SIMONE DI BIASIO, Non fermate l’hate speech della poesia

«Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana». Se non svelassi l’autore, la constatazione sembrerebbe scritta domani, e farebbe anche parecchio sorridere. Però una paresi mista a mestizia ci prende scoprendo che a scriverla fu Giacomo Leopardi, mentre studiava le lingue, le stelle e l’infinito. La citazione è contenuta nel libro postumo “Pensieri”, edito nel 1845 grazie all’amico Ranieri. È desunta da un altro volume che ha un titolo ancora più paradigmatico: Come smettere scrivere poesia (Lithos). È del 2011, qualche anno prima del recente Odiare la poesia (Sellerio) di Ben Lerner, ed è peraltro scritto efficacemente da un italiano, il professore Francesco Muzzioli. Irriverenza e concretezza sono alla base di un libro esilarante e imprescindibile per (non) prendersi sul serio. «Le statistiche ci parlano di 12.000 casi. Accertati: perché poi potrebbero essercene tanti, altrettanti, casi rimasti nascosti oppure sul punto di esplodere. (…) La chiamerò “tabe poetica” per imitazione dalla “tabe letteraria” di Gozzano, il quale già un secolo fa riscontrava la malattia». I malati sono proprio i poeti nell’epoca degli influencer in cui il «Il fattore patogeno è da cercare nel privato».

Un tempo fecondo, questo, per l’hate speech sulla poesia. Secondo Ben Lerner: «I grandi poeti sfidano i limiti delle poesie reali, sconfiggono strategicamente o quantomeno sospendono quella realtà, a volte smettono del tutto di scrivere e vengono onorati per il loro silenzio; i pessimi poeti lasciano inconsapevolmente intravedere un barlume di possibilità virtuale grazie alla loro assoluta incapacità; i poeti d’avanguardia odiano le poesie perché restano poesie invece di diventare bombe; e i nostalgici odiano le poesie perché non fanno più ciò che loro, a torto, sostengono facessero un tempo. Sotto il termine “poesia” si raccolgono una serie di richieste interconnesse: quella di sconfiggere il tempo, di fermarlo con grazia; di esprimere l’individualità in modo che possa essere riconosciuto socialmente o, come in Whitman, di raggiungere l’universalità diventando irriducibilmente sociali, non più persone ma tecnologie nazionali; di sconfiggere il linguaggio e la scala di valori della società esistente; di proporre una misura del valore che vada al di là del denaro. Ma una cosa che tutte queste richieste hanno in comune è che non potranno mai essere esaudite dalle poesie materialmente esistenti. Odiare le poesie reali, quindi, è spesso un modo paradossale, ancorché a volte inconsapevole, di testimoniare la persistenza dell’ideale utopico della Poesia, e in questo senso anche le geremiadi sono un modo di difenderlo».

Quanti hanno odiato il bambino in piedi sulla sedia a natale pronto a declamare versi in rima dal dubbio valore artistico? In quanti siamo stati quel bambino? Forse a questo si riferisce Lerner quando scrive che «La crudeltà della logica poetica è tanto più dolorosa in quanto fin da piccoli ci hanno insegnato che siamo tutti poeti in virtù del semplice fatto di essere umani» e che in fondo «C’è imbarazzo nei confronti del poeta – non sei capace di trovarti un lavoro vero e lasciarti alle spalle queste bambinate? – ma c’è anche imbarazzo da parte del non poeta, perché dover ammettere la propria totale alienazione dalla poesia stride contro l’antica associazione fra la poesia e l’identità umana». Astio? No, è profondissimo rispetto. Come quando si ama un dio per un qualche prodigio, ma non si riesce perfettamente a mal volerlo quando tale prodigio non si avvera, o persino accade il suo contrario. «I poeti sono bugiardi non perché, come dice Socrate, possono ingannarci col potere delle loro imitazioni, ma perché definirsi poeta implica che si sia in grado di superare la logica crudele del principio poetico, e invece non è possibile. Si possono solo comporre poesie che, se lette con perfetto disprezzo, creano uno spazio per la Poesia autentica destinata a non manifestarsi mai».

Certo che la poesia è incredibile, nonostante «Molta più gente si trova d’accordo sul fatto di odiare la poesia di quanta concordi nel definire cos’è». Tanto che tre autori così lontani tra loro si sono trovati a scrivere quasi le stesse pagine. Il terzo in causa è Alexander Pope, che nel 1728 pubblicò il “Perí Bathous”, ovvero “L’arte di toccare il fondo in poesia”, oggi riproposto da Adelphi col titolo I bassifondi della poesia. Pope si diverte molto: «La poesia non è altro che una secrezione naturale o patologica del cervello. Così come non mi sognerei di impedire d’un tratto a un raffreddore di avere il suo corso o di asciugare le suppurazioni del mio simile, allo stesso modo non posso ostacolare la sua necessità di scrivere». Perdipiù intravide il futuro: «Temo che molte poesie non siano altro che le innocentissime composizioni di qualche ministro». Viene in mente qualcuno? Esatto. Infine propone una classificazione di “zoo-poeti” da appendere in cameretta o all’università:

 

  1. I pesci volanti, gli scrittori che ogni tanto riescono a sollevarsi sulle loro pinne e a guizzare fuori dalle profondità;
  2. Le rondini: autori che svolazzano di continuo su e giù, sfiorando la superficie, e sfruttano tutta la loro destrezza nell’acchiappare le mosche;
  3. Gli struzzi sono coloro che riescono di rado a staccarsi dal suolo, a causa della loro pesantezza;
  4. I pappagalli ripetono le parole altrui;
  5. I tuffetti sono quegli autori che rimangono a lungo nascosti sott’acqua e poi rispuntano qua e là dove uno meno se l’aspetta;
  6. Le focene sono creature grosse e impacciate. Vivono in mezzo ai più grandi tumulti e alle tempeste, ma quando si mostrano alla luce del sole – il che succede di rado – si rivelano soltanto dei brutti mostri informi;
  7. Le rane sono colore che non sanno né camminare né volare, ma che saltano e balzano al primo cenno di ammirazione;
  8. Le anguille sono quegli autori oscuri che, pur essendo assai agili e disinvolti, si avvolgono nel loro fango;
  9. Le tartarughe, lente e fredde, sono amanti dei giardini, come gli scrittori bucolici.

 

Wallace Stevens scrisse che «Il denaro è una sorta di poesia», e c’è da credergli. Ma è vero anche il contrario, cioè che la poesia è una sorta di denaro. Anche secondo Muzzioli «La speculazione finanziaria non è certo meno immateriale della poesia, i trucchi dell’amministrazione non meno inventivi». Guardando le opere dell’artista Justine Smith, si può comprendere meglio questo concetto. In fondo il denaro è solo carta, o meglio: ci siamo accordati sul fatto che decreti il valore di un pezzo di carta. E i versi non fanno lo stesso? La poesia è una sorta di discorso, parafrasando Stevens, eppure siamo d’accordo che essa imprima un valore maggiore al discorso, alle parole che compongono quel discorso (le parole sono la cellulosa del denaro). Peraltro la “mediocritas” di cui tanto s’è parlato nel mondo latino era sempre “aurea”, come il denaro. Per questo Pope si chiede: «Perché mai la freddezza e l’aurea mediocritas, qualità così amabili in un uomo, sono tanto disprezzate in un poeta?».

E se un magnate è noto su tutto il pianeta per le sue ricchezze, al contrario «La poesia rende famosi senza l’esistenza di un pubblico, una forma astratta o embrionale di fama», annota Lerner, seppure, risponde Pope, «Chi è dotato di genio potrà realizzarlo [il poema] con facilità, ma la vera abilità sta nel comporlo quando se ne è privi» perché «L’oscurità infonde un’aura portentosa e una certa dignità oracolare in un testo privo di significato». Che è un po’ come un arricchirsi con illeciti. «È proprio per la natura contraddittoria del mestiere poetico – è sia qualcosa di meno che qualcosa di più di un lavoro reale, la sua utilità dipende dalla sua mancanza di utilizzi pratici – che guardiamo con imbarazzo e disprezzo il lavoro del poeta», continua Lerner, mentre Muzzioli s’inserisce nell’hate speech a gamba tesa: «La poesia di per sé sarebbe una attività e quindi un fare (come dice il suo stesso etimo greco, derivante dal verbo poiein): il suo stravolgimento patologico consiste nel vedervi una sostanza, il “poetico” in quanto tale, che assumerebbe alcuni caratteri e non altri (privatezza, espressione, interiorità, sentimento, ecc.). E, a quel punto, scoppia l’idea che la poesia esista prima ancora che sia scritta, sia un modo di essere che contraddistingue una persona, il Poeta con la maiuscola, spiritualmente intenso, sensitivo, errante, ai limiti della santità».

Perché, ad essere onesti, «Guardiamoci intorno e osserviamo chi ammira la poesia: vedremo allora che se sono pochi quelli che apprezzano il Sublime, l’Infimo invece ha una risonanza universale ed è alla portata di tutti», sottolinea Pope. Come si scampa a questa pestilenza? Prestando molta attenzione alla metafora, che etimologicamente significa proprio “portare oltre”, dunque un potenziale agente patogeno, perché «diventa visionaria ed è quindi ammessa soprattutto quando la si suppone involontaria. Il poeta non è stato lì a cercarla, è venuta da sé (per l’appunto come un’aria che soffia: ecco i germi dell’infezione, le correnti, ecc. – mi raccomando, coprirsi bene)». E, a proposito di metafore, in un articolo così scriveva Giorgio Manganelli: «Leggendo poesie brutte si prova un senso di sollievo. Ci accorgiamo che la piega degli avvenimenti ci stava inclinando a scrivere come quella. Trovarcela davanti già scritta, è come trovarci tra i piedi il figlio che dovevamo partorire – quello con il viso storto e la bocca balbuziente. Ci ha pensato il cinesino che vende le cravatte. Noi siamo liberi. Useremo antifecondativi. La poesia brutta è sempre molto tenera o molto dotta. (…) Otto decimi della poesia moderna ci dimostrano che si può essere sciocchi in un modo non solo signorile, ma incredibilmente complicato. Credevamo che tale complicazione implicasse intelligenza. La scoperta che non è così ci dimostra che abbiamo un altro mezzo per sfuggire alla follia. (…) Taluni, invece di scrivere una poesia, si sono buttati dal quinto piano. Un gesto metaforico».

(dal blog «Minima & Moralia», su concessione dell’Autore)

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