MARISA PAPA RUGGIERO, Figuralità transtropiche tra desiderio e isteria

Carlo Bugli esibisce  in queste sequenze grafiche delle Edizioni Katabolike un percorso tropologico causticamente beffardo e ironico con l’urgenza e la sintesi di messaggi in codice da “ultima ora” tale da allertare da subito l’incauto fruitore sulla soglia. Qualcosa qui e adesso sta avvenendo con impressionante rapidità e precisione: qualcosa che riguarda proprio noi, noi che guardiamo: noi, o chi – su un piano parallelo ‒ ci rappresenta nella secca incisività del tratto, nella pungente crudeltà del nero.

Bugli procede per puntigliosi, ispidi pronunciamenti secondo una descrizione tassonomica disorientante come attraverso una sorta di lampeggianti segnali morse, ma figurati, ologrammatici, secondo un copione punk di prima mano che scarica i suoi messaggi in una miriade di particelle subatomiche orbitanti nello spazio, in contrappunti allegorici fittissimi tra caos e idea, tra caos e tempo. Sono orditi ritmati asimmetricamente secondo una logica implacabile, mai gratuita e sempre al di là della mera rappresentazione, pronta a introdursi in ogni scomparto della coscienza e della psiche. Sono figuralità “transtropiche” atte ad esorcizzare le insegne iconiche di una modernità straniata i cui “riquadri”, espressi in pittogrammi veloci, si distribuiscono sulla superficie del foglio in segmenti minimi di esistenza, come stati dell’essere officianti oscuri riti apotropaici all’interno di una finzione scenica che trasuda verità, una verità urticante, impronunciabile, e per questo vera.

Vanno prendendo forma sotto la penna sagome di strani esseri galleggianti come in una sonda spaziale o in una sorta di utero elementare: ma… ecco che è l’alieno che rompe il guscio: egli è giunto fino a noi, è tra noi. Manichini con menischi e falangi enfatizzati o con grandi bocche dentate hanno appena divorato il prototipo in carne ed ossa e hanno preso in mano i comandi per muoversi nello spazio. Il marabù, la poiana, l’avvoltoio, e poi, la mantide, il pesce, l’insetto, sono organismi “esplosi”, versati in altri organismi, in stati altri di coscienza, non si sa se più arcaici di noi o più avveniristici. L’integrità della individuazione umana è inesorabilmente smembrata in lacerti non ricomponibili. In corsa verso l’ignoto ecco il vorticoso gorgo fagocitante da cui si staccano polveri cosmiche brulicanti di individui appartenenti a una specie aliena della catena antropologica: c’è da chiedersi: organismi estremamente elementarizzati, o individui di un futuribile degradato? Entrambe le ipotesi sono intercambiabili, entrambe si incontrano nella stessa isteria.

La “morte”, sub specie di un essere preistorico o di un extraterrestre, conduce l’attacco allo schianto frontale con patafisica allegria. È figura polimorfa l’omino che di volta in volta tiene in tensione i fili o li imbroglia: un mister Bloom che si è perso nella domanda introvabile o un signor K, demenziale ma non troppo, che ha dimenticato la parola d’ordine nelle deliranti litanie della sua innocenza…

Sono tropi esposti a cancellazione automatica, tropi della problematizzazione dell’angoscia e del desiderio graffianti senza requie lo spazio: la consapevolezza, nei globi oculari, della frantumazione straniante del percorso evolutivo della nostra specie. Ma nei riquadri finali è visibile in primo piano la civiltà della donna tesa al pieno possesso della sua autentica fisionomia verso un futuro forse ancora da vivere.


 

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