NADIA CAVALERA, Sanguineti, io e «Bollettario»*

Durante la correzione delle bozze non ci avevo pensato. Ma appena ho avuto, tra le mani il libro, Corso Canalchiaro 26. Interviste, saggi, interventi negli anni di «Bollettario» [1], subito ho notato un’imperfezione nel sottotitolo.

Mi sono detta: sarebbe stato più preciso scrivere “nei primi vent’anni di «Bollettario»”. La rivista c’è ancora. Esiste. E poi il libro nasce proprio per ricordarne il ventennale. Così invece si direbbe qualcosa di concluso, da relegare nel passato. E se oggi, dopo la morte di Sanguineti, in corso di stampa, può anche avere un senso (il «Bollettario» per eccellenza è quello del suo periodo), prima no, era inesatto. Inesatto… Inesatto? No, ho concluso, l’espressione era corretta, tradiva la verità dei fatti, quella che non avevo mai voluto confessarmi: il «Bollettario» delle origini, fondato da me con lui, era passato.

Da molto tempo cerca una fase nuova, tutta da definire.

Ma com’era nata questa per me straordinaria avventura culturale ed emotiva per l’intensa ammirazione che avevo verso il poeta? Un vero e proprio fascino, uno «stordimento di testa», per dirla con un suo verso. Non insolito peraltro tra i cultori della poesia, vista la sua fama di avere almeno una fan sfegatata, una ‘devota’ in ogni città d’Italia.

Da ragazza mi nutrivo di classici (romanzi e tanto teatro) che poi maceravo in poesie soprattutto visive. Sanguineti l’avevo scoperto tardi, all’Università, in una guida al Novecento (il benemerito Guglielmino), nella parte antologica, pochi versi tratti dal Purgatorio dell’Inferno, ma sufficienti a rapirmi: «oh, dove (sulla spiaggia? Dove?); (place-scene, plage-plage); / dove cercarti, / adesso?» [2], ecc. ecc. ecc…  Io cominciai  dalla biblioteca, in alcune antologie, I novissimi innanzitutto. Quel suo ritmo travolgente mi era assolutamente congeniale. Ricordo che amavo leggerlo ad alta voce, per una full immersion cerebrototale: mi riempivo e vestivo delle sue parole. Poi avvenimenti familiari mi stornarono da molte letture, anche dalle sue, dalla stessa scrittura. Fu negli anni ottanta che comprai il suo primo libro, Segnalibro [3], rifacendomi del tempo perso in un incanto uguale. E quando pubblicai  Amsirutuf: enimma [4] (un inno al rinnovamento, nato sotto la sua suggestione), nel 1988 (un anno importante per me, nel febbraio avrei fondato GHEMINGA, a giugno mi sarei trasferita per libera scelta qui a Modena) ebbene quando pubblicai Amsirutuf: enimma fu lui il primo a cui lo inviai. Non ricordo più se gli scrissi anche una lettera, bisognerebbe controllare nel suo archivio, sempre che l’abbia conservata, anche se quel libro non l’ha lasciato indifferente. Non amava la poesia visiva, ma quel libro, ebbe modo di dirmi poi, gli era piaciuto. Un po’ poco per un’apprendista quale mi sentivo, ma con lui, e gli anni l’avrebbero confermato, gli apprezzamenti non abbondavano certo. Li dava per scontati (il fatto che mantenesse la collaborazione con me ne era, forse, per lui, una prova), e solo nel 2006 li ammise pubblicamente, scegliendo (tra 250 concorrenti). al Premio Alfonso Gatto,  il mio Superrealisticallegoricamente [5],  insieme al libro di Luciano Erba [6] (ha ricordato l’episodio in una video-intervista, nell’aprile di quell’anno e svolta proprio a Modena, nella mia casa-redazione, in corso Canalchiaro 26).

Sanguineti in un momento di lettura

Ma fino a quell’anno io ho dovuto capirli, o meglio carpirli da gesti, segni, sorrisi, indovinarli tra le righe, estrarli dalla scelta di cartoline, persino di francobolli, e a volte credo che me li sia anche inventati. Sopravvivere accanto, seppure idealmente, ad un personaggio così, diciamo, “dominante”, era estremamente impegnativo (correvo sempre il rischio di essere del tutto sopraffatta), ma era anche molto stimolante creativamente, se non altro per cruciverba rebus tutti mentali. Nei quali mi sembrava di averlo spesso complice.

Era comunque una sfida continua.

Cominciata nel tardo autunno del 1988, quando io gli scrissi: «C’è ancora bisogno di avanguardia».

Nella lettera lo invitavo a dirigere «Gheminga», bollettario quadrimestrale di letteratura [7], da me fondato, a Brindisi, nel febbraio di quell’anno (erano usciti appena 4 numeri). Gli chiedevo di farne una rivista che rilanciasse l’avanguardia, fosse fulcro di un movimento che avverasse le tante aspettative suscitate dall’ultima avanguardia all’epoca, quella del Gruppo 63, un vero e proprio terremoto per l’ambito letterario e non solo, presto però, troppo presto rientrato, per dare spazio all’opposto contrario dei poeti innamorati [8].

Parlare di avanguardia, alla fine degli anni Ottanta, era quasi un tabù: l’ambiente letterario era ancora scottato da quell’esperienza fortemente traumatica che aveva sortito però qualche leggero cambiamento di rotta nella scrittura di autori importanti del tempo, come lo stesso Andrea Zanzotto.

Ma in fondo niente di più. Un semplice exploit. In quanto essere sul fronte dell’avanguardia comporta un tale dispendio di energie che è impossibile portarne avanti il progetto se non si può contare sul sostegno del ricambio, dell’alternanza anche intergenerazionale costante.

Incassato il colpo, la poesia lirica ben presto si rigenerò, prolificò, alzò gli steccati. Dall’altra parte nell’antagonismo, un gruppo sempre più sparuto e impotente che si sciolse per percorrere vie spesso coerenti ma divise (per ritrovarsi semmai in tristi anniversari autocelebrativi, a contare i morti).

Tomaso Binga, Cavalera e Paola Campanile

Io volevo ricostituirlo veramente quel gruppo in forma più ampia (ero contraria alle elîtes), stabile (non amavo gli exploit), con una componente femminile paritaria. Dopo aver caldeggiato l’idea di un’avanguardia a conduzione tutta femminile (cercai di coinvolgere in questo progetto Maria Rosa Cutrufelli, attiva nel campo del femminismo [9]), mi resi conto che chi poteva farlo nel 1988 era solo lui, Edoardo Sanguineti, già padre della neoavanguardia.

A quella prima lettera non rispose, lo fece a quella successiva (forse più convincente) del gennaio 1989.

Mi scrisse [10] che una rivista aveva «utilità» solo se poteva dare spazio a «credibili voci di giovani», ma lui non ne conosceva. Gli sembrava anzi che gli spazi fossero molti «ma i giovani pochi (e dico pochi, per non dire nessuno, che mi pare impossibile); (ma, a me, non accade di incontrarli)».

Ipotizzò quindi la possibilità di «una rivista di anziani», che desse maggiore spazio alla critica, per poi convincersi che forse questa si poteva fare, solo che necessitava un «’ricominciare’». Ero disponibile?

Poteva veramente gestire tutto a suo «’piacimento’» come gli avevo proposto io? Temeva di «abusare» nei miei confronti e in relazione alla prima redazione. «Ma ‒ concludeva ‒ se veramente la sua idea è quella di rimettere tutto in causa, perché no?». Accettava di essere il direttore, e come tale mi diede, nell’arco di un anno, tutte le indicazioni possibili.

Circa il titolo e il formato [11]: «Che il titolo muti, mi pare cosa conveniente da tutti i punti di vista, e vedo che giova anche per i suoi rapporti con la prima redazione; forse «Bollettario» potrebbe essere il nuovo titolo, con la definizione originaria di quadrimestrale di letteratura; se poi facessimo un passo ancora, e evitassimo “letteratura” tanto meglio; una cosa come “scrittura e critica”, per esempio potrebbe funzionare; il formato, e, diciamo la struttura essenziale, potrebbero conservarsi intatti: «Bollettario» fu e rimane a vista». Questo gli sembrava «positivo» per serbare «una continuità nella differenza».

Circa la redazione, aveva delle perplessità, superate poi, con la decisione all’inizio di un rapporto a due: «Non vorrei fare una rivista di anziani, ma forse una redazione sì; e, al possibile, comunque, stando le cose come stanno, rimescolare le carte, almeno anagrafiche» [12].

E, nel marzo 1989 [13]: «Quanto alla redazione, non si meravigli, ma sono ancora ricco di sole incertezze; sono, come sa, culturalmente misantropo (e forse anche caratterialmente, un po’ ma molto a modo mio: infatti, nel complesso, mi giudicano a ragione affabile…)».

Per poi continuare: «Forse non è male che le spieghi il fondo della mia incertezza redazionale: si potrebbe immaginare di sollevare il «Bollettario» al di sopra dei confini nazionali, farne un documento della scrittura e critica internazionali; conosco gente che scrive un po’ in tutte le parti del mondo: è più facile fare una rivista planetaria decente che una nazionale, ormai; esiste un problema di traduzioni, ma per solito gli autori stessi sono in grado di risolverlo – se no, una soluzione si può ritrovare di volta in volta:».

Momento di elaborazione di un numero speciale

Per la veste grafica, contrario a qualsiasi forma patinata (come appariva quella di «Gheminga»), era per l’eleganza della modestia: «Mi piacerebbe una copertina più grigia, più spenta, più opaca, diciamo proprio più burocratica, proprio da ufficio, proprio da «Bollettario», che potesse confondersi davvero con uno scialbo bollettario» [14] . Ed ancora: «Bene per titolo e formato (ebbene per un forte “arcaismo”, in questo genere: un aspetto, diciamo così pop burocratico, di sana tradizione surrealista, in largo senso, mi piace); ebbene, quindi, per la carta riciclata» [15].

Approvò subito la mia idea di un riquadro in copertina: «un’aria da vecchio quaderno scolastico (o da registro d’ufficio) sarebbe splendida» [16].

Così «Bollettario» di lettera in lettera si definì completamente. Per la critica decise di attenerci, all’inizio, a semplici dichiarazioni di poetica: «io penserei a sole “dichiarazioni di poetica” degli autori pubblicati, ove questi abbiano voglia di accompagnare con programmi o riflessioni o note i loro testi» [17].

Per le collaborazioni fu lui a mobilitare, come promesso, i suoi amici. In seguito l’avrei fatto io, su suoi suggerimenti.

Era così contento che avrebbe voluto che il primo numero, dedicato alla Cina, uscisse nel settembre 1989, in concomitanza con quell’incontro a Milano, da cui nacque il Gruppo 93 [18].

Ma per problemi organizzativi non ce la feci (non avevo collaboratori, curavo tutto da sola, anche l’impaginazione), fui costretta a rimandare a gennaio 1990, quando avevo pronto però solo il numero sulla Spagna, perché più snello e semplice di quello dedicato alla Cina, il n. 2, per lui «splendidamente riuscito [19]». Per quel numero si complimentò molto anche Vanni Scheiwiller, che si disse disposto a pubblicarci. Io, sperando in qualche altra casa editrice con maggiore diffusione (che non arrivò mai), temporeggiai e persi poi anche quell’opportunità.

I contrattempi iniziali e forse un mio naturale eccessivo piglio decisionale fecero sì che lui, subito prima dell’avvio, tentennasse e si proponesse invece, come “consulente”. Pensava che volessi tenere io in mano saldamente il timone. Temendo di compromettere del tutto il rapporto, commisi l’errore di non insistere. Sono tornata alla carica solo quando ho capito che lui ci teneva a questa sua creatura (un’assoluta novità per lui – aveva solo l’esperienza con Achille Bonito Oliva del «Cervo volante», pochi numeri dal 1981-83). Fu così che dal 5-6  risultò finalmente “direttore”, come, in effetti, lo era stato sin dall’inizio.

Tra alti e bassi, qualche sosta, scelte grafiche diverse, numeri ‘raggruppati’, legati alle difficoltà di stampa e distribuzione, «Bollettario» ha realizzato ad oggi 30 fascicoli, e dal n. 55-60 è solo online. Il numero in corso è il. 62-63, dedicato alla poesia sarda. Un bel salto, dall’internazionale al regionale, ma i tempi sono cambiati e credo che ora ci sia più urgenza di conoscersi e contarsi in loco per un fronte più unito.

Il rapporto con Sanguineti, intenso all’inizio, col tempo si è lentamente stemperato [20] (solo telefonate e cartoline, qualcuna dall’estero), e per problemi familiari prima (il tentato suicidio del figlio, la lunga riabilitazione, l’internamento in una clinica specialistica), poi per un intensificarsi spasmodico dei suoi impegni. Quasi a distrarsi, stordirsi.

Enzo Minarelli, Francesco Muzzioli e Cavalera, nella redazione di “Bollettario”

Comunque, fidandosi del mio operato, ha sempre mantenuto la direzione, perché credeva nel progetto di base, e nel ruolo di stimolo innovativo che la rivista svolgeva, già per il solo fatto di esserci, e di esserci – ma questo lo dico io ‒  col suo nome. È stata una guida per molti, dati i riscontri diretti e scritti. Un faro, nella coerenza della sua genuina autenticità. Un faro che lui voleva sempre acceso e al quale lui stesso voleva forse tornare appieno.

 

Così mi piace interpretare una cartolina inviatami nel dicembre 2008. Riproduce un quadro di Edgar Degas, «Repetition d’un ballet sur la scene».

Il ballo, nel nostro caso, è metafora della conduzione della rivista che in quell’anno languiva.

Quella immagine voleva essere uno stimolo, un invito alla ripresa e nello stesso momento un augurio ad un suo nuovo pieno coinvolgimento. Gli mancavano forse i lunghi resoconti che gli facevo per telefono.

Balestrini alla prima lettura a Modena con Muzzioli

Ma io ero intorpidita, incapace di fare anche solo un passo. Sono contenta però di aver ripreso le pubblicazioni proprio nel gennaio di quest’anno, così che ho potuto mantenere fino alla fine la promessa che scherzosamente gli avevo strappato, presenti Tommaso Ottonieri e Marcello Frixione (eravamo a Genova in una delle rarissime riunioni di redazione): «Bollettario sarà vita natural durante».

Di tutt’altro senso invece l’ultima cartolina ricevuta nel marzo di quest’anno, due mesi prima che morisse. Con le parole di Gramsci mi ricordava che il «mondo è grande e terribile e complicato». E lui, avvertendo la morte vicina, ne sentiva ancora di più tutto il peso. Addio, mio ballerino.

Modena, 16 novembre 2010

* Versione italiana (inedita) di quello pubblicato nel libro 
collettaneo Edoardo Sanguineti. Literature Ideology and Avant-Garde 
(Legenda, London 2013), a cura di Paolo Chirumbolo e John Picchione.

(http://www.nadiacavalera.it/news/2013/edoardo-sanguineti-a-cura-di-paolo-
chirumbolo-e-john-picchione.html)

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[1] Uscito da Marsilio, nell’ottobre 2010.
[2] Edoardo Sanguineti, Purgatorio De l’Inferno, vv. 1-58 in Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Principato editore, 1971, Parte II, pp. 718-720.
[3] Edoardo Sanguineti, Segnalibro. Poesie 1951-1981, Milano, Feltrinelli, 1982.
[4] Torino, Tam Tam  1988 (introduzione di Adriano Spatola).
[5] Roma, Fermenti, 2005.
[6] Remi in Barca, Milano, Mondadori, 2006.
[7] Il sottotitolo di «Bollettario» si riferiva alla forma grafica della rivista che riproduceva un oblungo comune bollettario, con la stretta “matrice”, dove si riportavano le notizie biobibliografiche dell’autore, e l’ampia “figlia”, con i testi creativi o critici. Le due parti del foglio erano divise da una linea tratteggiata in senso verticale.
[8] È del 1978, per i tipi di Feltrinelli, La parola innamorata, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro.
[9] Contattata da me, nell’agosto 1988, a Modena, durante la Festa dell’Unità, dove ha tentato (c’ero solo io e mio figlio Diego) di presentare Scritture, Scrittrici (Longanesi, 1988), si disse molto interessata e che mi avrebbe scritto. Non lo fece, però realizzò l’idea: nel gennaio 1990 uscì con «Tuttestorie», una  rivista tutta al femminile. Nello stesso mese ed anno io pubblicavo il primo numero di «Bollettario».
[10] Lettera del 28.1.1989.
[11] Lettera del 4.3.1989.
[12] Lettera del 9.2.1989.
[13] Lettera del 4.3.1989.
[14] Lettera del 9.2.1989.
[15] Lettera del 23.3.1989.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Di quell’incontro, cui ero stata invitata da lui (dovevo intervenire, ma per più motivi non lo feci) ho redatto una fedele cronaca, uscita in «Bollettario» n. 4bis, ed ora in Corso Canalchiaro 26 (Venezia, Marsilio, 2010).
[19] Lettera del 17.5.1990.
[20] Di lui conservo  40 lettere e 30 cartoline.


Biografia di Nadia Cavalera


 

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