STEFANO TACCONE, Marisa Papa Ruggiero: evocare e velare prima dell’urlo


Siamo in pieno agosto. Le immagini dell’Amazzonia funestata dai roghi fanno il giro del mondo: la televisione le trasmette a ripetizione e sui social diventano virali. L’incredibile sconvolgimento che tale spettacolare anti-spettacolo produce si va ad innestare, da una parte, sui sempre più incalzanti avvertimenti degli scienziati circa i pericoli del surriscaldamento climatico e le cause assolutamente umane di esso e, dall’altra, sull’infittirsi che il dibattito intorno al tema ha conosciuto proprio negli ultimi mesi, con l’irrompere sulla scena mondiale del movimento Fridays for Future, che trova il suo emblema nella controversa figura di Greta Thunberg.

Se su molti degli argomenti adoperati contro l’adolescente svedese – specie quando tendono al negazionismo climatico oppure sfociano nell’insulto – c’è solo da stendere un velo pietoso, altre osservazioni sono ben altrimenti fondate. In particolare non è assolutamente peregrina quella proveniente da attivisti di gruppi ambientalisti di lungo corso, per i quali non è facile sfuggire alla tentazione di sottolineare come gli allarmi del nuovo movimento facciano leva su dati a loro noti da almeno un ventennio e di guardare pertanto più o meno con scetticismo i suoi risvolti modaioli. D’altra parte, allorché si fa mente locale sulle tendenze degli ultimi anni, si scopre persino che, se di moda si tratta, essa è stata tutt’al più consolidata, ma non propriamente lanciata, da Fridays for Future. Sono ormai anni ed anni, ad esempio, che la comunicazione aziendale usa il motivo del green come strumento di marketing ed a tale tendenza non manca di corrispondere una pletora di mostre d’arte, spesso tra le più prestigiose biennali e immancabilmente supportate da sponsorizzazioni di multinazionali annoverabili tra i principali inquinatori del pianeta.

A fronte di tale situazione la scelta di Marisa Papa Ruggiero – artista visiva, benché più nota come poetessa e scrittrice; non è un caso che ella dichiari: «la scrittura poetica per me è un’arte molto visiva» – di affrontare i nodi della incerta sopravvivenza sulla Terra dell’umanità dimostra tratti di radicale autonomia dal contesto descritto, anche se naturalmente è tutt’altro che indipendente da esso. Come tanti ambientalisti ben prima di Fridays for Future conducono battaglie durissime e coraggiosissime, così Marisa ‒ forte di un percorso assai denso e longevo, costellato da una produzione, specie letteraria, di grande qualità ‒ non si è certo immersa in un tale discorso per inseguire il trend degli ultimi sei mesi. Questa sua mostra, al pari delle sue sillogi poetiche e dei suoi romanzi, possiede vice versa una lunga gestazione, da far risalire, prima ancora che alle specifiche idee plastico-visive, alla sua precipua sensibilità, benché essa non si esprima mai nelle forme proprie dell’attivismo politico, ma in quello che potremmo chiamare, per l’appunto, una sorta di attivismo poetico, a patto di non intendere tale nozione quasi in alternativa alla prima, ché la sua indole si tiene a larghissima distanza da ogni velleitarismo.

Interessante a tal proposito considerare alcune sue recenti parole circa la possibilità todoroviana per la bellezza – e per la poesia – di salvare il mondo o meno: «Il fatto che la sentiamo come una consolazione, quasi uno stato di grazia che talvolta viene a visitarci, a riscattarci, sia pure per poco, dal “male di vivere” che ognuno sconta in un modo o nell’altro sul campo, non significa che sia, la poesia, un bene salvifico; difatti non ci salva, non sono questi, mi pare, i suoi compiti, direi piuttosto che ci danna». Proponendo un progetto che solleva tematiche di un’attualità così scottante, lo spirito di Marisa non è diverso: ella ha ben chiaro cioè che non sarà una mostra a cambiare il corso di una storia che volge verso la tragedia. Benché le apocalittiche immagini dell’Amazzonia abbiano inciso non poco ‒ per sua stessa ammissione ‒ anche su di lei, la genesi di Punto di svolta va innanzi tutto ricercata nelle ragioni intrinseche della sua ricerca.

Polarità dispotiche

«La mia pittura, sempre presente a livello cerebrale nella scrittura stessa, passa adesso il suo “punto di svolta” mostrandosi come cosa altra rispetto a prima», avverte la poetessa-pittrice alludendo al suo attuale rifocalizzarsi sull’arte visiva in senso stretto, sfoggiando la sua intrigante facoltà di chiarire ed insieme ammantare di mistero i concetti che è tipica anche della sua scrittura. La formidabile capacità di evocare e velare all’unisono: questa forse la prospettiva capace di descrivere in estrema sintesi tutto il lavoro della Papa Ruggiero, al di là dei singoli linguaggi in cui esso si va di volta in volta ad incarnare. Un gioco che ella conduce con una vocazione all’essenzialità che si carica di una estrema raffinatezza.

Si consideri l’accortezza con la quale plasma le otto opere in mostra; l’equilibrio che si viene ad instaurare tra fondo e figura, segno e colore, elemento pittorico ed extrapittorico, natura e cultura! Ogni pannello è di per sé un rendere visibile, ma anche un porre un enigma, mentre la macchina del senso è ulteriormente arricchita da titoli per lo più di due parole – un sostantivo ed un aggettivo – che virano sull’ossimorico o comunque sullo straniamento. Lo straniamento è, del resto, la cifra generale che pervade Punto di svolta, giacché straniante – quanto meno – è per l’uomo il futuro in cui si prepara a muoversi e – per la verità – già si sta muovendo -, un tempo ove la Terra promette di essere sempre più ostile alle sue possibilità di vita e ciò in virtù del paradosso per cui se ciò sta avvenendo la causa prima non è da ricercarsi in altro che nell’azione di tale peculiarissimo essere. «Ci guardano le ere ‒ gli algoritmi del male di questa/stirpe suicida ‒ (fra tutte sapiente!)», si legge nel brano in versi che accompagna la mostra.

Delirio antropico

Siamo dunque lontani anni luce dall’armonia uomo-natura di un certo umanesimo, benché in Marisa si avverta chiara e forte la nostalgia di quella perduta armonia, che è però molto meno teorizzata che sentita. Ma siamo lontani anni luce anche dallo straniamento delle poetiche surrealiste. Forse l’atmosfera che più si avvicina al presente-futuro evocato-paventato da questa mostra e da questa generazione è quella di un quadro come L’urlo di Munch, benché anche rispetto ad esso tutto sommato esista un solco, e non soltanto perché Munch ci condurrebbe in territori protoesistenzialisti che nulla avrebbero a che vedere, di primo acchito, col dramma del surriscaldamento climatico. Ma sarà poi realmente così? Davvero l’esistenzialismo – filosofico, letterario o artistico che sia – a cavallo tra Ottocento e Novecento può essere inteso, e tanto più col senno di poi, come un fenomeno che non ha niente a che spartire con la profonda frattura venutasi a creare, già in quell’epoca, tra modi di vita umani istaurati dalle rivoluzioni industriali e ritmi naturali?

Il vero scarto rispetto alle atmosfere munchiane è in un particolare quasi banale: qui manca pressoché del tutto il picco dell’urlo, e forse solo i due dipinti che recano frammenti di un quotidiano potrebbero portarne un’eco; qui siamo piuttosto al prima dell’urlo, sulla sua soglia. Rispetto ai tempi di Munch infatti le condizioni psico-percettive dell’uomo sono cambiate. Siamo saturi di urla di plastica e di pixel! Urla reali quanto una immagine di Andy Warhol, pronta a dissolversi in un attimo nella nauseante iperproduzione di immagini già profeticamente denunciata da Jean Baudrillard diversi decenni fa. Siamo saturi insomma di urla simulate, urla cui non corrispondono ferite. Può darsi che nel tempo della ferita estrema, essa risulterà così profonda che non resterà più fiato per urlare…


Biografia di Stefano Taccone


 

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