STEFANO TACCONE, A tu per tu col multiforme autunno

Non c’è stagione dell’anno sulla quale non si sia scritto in tante forme e tanto più in versi, eppure se dovessi indicarne la meno inflazionata delle quattro sceglierei per esclusione proprio l’autunno! Per quale motivo? La stagione comunemente più amata è senz’altro la primavera, sinonimo peraltro di giovinezza e dunque di leggerezza, possibilità, attesa di bellezza che trovi il suo compimento. Subito dopo viene l’estate che è indubbiamente la stagione meglio assimilabile al paradiso e quindi al compimento che nella stagione precedente si prospetta e si annusa soltanto. Non di meno l’estate delude come tutte le attese di perfezione che trovino cittadinanza nel nostro mondo. Almeno nell’Italia meridionale – dalla quale proviene sia Sabatina Napolitano che il sottoscritto – molta vegetazione che in primavera perviene al massimo del suo rigoglio con il passaggio all’estate non fa che ingiallire, anticipando così di fatto il tempo autunnale. Infine l’inverno fa rima con inferno ed è effettivamente legato, fin dai primordi dell’umanità, al rischio e al dolore; è qualcosa da superare indenni più che godere nel suo presente, ma si sa che la scrittura, e la poesia più che mai, trova grande alimento nelle asperità. L’autunno invece? L’autunno sta alla vecchiaia come – si è detto – la primavera alla giovinezza. Si pensi ad uno dei più celebri libri dello storico svizzero Johan Huizinga che per parlare del periodo finale del Medioevo prende in prestito proprio tale stagione (1919). L’autunno, come la vecchiaia – e forse ancor meno perché la morte è un enigma anche carico di speranza –, è un tempo in cui pare non ci si possa aspettare nulla o almeno nulla se non qualcosa di peggiore – l’inverno appunto – in quanto radicalizzazione della metamorfosi autunnale in direzione del raffreddamento del clima e dell’accorciarsi delle ore di luce.

Non la pensa però esattamente così, probabilmente, la Napolitano che nel suo Scritto d’autunno (Ensemble, Roma, 2019) fa sì che tale stagione assurga a vero e proprio oggetto-soggetto plurimorfico, acquistando, scrive ella stessa nella postfazione, «delle connotazioni umane in alcuni momenti di grazia e purificazione», mentre «in altri è il correlativo naturale della stagione autunnale». In questa prima direzione antropomorfa – ed oserei dire andromorfa ‒ si annoverano passaggi come i seguenti: «dormi accanto a me con parole di filosofo / mentre è solo tua ogni mia parola / detta ad alta voce, ogni mia penombra / che si ama in un quadro di me e di te»; «tremi quando un abito scollato / ti dice che puoi ancora stringermi»; «Finalmente mi prendi i fianchi / ti sbottono lentamente la giacca mentre guardi / il soffitto. Anche nei giorni freddi / ne hai lasciate tante quindi, / ma non hai lasciato me». Per la seconda includerei i riferimenti a fenomeni fisico-atmosferici: «Come capita una direzione: / pioverà ancora e quindi il mondo non cade sotto la pioggia. / È solo pioggia a piovere»; «La neve non importa più a nessuno, / se non è capace a riempire il silenzio»; «L’autunno è questo caldo di oggi, / il disordine delle finestre», ma più in generale una atmosfera complessiva che possiede qualcosa dell’eredità della poesia crepuscolare. Da una parte, del resto, l’autunno è forse il tempo più crepuscolare che esista, con la sua luce che non è certo zenitale ma neanche assente; esso è il tempo di una luce smorzata, pallida, di penombra. Dall’altra l’attraversamento-riflessione delle piccole – ma grandi – cose del quotidiano – benché il quotidiano della Napolitano non sia un quotidiano tipo, ma sia assolutamente non esente da connotazioni-motivi-immagini-mondi ricorrenti – unito ad una conclamata diffidenza per la dimensione socio-politica, intesa evidentemente come qualcosa di macro e di eccedente rispetto all’orizzonte di espressione letteraria da lei abitato ‒ «Non credo nell’ossessione del posizionamento dell’io, non credo che la politica infranga il campo della poesia: sono linguaggi diversissimi con diverse funzionalità. Credo invece nella riflessione sociale e antropologica subordinate all’impronta letteraria di una poetica, credo nei sentimenti», scrive nella nota che precede il corpus della silloge.

Già, ma qual è la struttura della silloge? La medesima nota ci avverte che essa, componendosi «di diverse raccolte poetiche scritte negli anni successivi al 2015», «citazioni da testi pubblicati sul blog letterario “Poetarum Silva” col titolo Mani rosa e nell’antologia di “Arcipelago Itaca”, Secondo repertorio di poesia italiana contemporanea», è ripartita «in cicli di quattro poesie e una prosa, che sono divisi e uniti tra loro da un intervallo poetico che mantiene il progetto in una forma unitaria». In effetti tra le une e le altre parti è difficile cogliere un netto distacco, in quanto la poesia della Napolitano è qualcosa di liminare, già in una certa misura tendente al prosastico sia sul piano delle forme che dei contenuti: si vedano le misure dei versi spesso assai prolungate, nonché la circostanza per cui – come suggerisce il critico e poeta Gabriel Del Sarto nella prefazione – tutti i testi sono uniti da «un dettato ritmico e filosofico più che narrativo». È dunque un trapassare ciclico sensibile ma non brusco, una alternanza che si avverte come naturale e più si procede nella lettura e più si entra in questa ritmicità che manca però felicemente di una particolare progressione. Se l’autunno «è sempre un tempo in cui pensiamo all’eternità» -come recita il primissimo verso di questa silloge -, di tale pur mai pienamente attingibile dimensione si fa figura l’intera estensione dell’opera, ove «le aperture di senso magnifiche e vorticose», che giustamente Del Sarto ritiene questa raccolta sia in grado di donarci, non sono in contraddizione con la sua uniformità e mancanza di centro, unita alla riluttanza nei confronti dello spettacolare, del roboante, del frastuono che rimanda ancora una volta evidentemente ai tratti più tipici del crepuscolarismo storico.

Tale antigerarchica struttura apre la via ad un discorso sul quale pure il prefatore insiste molto, parlando di «inquietudine di chi non sente più riconoscibile il lavoro di poeta», di un soggetto «complesso e disarticolato», di riflessione su «quanto sia ormai precaria ogni possibilità di struttura e di senso», di «destabilizzare il linguaggio e la sua logica diurna». Tutto ciò però – assolutamente coerente con la generazione dell’autrice, nata nel 1989, ovvero in avanzata condizione postmoderna – rappresenta solo una polarità della poetica della Napolitano. Essa non è infatti in nessun modo assimilabile ad una eclissi totale dell’io e del senso, per quanto fratti, rifratti e rarefatti. Questo movimento contrario va individuato – tra l’altro – tra le maglie dei numerosissimi riferimenti allo scrivere e alla poesia stessa, all’oggetto libro: «Per esempio potrei trovare molte cose / in un libro con molte sezioni. / C’è sempre da cominciare presto qualcosa, / rifarsi gli occhi, le rughe, il viso, rifarsi il corpo e la pelle, come le sezioni di un libro»; «Mi chiedi di spiegarti pagine / che non hanno senso, / ho un portapenne a forma di pietra, / srotola un gomitolo di ugole / ogni volta che prendo una penna, / l’altro giorno / l’ho trattenuta una / perché avevo appena finito di scrivere a mano»; «Ho un elenco di editori, mi manchi come l’aria»; «Scrivo, contemporanea a te, scrivo / qualcun altro non lo capisco, non mi interessa»; «La poesia a parte, / incontro un traduttore, gli chiedo / se le mie esperienze culturali vanno bene / se il mio presente è collettivo e intellettuale»;  «Scrivo poesie, è anche questo il mio lavoro. / Quello che a volte mi piace / osservare negli altri / è come accarezzano i libri».

Altri territori in cui senz’altro tratti specifici di soggettività si manifestano mi piace individuarli nei riferimenti a differenti linguaggi artistici, quelli visivi, per i quali la Napolitano non dissimula una certa sensibilità, benché talvolta frustrata dalla coscienza di non carpire a pieno alcune sollecitazioni: «Questi personaggi sembrano il fac-simile / di una pittura astratta, riuscita male: / ogni luce scolorisce e perde mitologia. / Il giallo limone non ha alcun effetto psichico, / nemmeno i colori comunicano / necessità interiori, non è paragonabile / all’interno di una natura di Dalì o Tanguy/ e queste pennellate del valere / di pelle allegorica: sanno di scoperte di errore»; «A volte ho rimpianto di aver visitato diverse gallerie / e di non essere stata capace di viverne pienamente i sensi / della pittura. Mi manca il senso dei dipinti, / mi manca il suono / della pittura. Un vestito blu è solo un vestito blu, / come una camicia blu, come le gallerie aperte: / io ero lì ma la pioggia non ha memoria»; «i nostri corpi sanno di promesse / anche se nel giorno ci saranno disagi e disequilibri, / tenero e forte, non è più /come un sole di autunno di Schiele, / né fuori tutto è come la foresta di autunno di Courbet»; «Il paesaggio potrebbe diventare blu in poesia / come nei quadri d’autunno di Kandinsky / e noi due saremo il punto di fuga».

Qualche parola infine andrebbe spesa sulle già accennate riserve che l’autrice esprime nei confronti del politico e del sociale in favore dei sentimenti, giacché esse vanno correttamente intese. Si sa infatti che è stata la donna, tradizionalmente relegata nel lavoro di cura, a scoprire che il personale è politico, come recita uno dei più celebri e ormai classici slogan femministi. A questo si aggiunga la nefasta e sempre più spinta erosione del limite tra privato e pubblico, che per alcuni sarebbe una chiara dinamica di recupero da parte dei poteri dominanti delle narrazioni sovversive dei tempi d’oro della contestazione. Rifiutando il politico e il sociale, forse più in generale il collettivo e le sue possibili implicazioni, compresa la denuncia, la rivendicazione etc., la Napolitano compie dunque una scelta che è meno impolitica che diversamente politica, proprio perché la rivendicazione di una intimità, di uno spazio non contaminato nel bene e nel male da uno sguardo-controllo di una sfera pubblica in cui l’autore – l’intellettuale, si diceva una volta ben più a ragione di oggi – prende posizioni chiare su questioni di interesse collettivo – atti di fronte ai quali, abbiamo inteso, la poetessa si mostra riluttante – in questo momento storico – segnato quanto mai dall’inflazione dell’opinione, dall’accavallarsi nefasto di voci senza pensiero, di volti senza identità profonda; i social naturalmente sono il vero paradigma di tale condizione – non appare priva di senso, né si pone a troppa distanza dal pur non sempre condivisibile motto beuysiano La rivoluzione siamo noi.

Sabatina Napolitano

Scritto d’autunno

Ensemble, Roma, 2019, pp. 90

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Biografia di Stefano Taccone

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