STEFANO TACCONE, Le acque cangianti nel canale del tempo

Il 9 settembre del 2019 Alfonsina Caterino, sollecitata nel corso di una intervista rilasciata a Giorgio Moio circa i suoi progetti futuri, risponde: «Un poemetto – un libro a cui tengo molto perché la sua gestazione e nascita mi ha consentito di comprendere che la poesia è lo strumento eccezionale per rinnovare la vita e sdoganarla dalle limitatezze da cui è perpetuamente accerchiata. Il titolo provvisorio è Blu. Non so se lascerò questo. Blu è un viaggio che tocca gli angoli più cruenti e delicati della vita, fra consapevolezza e immaginario. Esso avvince per la tenacia con cui sussurra agli uomini di non smettere mai lo scavo profondo, quello da cui si estraggono i diamanti la cui chiarità splende il nuovo – è un viaggio costituito dai fatti che ritornano in memoria sfarinati, come il castello costruito nel tempo dell’ignavia».

Esattamente due anni più tardi esce Il tempo non disperde (Edizioni Frequenze Poetiche, Giugliano in Campania, 2021), definibile appunto come poemetto, o testo che «contiene poesie legate tra loro da flussi mnemonici raccordati di realtà contemporanee, post-contemporanee, visionarie […]», raccogliendo l’indicazione dell’autrice stessa. È possibile intendere il mai ‒ non ancora? – pubblicato Blu come una sorta di versione embrionale del poemetto che poi effettivamente vede la luce? Ponendo mente alle parole attraverso le quali Alfonsina lo prefigura viene più di un sospetto. Il tutto naturalmente, nell’intermezzo, è passato al filtro del formidabile crollo dei punti fermi – forse più apparenti che reali – che la pandemia produce.

Il poemetto possiede l’andamento di un corso d’acqua, un fiume che scorre in moderata pendenza: la parola non ristagna, ma neanche corre sulle onde e le turbolenze di una rapida. Certo non è un flusso costante: è fatto di contrazioni e dilatazioni. Inoltre sembra registrare tutti i bianchi e i bruni, le mezze tinte e i colori che le sono attorno. La scrittura – come l’acqua – pare possedere una naturale trasparenza e tale qualità è appunto sempre pronta a restituire i riflessi di ogni differenza cromo-morfologica, senza però intaccare la sua costante struttura, palpabile quanto un liquido.

Il fiume di Alfonsina è quello della sua vita, o forse meglio ancora della vita tout court, perché i dolori, le ansie, le ferite del proprio vissuto non sono che altrettanti sensori che, sviluppati, ti rendono maggiormente in grado di capire e carpire i gemiti del mondo. Dunque storia individuale e storia sociale camminano insieme e si compenetrano, perché la donna – e l’uomo ‒ è animale sociale sempre, meglio ancora è fibra della società e neanche un impermeabile d’acciaio potrebbe astrarla da tale relazionalità, incluse le sue controindicazioni. Ce lo ha insegnato, se non altro, proprio il tempo pandemico: e la parola virus è inevitabilmente qua e là presente, così come ricorrono parole quali web, chat, Database, whatsApp, skype, videochiamate, like, post, password, mouse. Queste ultime in verità ci accompagnano da quasi un quarto di secolo, eppure hanno conosciuto una sorta di escalation fino a rischiare di recente di identificarsi pressoché con la socialità tutta.

Ma la via d’uscita alla reclusione coatta non è mai stata soltanto quella tecnologica. I poeti, nel senso più ampio del termine – ed Alfonsina lo è in senso lato e in senso stretto – quando non possono deambulare e incontrare nello spazio fisico si rifugiano nel loro caleidoscopico spazio interiore fatto di sdrucciolevoli scritture del tempo. Lì l’inchiostro può sbiadire e trascolorare, qualche frammento può tramutarsi in appena leggibile, oppure non più tale. Non di meno nell’interiorità il poeta custodisce un tesoro, per quanto alcuni “gioielli” possano essere puntellati di spine ed è necessario indossare guanti opportunamente spessi per maneggiarli.

A tale luce riesco ad intendere il titolo dell’opera: se, riprendendo ancora la similitudine del fiume, Eraclito sostiene che non possiamo immergerci due volte nella stessa acqua, Alfonsina sembra in parte mettere in critica tale visione, rispondendo che il flusso tempo-vita, per quanto continuamente cangiante, trova il suo scrigno nella persona di spirito ‒ «un testo che nasce dentro come la gestazione di un figlio», suggerisce ancora, più pianamente, l’autrice. Il passaggio successivo disegna una sorta di movimento inverso: è come se il soggetto praticasse accorti forellini in tale forziere di carne onde lasciar zampillare l’aureo sangue della vita passata al vaglio della memoria, della consapevolezza e soprattutto del sentire. È una sorta di processo alchemico in cui l’apparente povertà, se non crudezza, dell’esistenza si trasforma in materia preziosa. E tutto ciò ha costituito una risorsa vitale nei mesi e mesi senza luce della paura globale del prossimo, una alternativa radicale all’alienarsi in una socialità fatta di account che hanno quasi completamente eroso i corpi, un po’ come circa mezzo secolo fa Jean Baudrillard parla di significanti che hanno assassinato il loro significato e ora non rimandano ad altro che a se stessi.

Pagano e cristiano, materia e diafanità, buio e luce, morte e vita si affrontano continuamente in un prodigioso duello, ma anche trovano momenti di conciliazione, in una dimensione in cui una palingenesi totale è indisponibile, perché essa non sarebbe che la realizzazione piena della poesia e dunque la sua scomparsa. Così ci imbattiamo in brani come il seguente: «- Conoscere il Figlio / sapere la sua supremazia sul male / ingiunge domande, annota il sogno sul / taccuino astrale; interpreta parole e caverne / pietra che principia tra fasci di luci e / grandi navate, la spada che infilza Amore / nel Costato e gli occhi, in una grande cattedrale». Ma anche in passi simili: «Il paesaggio estirpa / all’alibi indecifrabile, la custodia dei /desideri nel bisogno di esaudirli, tra inferi / e salmi sulla pelle che scorticano / In alto scorgo la finestra sgangherata / che mi ha ammutolita statua trapunta /di bugie, lallazioni e sassi, ho risalito / volte alle promesse e congiunto ai / rovesci – Le fate prive di capelli turchini / ho torturato per vendetta, stanate nei / castelli a mezzanotte abusavano i colori / banchettando lune piene col terrore /alticcio che incanta il tempo, lo / imprigiona spettro … / … L’esperienza è inventario». È possibile, in altre parole, individuare in alcuni susseguirsi di versi il prevalere di un sentire diurno, speranzoso, liberatorio, mentre in altri potrebbe leggersi la supremazia di un umore generale notturno, sospeso, ove non paiono intravedersi sbocchi immediati.

Eppure la poesia di Alfonsina si tiene lontanissima da ogni tentazione di binarismo manicheo. Tutto è sempre in farsi, ogni compimento è nella migliore delle ipotesi una tappa vinta, mai la vittoria dell’intera gara. Da qui la fatica ad individuare qualunque netta progressione, un centro ed una periferia, un momento orgasmico ed uno di distensione. Certo ci sono momenti di minore tensione, ma non sono più che minimi intervalli conformi ad ogni ritmo biologico, necessari per riprendere fiato e poi reimmettersi nel flusso. Parimenti il lettore vive annodato al palpito del dettato poetico, abbandonandosi al suo sempre divergente ma mai troppo contrastante incedere. Un ruolo non secondario nell’economia generale dell’opera gioca peraltro l’ambivalenza semantica di certi lemmi, specie in virtù del rinforzarsi reciproco di due parole consuetamente discordanti, procedimento che ricorda la logica dell’accostamento dei colori complementari per ottenere maggiore luminosità su cui si fondano gli impressionisti, i post-impressionisti ed oltre: «Inavvicinabile una voce perenne / sussurra contraddizioni stupefacenti o infelici / ritaglia gorghi / raffina croci, intesse rotture /specchia risvegli /ascende alberi /divampando bivi senza fine»,  oppure  «- Un falco smeriglia il becco alla finestra / perfora i vetri, mi strappa la maschera / disperdendomi diversa / incompiuta … / … In devozione ai commiati / scruto visi chiedo carezze /si toccano suicide / come nel giorno dei morti / i campi disorientano l’erba, la / strappano al plauso e ostentano / così il mio corpo / insidia il senso / lo addenta». Quanto possono risultare perturbanti, e quanto invece ossigeno, ad esempio, i “bivi senza fine”? E un falco che strappa la maschera è servizio gradito o gesto temibile?

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Alfonsina Caterino

Il tempo non disperde

Edizioni Frequenze Poetiche, 2021, pp. 80

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Biografia di Stefano Taccone

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