SIMONE REBORA, Lettura di Stecca, mutismo, e rassegnazione. Storia di una naja non tripudians di M. Palladini

Nell’introdurre la raccolta poetica È guasto il giorno, pubblicata da Marco Palladini nel 2015, Marcello Carlino insisteva su una “possibile dicibilità della contraddizione”, realizzata dal poeta attraverso due approcci complementari: da un lato, il remare “in direzione ostinata e contraria” a una realtà che ci vorrebbe sempre più omologati e/o rassegnati, dall’altro, il non temere l’opportunità di contraddire anche sé stessi, alla ricerca di nuove forme espressive ma anche, e soprattutto, di un postremo e imprevedibile spiraglio di luce al fondo dell’abisso.

Leggendo il suo romanzo più recente, Stecca, mutismo e rassegnazione, si ha la riconferma di come, negli ultimi anni, Palladini abbia focalizzato un’attenzione crescente su questo approccio alla letteratura e alla vita, andando fino a ricercarne le radici più profonde. In un libro che si mantiene sapientemente a metà strada tra l’autofiction e il romanzo-saggio, infatti, il poeta/scrittore/performer s’impegna a ricostruire la Storia di una naja non tripudians non tanto e non solo per criticare una pagina passata – ma affatto “chiusa” – della storia sociale nazionale, quanto piuttosto per riscoprire le ragioni di quel cambiamento epocale – tanto nell’io quanto nella società tutta – da cui è scaturito un nuovo modo di vivere e scrivere. Il servizio militare svolto nel 1980 è così rievocato senza mancare gli strali polemici più velenosi, ma anche ricercandovi, con sguardo socio-antropologico, i motivi che ne hanno segnato il successo nella storia umana più recente e perfino – in aspetti certo minoritari ma, vedremo, affatto trascurabili – nell’avventura poetico/artistico/letteraria di Marco Palladini.

Sul piano formale, il romanzo non manca di stimolare la lettura, offrendo continuamente nuovi scarti e prospettive, ben lontane dall’inevitabile piattezza del racconto memorialistico. L’autore si diverte a inframmezzare le sezioni narrative con ampie digressioni di taglio saggistico e/o giornalistico, ma anche con “documenti” della scrittura aspra e riottosa di quegli anni, con tanto di dialoghi “in presa diretta” e “radiocronache” di match pugilistici. Tale sistematica disomogeneità si trova riflessa anche sul piano linguistico, che abbonda sia di intemperanze che di ricercatezze, generando infine una prosa tanto agile e controllata quanto scattosa e caco- (o meglio “kako-”) fonica. Una simile tendenza (almeno a livello strutturale) sembra crescere con il procedere della narrazione, che giunge infatti a un’apparente, finale disgregazione (laddove l’autore ammette di non ricordare più nemmeno gli eventi ripetuti nel grigiore dell’esperienza militaresca), per poi culminare in un’elucubrata “sconclusione”.

Verrebbe quasi naturale includere il titolo nella tradizione dell’anti-romanzo di formazione, ma Stecca è ancora più di questo. In primo luogo, vi è uno scarto quasi ironico nella costruzione del protagonista: Michele Parravicini è un chiaro alter ego dell’autore, ma lo è in una maniera così smaccata, da mettere quasi in dubbio l’utilità di un simile travestimento. Ma è ancora una volta l’opera più recente di Palladini a venirci in soccorso, laddove il critico teatrale di Prove Aperte (raccolta edita in due volumi tra 2015 e 2017) sottolinea come ogni atto di interpretazione, tanto di un testo altrui quanto del proprio spirito creativo, si sviluppi attraverso un “pasto cannibalico”, un “rimasticare, digerire e rivomitare fuori” che pone l’io non all’apice, ma al cuore del processo. La distanza Palladini/Parravicini, dunque, è tanto sottile quanto abissale, nel senso che la messa in scena dell’io si realizza attraverso uno scarto continuo dalla semplice identità – non a caso, più adeguatamente rappresentata da una molteplicità dissonante di “ii”. Se l’identità del singolo non è riducibile a unità – né tanto meno a una successione di parole su un foglio –, è proprio rigettandola continuamente al centro, che quelle parole potranno arrivare a toccare il loro vero obiettivo: dal centro alla cornice, dalla cornice fino all’insieme. Che è lo spirito di un’epoca, una condizione antropologica, o la stessa domanda esistenziale che motiva l’essere scrittore, poeta e artista.

Passando a una lettura più ravvicinata, le tracce instabili e multiformi di questa tensione inesausta emergono a molteplici riprese, senza però mai conquistare l’interezza del discorso, all’interno del quale il lettore – un po’ paradossalmente – può sentirsi quasi a proprio agio.

È quanto succede per esempio nelle estese sezioni in cui le peregrinazioni senza meta di Michele/Marco sono descritte nei minimi dettagli, quasi in una guida anti-turistica a città come Venezia e Padova, fino a concludere che «più girovagava senza meta e più si sentiva a suo agio con se stesso, più percepiva una euritmia del suo essere», quasi che proprio la dispersione fosse veicolo primario per ricostruire un’identità in crisi. Ricostruzione che si sviluppa tra l’altro non senza contraddizioni e lacerazioni interne («Un soggetto controcorrente sì. Ma che remava contro senza alcuna idea di dove andare a parare»), eppure riscoperta in tutto il suo potenziale, se proprio nella “Sconclusione” Michele orgogliosamente si descrive come «soggetto oppositivo e proclive alla contraddizione, destinalmente votato allo scacco […] eppure nonostante tutto ancora attivo e reattivo», che afferma la necessità di «essere lottatori continui, […] forse in primis verso se medesimi».

Non sarà casuale, dunque, l’ampio spazio riservato alla passione di Michele per la boxe (con la già accennata radiocronaca dello storico incontro Alì-Foreman), definita non solo come sport, ma come “palestra di etica, di noetica e anche di estetica”. La boxe, oltretutto, diviene uno dei veicoli primari per quella comunanza antropologica con pochi “spiriti affini” (come l’ironicamente disperato Massimone, o i burloni “compagni di sventura” Forlivetti e Mercurio), che è forse la più grande rivelazione dell’esperienza najesca per Michele. Paradossalmente, è proprio al cuore del tanto detestato e contrastato meccanismo della vita militare, che s’innesca la scintilla destinata a durare più a lungo, oltre i limiti stessi del racconto.

Ma per venire al soggetto principale del romanzo, la naja, bisogna notare come, per quanto sul piano quantitativo essa sorpassi abbondantemente tutti gli altri temi, sul piano degli equilibri narrativo-concettuali risulti piuttosto secondaria, strumentale a rivelazioni di ben più ampia portata. È soprattutto nella seconda parte del romanzo, che la varietà prende il sopravvento, e quello che era partito come un resoconto critico delle storture, contraddizioni e ipocrisie del sistema militaresco, si espande a quadro di più vasta ambizione. Michele giunge perfino a riconoscere gli effetti positivi di quell’esperienza (almeno per una parte del suo io molteplice), “come se capisse che di fronte all’angosciosa precarietà e volatilità dell’esistenza, anche quell’acquattarsi da cimice nel corpaccione dell’esercito era qualcosa, ti dava l’illusione di una sicurezza”. Naturalmente, questo non è affatto un riconoscimento di improbabili proprietà “terapeutiche” per un fenomeno che il romanzo analizza e disseziona mostrandone soprattutto le ricadute più deleterie su chi ne fa esperienza. Ancora, è piuttosto in quella vocazione irriducibilmente antagonistica del protagonista (e autore del romanzo), che si scopre l’effettiva “positività” di quell’esperienza, nel senso di avversario contro cui lottare, chimera fondamentalmente imbattibile, ma che stimola al contempo la ricerca di nuove forme per la lotta.

Come sottolineato al principio, infatti, Stecca ricostruisce soprattutto un momento di frattura, una fase di passaggio tra due stagioni nella vita e tra due ragioni per la vita: da un lato, la fede nell’ideologia politica (che giunse fino a sfiorare l’impegno nella lotta armata), dall’altro, lo slancio verso la creazione artistica, come possibile via di riscatto – ma non certo di salvezza. Marco/Michele non esita a definire “suicida” l’apice estremo della lotta armata (corrispondente all’uccisione di Moro), ma non cerca per questo un presunto “rifugio” nell’arte e nella letteratura. Uno dei capitoli più strazianti è dedicato proprio all’attentato nella stazione di Bologna, la cui bruciante realtà è vissuta in prima persona dal protagonista, incapace poi di riprendere una lettura céliniana: «Leggere mi dava la nausea. Anche la letteratura non ti mette al riparo dalla realtà. […] La realtà teterrima annienta l’arte». E pure nei capitoli di taglio più spiccatamente saggistico, ampio spazio è dedicato per esempio al postmodernismo, di cui Marco/Michele riconosce il fascino, ma sottolinea anche la vacuità e l’intima insidiosità (veicolo non a caso dei futuri splendori del berlusconismo) e anche l’affresco della società “colta” contemporanea non manca di profondi appunti polemici: «c’era un sacco di gente che non aveva niente da dire, epperò lo diceva benissimo». Ancora una volta, insomma, arte e letteratura non sono affatto soluzioni pacificanti (e pacificate) per la ferita aperta del vivere, ma suggeriscono nuove opportunità di scontro e contraddizione – e pure il “populismo paternalistico” di Pasolini non è risparmiato dalla querelle.

Infine, assieme a tutto questo, Stecca è anche la storia di un amore (o della fine di un amore), che s’intreccia con regolarità alle vicende della vita militare. La lenta disgregazione del rapporto con Giovanna, destinato a finire già dalla prima pagina del romanzo, è analizzata con quella lucidità che solo la distanza fisica e temporale può consentire. Al contempo e in contrasto, le avventure erotiche del giovane militare sono descritte con intensa vividezza e con una dovizia di particolari che rasenta quasi il pornografico. Questo non per solleticare impropriamente l’interesse dei lettori, ma per confermare quanto la varietà (di registri, di contenuti e di pensieri) sia momento fondante non solo per un romanzo, ma per la creatività tout court, che non può e non deve chiudersi di fronte a nulla. Così Marco/Michele «riutilizzava tutto. La vita (degli altri, ma… pure la sua), sottolineava, è come il maiale, non si butta via niente». E, non a caso, la narrazione si conclude su un sintagma (“farsi divorare dalla vita”) che è quasi una dichiarazione di poetica. Al pari del critico che divora e rivomita, l’uomo/scrittore è divorato e rivomitato da ciò che vive e scrive: senza il timore di avere le mani sporche o la divisa inappuntabile, è infatti in questa proteiforme mobilità che il suo essere trova ragione e che, forse, anche noi possiamo trovare un nutrimento per la nostra anima.

 

Marco Palladini
Stecca, mutismo, e rassegnazione. Storia di una naja non tripudians
Editrice Zona, Lavagna (GE), 2017, pp.
/ 5
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Una risposta a “SIMONE REBORA, Lettura di Stecca, mutismo, e rassegnazione. Storia di una naja non tripudians di M. Palladini”

  1. Sottoscrivo totalmente la recensione. Simone Rebora ha giustamente messo in guardia il lettore, orientato verso il romanzo di formazione e il resoconto memorialistico e insomma l’appiattimento operato dal realismo di tanta narrativa.
    Si può dire che il romanzo di Palladini, pur non andando propriamente sotto l’etichetta di sperimentale (come altri suoi lavori), lo sia poi a tutti gli effetti.
    Chiarito una volta per tutte il carattere disomogeneo dell’opera (che lungi dall’essere un difetto diventa il suo pregio), così come il complesso rapporto che intercorre tra io e alter ego nel loro multiforme frangersi, non si può fare a meno di cogliere il lavoro nel suo vero spirito, ovvero quello della contraddizione e dello scarto come nuclei vitali di arte, vita, politica…

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