NICOLETTA FAZIO, Le cose di Vito Moretti

Non stupisce che Vito Moretti dedichi un libro alle “cose”, visto che il suo sguardo poetico ha sempre abbracciato e accarezzato con affetto e delicatezza le cose, le piccole cose, quotidiane e amate, che appartengono alla sua dimensione di poeta, di scrittore e di uomo. Del resto per la poesia dell’autore sanvitese Giovanni Tesio ha parlato di «fenomenologia sentimentale» (nella premessa a Vito Moretti, La case che nen ze chiude, Chieti, Tabula Fati, 2013, p. 11), e in questa fenomenologia, in questa rappresentazione emotiva del mondo in cui Vito Moretti vive, tra nostalgia e malinconia, un posto privilegiato occupano le cose.

Nella postfazione e nella quarta di copertina di questa nuova raccolta (Chieti, Tabula fati, 2017), l’autore ci  indica senza mezzi termini cosa sono le cose e ci rende manifesta soprattutto la differenza tra cose ed oggetti. Le “cose” raccontano la costruzione della nostra vita, diventano espressione efficace della nostra identità e del nostro quotidiano. Gli “oggetti”, di per sé amorfi, inanimati, freddi, diventano cose col tempo, perché invecchiano con noi e assorbono parte della nostra vita, facendosi, quindi, ricordo, memoria, ruga, lacrima, carezza. Le “cose” diventano parte di noi stessi, hanno il potere di ricordare e di rievocare, sono testimoni della nostra esistenza, anzi, sono esse stesse esistenza.

Con questa dichiarazione esplicita il poeta ci regala la chiave di lettura della raccolta e ci fa intendere anche che tale rivelazione – la distinzione tra “oggetti” e “cose”, appunto – non è la meta ultima della silloge, ma il punto di partenza, dal quale si dipanano ulteriori riflessioni.

Innanzitutto bisogna dire che questo è un libro dalla doppia anima: poetica, da un lato, filosofica, dall’altro; due anime che, però, si uniscono, si fondono, divenendo un tutt’uno. Le due dimensioni, del resto, convivono in Vito Moretti, che ha una formazione e un bagaglio culturale non solo letterario, ma anche filosofico. La poesia è un abito, una veste finemente orlata che copre e riveste un’architettura solida e complessa di pensieri, studi, ragionamenti e riflessioni.

Il riferimento alla filosofia è supportato, nel testo, dal ricorso frequente, in epigrafe, a diverse citazioni (che quasi “puntellano” le poesie) di filosofi antichi, moderni e contemporanei. Tra questi ultimi viene citato Remo Bodei, che ha trattato il rapporto oggetti/cose nel suo libro La vita delle cose (Bari, Laterza, 2009), dove parla, appunto, delle cose che sono depositarie di significati affettivi, di senso, a fronte di una cultura, di una società, che le ha svuotate di significato, le ha depauperate di ogni valore, una società in cui vige su tutto la legge dell’usa e getta.

Ancor prima di Bodei, in verità, Rainer Maria Rilke aveva avviato un discorso sulle cose, intuendo quanto l’essenza dell’uomo e quella delle cose fossero intimamente legate e denunciando la perdita di valore e di senso degli oggetti, la perdita del valore intrinseco delle cose: «Il mondo si rattrappisce. Lo stesso fanno le cose» scrive (tra il 1898 e il 1919 in Appunti sulla melodia delle cose), sottolineando come l’umanità dell’uomo e la cosità delle cose siano oramai dissolte a fronte della produzione meccanica e dei tecnicismi. «Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano» prosegue, nelle stesse meditazioni, il poeta tedesco, evidenziando lo scarto con la propria epoca: la modernità, per Rilke, partorisce oggetti puramente funzionali, senz’anima e senza memoria.

Le cose, un tempo cresciute nella calma, nella ponderazione, nella cura artigiana, scompaiono rapidamente soppiantate dagli oggetti amorfi della manipolazione tecnica.

Ma torniamo alla raccolta poetica Le cose. È importante, per me, soffermarsi sugli eserghi che sono all’inizio del libro: qui Vito Moretti cita se stesso, riportando alcuni versi tratti da Principia (2015), e cita Jorge Luis Borges, riprendendo dei versi dalla celebre poesia Le cose, tratta da Elogio dellombra (1969).

Cosa ci suggerisce questa scelta operata dall’autore? Ci dice sostanzialmente due cose: la prima è che il libro che abbiamo tra le mani si inserisce nel solco della poetica di Vito Moretti, non crea una frattura, non è in contrasto con la sua produzione precedente. Anzi, citando la sua raccolta poetica immediatamente anteriore a Le cose, l’autore ci rivela anche che in Principia sono già in nuce, sono già presenti e visibili degli elementi, dei concetti, che verranno poi ripresi e sviluppati nell’opera attuale; il richiamo a Borges, invece, anticipa la riflessione esistenziale sull’uomo, sulla sua precarietà, sul tempo che passa, che è uno dei temi dominanti di questa raccolta.

Ha ragione Giancarlo Giuliani nell’affermare che «quelli di Vito Moretti sono versi carichi di potenzialità espansiva, oltre che espressiva». Una potenzialità espansiva che parte innanzitutto da quella poetica delle piccole cose (cara all’autore), nella quale trovano posto e vengono nominate le cose (il nome, l’atto di nominare è per Vito Moretti un’operazione importantissima, che posiziona nello spazio e nel tempo l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita) che appartengono e rimandano al mondo di memorie e di affetti dell’autore stesso, cose che sono simbolo della propria vicenda personale e che il poeta affida alla poesia affinché sopravvivano. Così il gelsomino, le rose, il profumo del vino bollito e delle arance, il nespolo, la collina, la cuccia del cane, la sciarpa, vanno a comporre un paesaggio intimo nel quale «la casa è la memoria che vi abita» (dalla lirica Ogni cosa, tutto, in Le cose, cit., p. 53). Ogni cosa, dunque, è tale non per sé, ma per il suo valore intrinseco, perché carica di significati, di memoria, di un valore e di un senso.

Le cose traghettano l’anima di chi le possiede o le ha possedute, emanano l’umanità di ciascuno, sono il simbolo dei legami, delle storie, dei transiti di ogni uomo. Le cose sono ganci tra persona e persona, tra fatti, tra sentimenti, tra passato, presente e futuro, in un’ideale staffetta che attraversa lo spazio e il tempo. Le cose hanno una voce, un richiamo, hanno un linguaggio che ciascuno interpreta a seconda della propria sensibilità e della propria storia, anche in base al rapporto con la cosa stessa.

Accade, poi, che in Vito Moretti le “cose” si dilatino, investendo una realtà più ampia, la società in cui viviamo, e abbracciando la storia non solo personale, ma anche collettiva. La Storia e la società odierna emergono con tutte le loro contraddizioni e le loro macchie, le loro iniquità e ingiustizie. Le cose diventano, dunque, segni per indagare e per ricercare il vero, il bello e il buono dei giorni, ma anche per rintracciare la menzogna, la non autenticità (l’intera raccolta potrebbe definirsi una lunga ricerca di senso e di verità).

Su questi paesaggi interiori proiettati nei versi c’è spesso la presenza dell’acqua, che compare in tante forme, più spesso come pioggia, temporali, scrosci, oltre che come mare, ruscelli, rivoli, ma anche come mistura di acqua e terra, come fango. Mentre il mare è indice sempre di serenità (forse perché appartiene all’orizzonte personale del poeta, che lega dunque al mare il periodo dell’infanzia e della giovinezza), la pioggia ne Le cose ha, secondo me, una doppia valenza: da una parte lava, purifica, riscatta, dall’altra diventa metafora del logorio del tempo, del suo inesorabile scorrere, di quel panta rei che porta via tutto, cose e persone. La pioggia è simbolo della nostra stessa deperibilità. «Gioca a rodere il tempo…» scrive Vito Moretti (in Per me l’anno, ivi, p. 137), con la consapevolezza di chi sa che poche cose sopravvivono al tempo beffardo e, se resistono, è perché restano soprattutto dentro di noi. A proposito della caducità e della fragilità della nostra esistenza, è significativo come nel libro ricorrano spesso verbi come scivolare, svanire, smarrire, lasciare, che sia come suono che come senso rendono la fluidità dell’esistenza, la “liquidità” – potremmo dire, usando un termine attualissimo – di ogni cosa, ma anche l’incapacità, l’impotenza umana di afferrare la conoscenza, di avere risposte a tutto.

«Ho stupore delle cose…» afferma Vito Moretti (in Era così, ivi, p. 139). Credo proprio che questa sia la risposta del poeta, l’antidoto allo scorrere del tempo, alla realtà piena di inquietudini e di smarrimenti: lo stupore, la meraviglia che bisogna riservare alle “cose”, piccole o grandi che siano, lo stupore che, attraverso la poesia, permette di arrivare là dove la ragione non riesce, abbandonandosi al mistero, all’emozione. Il linguaggio delle cose autentiche ci rivela, in fin dei conti, il senso e l’essenza della vita stessa, aprendo nuovi cieli e nuove prospettive, nuove conoscenze. Un nuovo domani. Perché, scrive Vito Moretti in Ho riletto Sbarbaro (Principia, cit., p. 57), «poi rimane lo sguardo sulle cose, quel niente che pure ci dà memoria, il rosso di ogni mondo».

 

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