MARISA PAPA RUGGIERO, Ricordando Stelio M. Martini

Ricordare Martini potrebbe essere tentare di sciogliere dal suo ritratto il fitto sistema di  bende di parole giustapposte secondo coordinate ortogonali come un “geroglifico dell’Aleph” trafugato al tempo. Testimoniare un simile ritratto significa cercare di decrittarne il rebus, la segreta partitura semantica implicita tra le pieghe e le rughe del senso con la tentazione continua di raggirarlo, di rovesciarlo, ma poi ti accorgi che stai appena toccando la superficie di un incredibile edificio verbovisuale fatto di pure forme, plasmato direttamente con le dita intrise di sostanza cerebrale che, stando alla meccanica quantistica, è in realtà, un campo gravitazionale, un sistema, cioè, di figurazioni dinamiche dove corpo suono memoria spazio colore luce buio sono ognuna in relazione con l’altra, tenute insieme da un’unica azione di parola. È qui che la comunicazione si fa sottile, e qualcosa di più impervio e di inquieto inizia.

Lo scritto guarda”: di nuovo un ritratto che si inserisce nella mia traiettoria di sguardo mentre sfoglio i vari libri e cataloghi che nel corso degli anni Stelio mi ha mandato, alcuni con dedica, altri con annotazioni e schizzi. E appare da subito, su una copertina un viso, il suo: lo sguardo è perso nella musica che sta suonando. Ma non è lui che suona, è il suo manichino, il cui corpo è sostituito da un disegno sommariamente tracciato a penna… lui osserva qualcuno che al posto suo pizzica le corde dello strumento, ne raggiunge con la mente le note, gli inestricabili messaggi sonori… Immobile è solo il tempo dell’immagine, mentre ogni cosa scorre “via nel tempo”. Martini sa che tutto può iniziare soltanto per la certezza di finire. Sa che la dannazione per l’artista è il non potersi fermare, sa che in nessun caso potrai sottrarti. Anzitempo egli ha saputo la necessità del limite, l’arte lo sa. L’artista sa il segreto di una ferma misura inscritta nella fibra mortale della creatività: in quell’arco di tempo assegnato tutto ciò che si è potuto donare all’arte, l’arte ha preso.

Adesso una vistosa spirale bianconera cattura la mia vista, anche se ne distolgo lo sguardo essa continua a girare e girano à rebours una ad una le pagine tra lettere spezzate, tra prelievi di vissuto e i molteplici ritagli: è la scrittura che prende “forma sostanziale” ramificandosi a “strategia di ragno” tra i meandri della memoria semisommersa dei primi anni 90, quelli della comune frequentazione a una rivista che riunì alcuni di noi sui sentieri scoscesi di una breve ma intensa avventura letteraria, con le sue insofferenti idiosincrasie, coi suoi incombenti smottamenti. E non sai mai “dove comincia (o finisce) il senso”, in quale pastiche del caso o della psiche esso tacitamente finirà per incagliarsi fino al progressivo allontanamento di molti di noi dalla scena, primo fra tutti, Martini.

Sospeso nel tempo, un teatro della mente sotto “il velo delle figure”: il suo viso incastrato tra i calchi vuoti e ciechi delle maschere. Maschera tra le maschere, ma pensante, più che mai affamata di conoscenza e di azione, sempre in perfetta coerenza col proprio sé. Il disincanto di chi sa e ha visto il possibile copre tutti gli spazi:  ogni maschera funziona come ipostasi di qualcos’altro, ogni nuova sembianza è realtà riflessa che la trascende, la eccede. Non c’è che riconoscere l’energia nascosta in quella realtà, esplorarla coi 52 sensi, entrare nel dispositivo ottico per decifrarne la scrittura sapendo che “dopo il silenzio, sì, dopo il silenzio l’immagine parla”. Che l’occhio non basta per la visione, è la visione che offre il suo sguardo alle possibilità fisiche del verbum.

Non smetto di guardare i segni, le foto, i collages: non ci sono storie, qua si va per sequenze elettromagnetiche, ogni sequenza mette in atto una scarica elettrica, cioè di senso, che a toccarla ti ustioni: è tra “tigri e filtri” che ora m’imbatto, nel suo volto tigresco stretto attorno alle sue stesse braccia in un nodo spasmodico: un ritratto di scintillante ferocia animale contaminata nel midollo: lo stesso volto, in fondo, che ognuno può guardare di sé nel proprio specchio… se c’è una foto a rammentarglielo.

Ma c’è anche l’accordatore di strumenti fragilissimi e sapienti che entra nel tuo campo visivo ed è presente nell’esattezza dei due profili: del letterato e del filosofo scolpito nel marmo, immersi in colloquio metafisico. Tutto ciò che chiede è farsi ascolto del suo silenzio.

La figura, infine, scattata in istantanea che si aggira tra le lastre e i riquadri metallici di un labirinto di specchi in una teoria di repliche frammentate è “ciò che mostra il tempo”: è la disseminazione dell’io che sfugge alla centratura visuale del suo corpo, che si protende in avanti, che continua a spostarsi, come una spirale eccentrica o un videopoema a più dimensioni di cui l’ultima è quella della sua stessa dispersione.

Eppure, tutto è qui: «tutto l’altro è qui, è il qui stesso…».


 

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Una risposta a “MARISA PAPA RUGGIERO, Ricordando Stelio M. Martini”

  1. Ringrazio molto Giorgio Moio di aver postato queste mie riflessioni sul grande Stelio M. Martini nel giorno del secondo anniversario della sua dipartita.
    Marisa Papa Ruggiero

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