MARIO QUATTRUCCI, Che spettacolo. Come un racconto

Guardò l’ora al quadrante rotondo della vecchia sveglia accovacciata accanto al cordless – un parallelepipedo cromato “Stile 900”, uno dei pochi oggetti rimastigli dal padre, ancora miracolosamente funzionante – e gli tornarono alla mente quei tre versi consegnati all’òmo dal Poeta perché non sia (l’òmo) troppo scordarello:

la morte sta anniscosta in ne l’orloggi

e nessuno pò ddi’: domani ancora

sentirò bbatte er mezzogiorno d’oggi.

Si riscosse. Andò alla finestra che affaccia sul viale. C’era ancora luce, ma le mura imponenti allungavano la loro ombra verso le palazzine. Nel giardinetto sotto di sé gli oleandri esplodevano di rosso e arancione, le chiome dei pini erano ancora macchiate di sole. Diede da mangiare alle gatte, mise il cappello, e uscì di casa.

Passò al Baretto. Memmo, da poco rientrato da Paliano, era indaffarato col frigo e la dispensa. Un saluto e via. Montò sul 6-28, inteso come bus, in direzione Centro.

Il tragitto, a quell’ora, e in quella luce di giugno prolungata, è un passaggio di secoli, un viaggio fra memorie pietrificate della storia… ma per lui anche memorie sue, di una vita.

Discesa Via Pannonia, si arriva a Porta Metronia: per Marè la porta dei passaggi. Da un quartiere a Roma, dall’infanzia all’età adulta…, e poi alla vecchiaia.

Se prendi a sinistra, ed è la strada del bus, scendi per Via Druso verso Numa Pompilio e di lì, se vuoi, puoi risalire alle Porte – Appia e Latina e Ardeatina – e oltre quelle ai paesi dell’antico Lazio, al sud e forse al mondo…

O te ne vai, sia pure nel casino del traffico attuale, per la Passeggiata Archeologica, fra lecci e pini, tra storia e leggenda, e poi Via dei Cerchi, e il gran catino del Circo adagiato tra il verde dell’Aventino (il monte della plebe e di più recenti secessioni) e le rovine dei palazzi imperiali digradanti dal Colle Palatino. Rosse di tramonto come in un quadro di Quaglia…, o di bandiere come una sfilata. Di là, ancora, passando per l’antichissimo rione dei greci ancora impresso nei nomi, la prima culla fluviale di Roma, e poi oltre Sant’Omobono e oltre il Teatro di Marcello…, fino alla cordonata che sale al Campidoglio.

Qui scese.

I giganti bianchi dei Dioscuri e i Trofei di Mario, rivolti alla distesa delle vie, delle case, dei palazzi, al pispillòrio[1] ininterrotto della vita, vigilano dal colle la piazza incantata. La prima di Roma nata da un progetto, frutto di un’idea, prodigioso scrigno dello spazio e del tempo uscito dalla mente illimpidita del vecchio Buonarroti… e dalle mani conseguenti del Della Porta e dei Rinaldi e del Vignola. Nucleo trapezoidale del concetto di Stato, a dispetto di papi-re e di re miserandi, e di loro altisonanti lapidi e stemmi impressi ai travertini, conca di memorie laiche e popolari. Pagane addirittura. Come, sia pure per errore, l’equus magnum dell’imperatore stoico Marco Aurelio Antonino.

Si avvicinò lentamente alla fontana, s’appoggiò al suo bordo. Il chioccolio dell’acqua dava serenità. Non sa come, né per qual ragione, è proprio in questo luogo così denso di storia anche terribile, e così voluto, così scenario, che si sente nel contempo libero e prezioso, riconosciuto in dignità di uomo, individuo ma non lasciato a sé stesso, protetto come nel grembo di una madre e aperto ai venti della terra e degli astri, sfiorato dalla pace e ancora vivo. È solo un’illusione, naturalmente: la volontà disperata di sapere, almeno per un attimo, qual è il nome del vuoto che ci invade… o di conoscere, capire il limite.

Si erano intanto accese le luci della piazza, le finestre dei tre palazzi scintillavano, le fiaccole palpebravano sulle cimase contro un cielo che cedeva lentamente alla sera la sua luce di giugno, e rubava agli intonaci e ai tetti bave di giallino e di sanguigna.

Appoggiato al bordo della vasca a poco a poco ritrovava, nella malinconia dei ricordi, un po’ di quella pace che da tanto tempo lo aveva abbandonato.

La piazza era quasi deserta, solo alcuni turisti si avviavano al terrazzo affacciato sul gran teatro dei Fori. All’altro lato, appoggiato alla balaustra di Via delle Tre Pile, metafisico e assurdo nella sua solitaria concentrazione, un suonatore di sassofono alzava oltre le altane l’architettura struggente barocca e dilaniata di didn’t know what time it was, cercando Bird in quell’ingarbugliato e vuoto cielo sopra Roma. Si accostò, rimase ad ascoltarlo fino al termine del pezzo, fece l’atto di allungargli un cinquino ma quello rifiutò con un gesto. Comprese: era lì per suonare, ma soltanto per sé. Lo salutò con un cenno e se ne andò. Salì alla Terrazza Caffarelli, in cima al Museo Clementino.

Da lassù lo sguardo plana sul rione Campitelli e sul rione che fu il Ghetto; e al di là verso il fiume, Trastevere e il Gianicolo; e di qua al Quirinale e fino al Pincio. E non si stanca.

Dall’alto, a quell’ora, nella sera che sale, la città sembra annegata in un polverio di cenere rosata. Ma tu sai che è lì, nascosto in quei rioni di mattoni e travertini, in quel colore di carne, il centro – il cuore sfatto, o putrefatto, di ogni cosa. Il centro dei centri… – vaticani, governativi, parlamentari, partitici, finanziari, spionistici, delle ideologie truccate da dis-pensiero, degli incroci di stati e di mafie, di oscure trame e di truci miserevoli scalate, di affari e malaffari e orribili segreti, di drogherie ed usure, spoliazioni e soprusi, prostituzioni e viltà: indifferenze e viltà, cupidigie e viltà, paure e viltà. Viltà e rinnegamenti… La culla di quella borghesia romana mai moderna, sempre rapinatrice, sempre impastata di mercimoni e cinismi ammantati di volemose bene, di indolenza che cede solo all’attivismo del furto, del chissenefrega eretto a canone etico, di analfabetismo culturale elevato a valore. Il centro di quel mondo in cui niente è mondo, e in cui nessuno – che venga da dentro o che venga da fòri – ce po’ un cazzo de gnente.

 E la gente, da quell’altezza, non si vede. Vedi tetti, timpani, cupole: e ne provi un sentimento di sgomento e oppressione: ma la gente no: la gente che pullula e cammina non la vedi. Non vedi i marciapiedi che, se non fossi così in alto, “come crostini spalmati/con l’aglio della folla…”, se fossi lì…, “un poco puzzano”[2]. E nemmeno i quartieri dilaganti delle periferie senza forma né limite, in cui vivono, sopravvivono e muoiono, due milioni di umani… Né la memoria di alcuni, pochi, gloriosi ma dimenticati e sempre vani sussulti, – i romani che assaltano il Sant’Uffizio alla morte di Paolo IV Carafa[3]…, Ciceruacchio che organizza trasteverini e monticiani per dar manforte a Mazzini e Garibaldi…, soldatini e operai e professorini che fronteggiano i carri armati nazisti a Porta San Paolo, mentre il re e i suoi cari scappano in segreto… – né il filo dei sacrifici e della tenacia per salvare l’onore della città venduta, per salvare gli ebrei e gli antifascisti, per tener testa ai nazisti nei rioni e a Via Tasso e pagare con sangue alle Fosse Ardeatine, per salvare in sessant’anni d’opere e lotte − politiche e culturali − la sostanza civile e morale del 25 aprile e del 2 giugno.

È l’ora in cui si dovrebbero sentire le campane, ma lui ode solo un brusio malforme. Si chiede, circonlocuzionando, alla Gianni Toti, le sinapsi: Si sentono ancora a Roma le campane…? Si sentono ancora le voci…? Ci sono esuli da questa città…? Ce ne sono stati, dolore del dispatrio e della persecuzione, esuli o deportati, sradicati o emigranti, dalla Roma antica e da quella del papa-re, dall’Urbe fascista e savoiarda, dalla città affamata e bombardata, umiliata, derubata e saccheggiata…: ma ora? Ora sembra che a Roma soltanto si venga: per trovare la grascia, l’unto, l’ingrasso; o soltanto un riparo per la notte e una speranza di esistenza… E nessuno è cacciato: resta qui per avere… o soltanto per morire: domani, quando sarà, oppure ogni giorno: alcuni, pochi, in luce, arsa viva come in una piazza del Seicento l’anima immondiata malinconica e ribelle; i più nell’ombra, nel silenzio fragoroso postmoderno di questi anni ignobili e indecenti.

 

 

Smucinava il minestrone nel callaro[4], detto in pulito: rimuginava nel cervello quei pensieri, mentre se ne andava per le strade di Testaccio.

Sulle rive del Tevere, tra la Porta San Paolo e la Porta Portuense, tra il Ponte dell’Industria e il Ponte Sublicio, s’eleva un monte… O piuttosto un montarozzo di 50 metri, sistemato in quel luogo dagli antichi, chissà in quanti anni o in quanti secoli, coi cocci delle anfore che ai tempi fungevano da fusti e da barili per il trasporto d’olio, frumento, lenticchie e altri prodotti destinati al mercato della capitale dell’impero, sbarcate, e poi scocciate, cioè rotte, al Porto dell’Urbe, poi di Ripa Grande. Un monte dei cocci, quindi: che dal latino testula e testaceus prese appunto il nome di Testaceus indi di Testaccio. Accresciuto di terre da riporto, trasformato da un papa in parco pubblico, sede di giochi e, fino a metà del ’400, luogo in cui si svolgeva il carnevale, sforacchiato per uso di cantine e di botteghe, ospita oggi nel suo ventre ristoranti di lusso, pizzerie, luoghi di ritrovo. E tra questi, progettato edificato e diretto da Luciano Damiani, un delizioso teatrino chiamato Teatro Documenti. Delizioso ma, in riga con la tradizione di tutte le avanguardie artistiche, sprofondato nell’imo. A quel teatro il suo vecchio amico e compagno di statiche avventure dava talvolta il suo prezioso contributo. A lui, tornato da un viaggetto e subito impegnato nelle prove di un lavoro famoso del Ruzzante per il quale, qualunque cosa ciò significhi, aveva firmato la drammaturgia, a lui s’era recato per rivederlo, assistere alle prove e, naturalmente, pigliarlo un po’ per i fondelli.

Sulla porta, al momento dei commiati, disse Emme allo scrittore: – Sempre nel ventre della terra, eh?

– Hai ragione – gli rispose l’amico. – Ma considera. Questo monte dei cocci è quanto di più allegorico c’è a Roma, anzi in Italia. Solo che gli antichi i cocci che facevano rubando e depredando tutto il mondo li mettevano qui, montarozzati in ordine perfetto, coccio pe’ coccio, uno sopra l’altro e tutti per il verso loro;[5] adesso i cocci accumulati dal nostro Bel Paese sono cocci nostri: e ricoprono tutto: dalla legge all’arte alla cultura, dalla vita materiale all’anima dell’ommini. E naturalmente delle donne. Considera. Facce un pensierino.

Ma s’era fatta quell’ora e adesso, deambulando per le vie del rione che dal monte ha nome, l’otto novecentesco rione di Testaccio, come detto, gli si era sviluppato un certo languorino, je s’era smosso l’appetito. Si lasciò alle spalle il vecchio Campo e lo storico Club Giallorosso, culla della Roma; passò davanti all’ex Mattatoio, ora MACRO, Museo comunale d’arte contemporanea; attraversò il Giardino intitolato al romanista felliniano Mimmo Pertica; sfiorò il Centro sociale occupato “Villaggio Globale” e poi la Scuola di musica popolare di Giovanna Marini; buttò un occhio ai molti locali di svago notturno, in quel momento naturalmente chiusi, e se ne andò verso il Mercato[6]. Per fare tappa, viste le esigenze orarie gastronomiche, da un gricio[7] in Via di Mastro Giorgio, e uscirne con adeguata munizione: ciriola – non intesa come anguilla di fiume ma come pane oblungo di 200 grammi, detto un tempo sfilatino – imbottita di salame di Bologna, vulgo mortadella. Un dono del Signore.

Mentre, affinché la pagnottella s’assestasse con adeguato innaffiamento, sorseggiava al banco di un vinaio lì vicino un chirichetto di bianco di Marino – la misura cioè di 1/8 giusto, che è quanto nel servire messa ne versa appunto il chierichetto al prete – squilli e vibrazioni animarono la tasca della giacca a mano manca interna. Solito sussulto, solita ricerca affannosa del corpo contundente, e poi:

– … Sono Emme, sì: e tu chi sei?

– Sono Vauro…

– Vauro! Scusa, non t’avevo riconosciuto. Come va, come stai? Ci sono novità?

– Non lo so ancora, ma se passi da me…

– Dammi un quarto d’ora e ti raggiungo.

 

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[1] Pispillorio: bisbiglio, mormorio.

[2] Da Angelo Ripellino, Praga Magica: Vladimir Holan.

[3] Paolo IV Carafa (1555–59), propugnatore e animatore dell’Inquisizione Romana, creatore dell’Indice (Index Librorum Prohibitorum), persecutore spietato dei cosiddetti eretici e dissidenti, persecutore degli ebrei e istitutore del Ghetto.

[4] Callaro: paiolo.

[5] Va detto che il Mons Testaceus non è, appunto, un cumulo di cocci alla rinfusa, ma una collinetta formata strato per strato mettendo ogni frammento d’anfora sull’altro tenendo conto delle curvature e dei manici.

[6] Allora ancora allocato nella Piazza centrale del Rione.

[7] Gricio è detto o, in verità, era detto il venditore di pane ed altri generi alimentari. Sembra che la dizione gricio derivi da piccoli negozianti scesi a Roma (chissà quando) dal Canton dei Grigioni.

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Una risposta a “MARIO QUATTRUCCI, Che spettacolo. Come un racconto”

  1. Ma Vauro…è Vauro…Senesi? E Memmo allora è Francesco Paolo Memmo?
    Gianni Toti, beh…
    Ieri o stamane ho salvato da tumblr la cover dello splendido violino verde di Angelo Maria Ripellino e mi ero ripromesso di andare a ripescare un po’ di testo, su quel Ripellino messo in connessione con Giorgio Barberi Squarotti, per la poesia, nel secolo scorso, da un mio saggio pubblicato in una rivista che usciva a Ragusa

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