente più da spartire con le situazioni del passato. La storia, infatti, se si svolge secondo grandi cicli, come dicono Vico e Nietzsche, e non schematicamente in direzione  unilineare e progressiva, secondo le visioni del mondo proposte da illuminismo ed hegelismo, non si ripete mai come cosa già vista, perché al suo interno, intenso di interazioni e dinamismi si introducono nuove variabili, che danno un nuovo profilo all’equazione complessa. Così, la poesia può continuare a fare a sé e agli altri il suo libero discorso, che ha questo di particolare e di strano, come acutamente osserva Valéry, un discorso «che non parla se non di cose assenti o di cose profondamente e segretamente sentite; strano discorso, che sembra tenuto da un personaggio diverso da colui che lo proferisce, e che sembra rivolgersi a una persona diversa da quella che ascolta. Insomma, è un linguaggio dentro un linguaggio».

Linguaggio, dunque, degli straniamenti, dentro il quale, tuttavia, possiamo addentrarci fino a un certo punto, senza pretese di esaustive e definitive conclusioni. La ricerca, infatti, non si conclude mai, così come la morte non muore mai, perché tra i fiordi di questi continenti si aprono inattese profondità che portano chi li scopre sempre più in là, sempre più dentro a zone sconosciute. Non resta altro che il sospetto non infondato di altro, che è altro rispetto a sé stesso, oltre che rispetto all’autore della poiesi, il quale finisce per trovarsi di fronte all’evento  come testimone provocato per assurdo da una presenza a sé, che lo sfida sul terreno delle antitesi, che gli si leva sotto gli occhi e gli dice che il suo compito è di collocarsi nel suo spazio frontalmente (gegenüber, dicono i tedeschi). Una presenza, che è ormai venuta alla luce, e, quindi, in quanto tale prende luce per sé e fa ombra, cioè disagio, per gli altri.

Alla ricerca, quindi, non segue che la ricerca, come dichiaravo sopra a proposito del mio modo di lavorare. Non resta altro che il non finito, avrebbe detto Michelangelo, che è l’espressione del desiderio inappagato e inappagabile, senza alcuna speranza o sicurezza di appagamento ultimo, se non quello dell’accettazione di una condizione totalmente esposta a un’oceanica evanescenza, priva di referenti oggettivi e scientifici, dove l’unica chiave di salvezza è il desiderio senza desiderio, come, tra gli altri, suggerisce Bataille.

Non si tratta di una sconfitta, ma di una opportunità di pensare più e meglio di quanto il pensiero possa pensare, in ascolto di musiche e numeri, che viaggiano in assoluta libertà, scendendo sempre di più nella propria interiorità fra i propri segreti, che sono lì e aspettano visite e dialoghi col gestore della propria vita. E’ certamente, questo, un cammino non consueto nel nostro Occidente, che poggia su griglie di certezze antropocentriche, ma è un percorso già cominciato a esplorare sin dall’antichità. Persuasivo del tutto, a tale proposito, è un avviso di Sant’Agostino (Musica, a cura di M. Bettetini).

Il trattato, che non è affatto un manuale di retorica, come inesattamente e diffusamente si dice, ma una sontuosa e penetrante ricerca sulla scienza della misura, in quanto, mentre discute di prosodia, di ritmi e di altre risorse della musica e della poesia, viene interrogando ed esplorando le possibilità di far luce definitivamente sui segreti del funzionamento di tale materia sul fondamento delle leggi dell’armonia scientificamente o, meglio, matematicamente (come si vorrebbe presso i seguaci e gli interpreti di Plotino) costituite, introduce la necessità di tenere in sospeso il discorso, con le sue pretese di poter tutto spiegare e tutto dire. Così, fa dire dal protagonista del libro all’allievo bramoso di conoscere che c’è un punto dove bisogna fare soltanto sosta e silenzio: «Scire hoc possumus, sed tantummodo credere audiendo et legendo». C’è, cioè, un punto in cui la parola, che crede di poter tutto osservare e disporre secondo tassonomie e coordinate controllate rigorosamente dalla ragione, deve con umiltà e saggezza sospendere i lavori di scandaglio e mettere da parte, anche se con sofferenza, i registri della cultura ufficiale: deve, con modestia e saggezza, ascoltarsi in silenzio e, simultaneamente, ascoltare altro. Andare incontro all’ignoto, che si nasconde nel retrobottega di ciò che è, che la nostra ragione bisognosa di applicare a tutto i suoi schemi dispositivi e ordinati ritiene un’armonia di coerenze, mentre invece tutto deve fare i conti con ciò che non è o è soltanto un coacervo di eteroclisie, di occasioni in transito, di fenomeni che traggono in inganno.

Non è un caso che la poesia abbia generato imbarazzo e contraddizione in un’intelligenza solare come quella di Platone, che  in Repubblica e nelle Leggi esclude perentoriamente la poesia dal governo  della città, in quanto veicolo di cose oscure e altrove, in vari incalzanti dialoghi, invece, le assegna compiti di riscatto e di innalzamento dello spirito alla sfera delle idee perfette, alla contattazione dell’armonia.

Da Platone in qua, molta acqua è trascorsa sotto i ponti. E nel nostro tempo, a sprazzi e/o per suggerimenti di cautela, si procede per assaggi e ipotesi della complessità della questione, che ha radici tanto nella diurnità, tanto nell’oscurità. Walter Benjamin, ad esempio, nel Dramma barocco tedesco ci avvisa che l’arte è avvolta entro un velame, come affermavano anche i simbolisti e in Italia Pascoli, di cui essa non si discopre, né si lascia discoprire mai totalmente. E, ancora, in Angelus novus dichiara che «la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non comunicabile». E Adorno (Minima moralia), che fa parte della medesima Scuola di Francoforte, come Benjamin, accentuando l’agonismo e l’antagonismo della poiesi, afferma esplicitamente che «occorre tener conto della comunicazione come un tradimento all’oggetto della comunicazione» e che l’arte nel nostro tempo ha un inderogabile compito «di introdurre caos nell’ordine», oltre a funzionare come “magia liberata dalla menzogna di essere verità”.

In breve, sull’orizzonte di attesa dell’immaginario contemporaneo, la poesia e, ovviamente, l’arte più complessivamente, si ergono come sfingi poste all’ingresso della città, che esigono che chi voglia entrare, come Edipo a Tebe, non possa farlo tranquillamente dormendo o ripetendo qualche formula usurata, ma debba pagare un gravissimo scotto sciogliendo e decrittando a rischio personale enigmi complessi.


Biografia di Ugo Piscopo


 

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