MASSIMO PAMIO, Zone d’ombra. In nome della mia scrittura

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Come si scriva, quale sia il luogo della propria ispirazione non è dato saperlo. Appartiene a quel ristretto gruppo di vicende personali che potrei accomunare sotto il gruppo dei tabù intimi e personali: il modo in cui si fa sesso con il proprio partner, come i desideri più reconditi vengano mascherati durante il giorno, o come memorie imbarazzanti siano rimosse.

Scrivere è un modo segreto a se stesso di vivere. Una pratica ancestrale nascosta di tracciare in segni la pulsione del dire che riaffiora nel presente esigendo dall’invasato, dallo scrivente, alcune modalità, da serbare segretamente. I lettori saranno curiosi di conoscerle, ma non sarebbe giusto nei confronti del mondo e del mio modo di relazionarmi con esso. Per tanto, sarò vago e descriverò i miei modi di approccio formale alla scrittura. Scrivere è stringere un rapporto molto stretto con l’esistente, in qualche sostanza è come fare all’amore col mondo e nello stesso tempo esserne posseduto. È una passione viva che accende come un fuoco il mio corpomente a cui mi abbandono, da cui mi lascio prendere. Il luogo fisico della scrittura non è nella mano o nella mente, ma nel punto di unione di cui parla Castaneda ne “L’arte di sognare”. È sopra la mia spalla, il punto in cui passano i flussi dell’universo. Scrivo in/con quel punto. La prosa è la ricerca della vita di un personaggio, che prendo e trasporto lì, e lo lascio sedimentare, finché non diventa una parte di me, finché non si siede alla mia stessa tavola a mangiare, spirito inquieto con il quale posso avviare una interessante conversazione e redarguirlo sul modo come sorbisce rumorosamente con il cucchiaio il brodo di cipolla. La prosa è un argomentare con le parole, scegliendo le più adatte o più giuste. Non ce n’è un’altra che possa sostituirla in una frase. Nella vera prosa non esistono sinonimi o antonimi, o figure retoriche o giri di parole che possano sostituire quel lemma. È quello e solo quello che dovrà entrare nel romanzo. La parola diventa un’isola, un aspetto e un respiro del personaggio, una stigmata della frase. Un lacerto della passione con cui scrivo, di quella passione che sopra la mia spalla è nelle mani dell’angelo scrittore che mi guida. Per la poesia è diverso. La poesia è l’adeguarsi a un ritmo, a una musica, è cogliere quella musica. Le parole hanno un’anima e il poeta deve coglierle. Nel silenzio, dal silenzio. La parola è nella poesia la goccia sonora squillante come un campanellino che vibra nel cuore e nel punto di unione, per cui non so da dove proviene. Quello sgocciolio si traduce in parola.

Quando scrivo con il computer, scrivo con le idee. Viene meno ogni relazione con il corpo, l’idea e il personaggio immediatamente sono lì, trascritti, con una velocità che li carpisce e che non passa tramite le mie sensazioni, non viene frenato o distolto o filtrato, annebbiato da alcunché. Nella poesia, la parola deve passare attraverso il sangue, i nervi, deve intingersi del mio bolo, delle mie feci e di un’anima contaminata. E risplendere musicalmente.

Aggiungo due note su come scrivo matericamente poesia, per i curiosi, per quelli che credono che la scrittura appartenga alla quotidianità.

Annoto le mie poesie su un foglio generalmente riciclato, già stropicciato, occupato, utilizzandone il rovescio non sempre intonso, mediante lo strumento di anonima tutt’altro che sesquipedale matita, e scrostata, non bene appuntita, e quest’incidente è spesso questione di aspra contesa con la mia povera consorte, alla quale avendo delegato, oltre alla cura del bucato, anche l’assottigliamento della mina, sbraitando chiedo ogni volta di rendermi agile lo scrivere e che le punte siano affilate come si dovrebbe. Adopero, ordunque, di solito, la trascrizione a matita, ma quando l’ispirazione sento più tenace, e più impetuosa e imponente, adotto la penna: in genere bic, e nera, in casi sporadici rossa o azzurra. Raramente accendo il computer, che impiega troppo tempo per essere funzionante, e comunque davanti a quello schermo lattiginoso e fluttuante, freddo e intenso, che emana lettere così perfette e precise mi sento a disagio, inopportuno, e perdo la concentrazione, oppure mi succede di raffreddar l’ispirazione stessa.

Ad ogni buon fine, le correzioni le appongo a matita, o a penna, apponendo cancellature e nuove parole sulle precedenti, e accanto, e prima e dopo, spesso creando labirinti e orbite copernicane. Infine, per motivi di ordine e di chiarezza, nonché di salvezza dei dati poetici, redigo la versione finale alla tastiera del computer. Tante volte ho perso fogli e celato files in cartelle inserite dentro cartelle riposte dentro cartelle in un processo infinito, e la poesia è finita in malora con tutta l’ispirazione e quel che ne consegue.

Scrivere è divenuta un’arte strumentale che offre più di una risorsa, e io cerco di assimilarle tutte, sebbene forse la migliore sarebbe usare pennelli e pastelli a cera  o tempere, corrisponderebbero maggiormente alle tristezze e ai furori che animano le mie mani e le sorreggono mentre riporto pensieri chissà come forgiati nel profondo della mente e venuti a dimostrarmi che esiste dentro di me una sostanza nigra, incorrotta, che l’io superficiale e l’io con cui ora ragiono non conoscono, sostanza che non si fa conoscere se non a sprazzi, che si misura col mondo e s’imbeve d’ogni elemento, come se ci fosse accanto a noi un Altro che, muto, trattiene accanto una vita silente e ombrosa dalla quale ogni tanto si riscuote per suggerirmi, bontà sua, la maniera di essere, così che noi l’aiutiamo, tramite i nostri mezzi meccanici e tecnici, a realizzare le sue fobie, il suo nascondersi in un’altra dimensione per chissà quale ragione e starci sempre al fianco, e organizzarci forse la vita e il destino. Angelo custode o innominato o ignoto possessore della mia fragile consistenza messa a nudo, per il tramite della poesia. A chi raccontare che non si tratta di ispirazione, bensì di suggerimento sopradimensionale d’un imbarazzante ingombrante Nessuno? Anch’io, destinato a quel percorso, di un dato inserito in una cartella archiviata in un’altra cartella finita chissà dove.  

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Biografia di Massimo Pamio

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Una risposta a “MASSIMO PAMIO, Zone d’ombra. In nome della mia scrittura”

  1. Carissimo, il tema che tu susciti a proposito della “parola isola” è, almeno per me fondamentale. Così anche l’accenno alla “carta”, alla materia degli appunti.

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