MARIO M. GABRIELE, Il pensiero critico nella società di ieri e di oggi

SAGGISTICA

(Sul piano creativo, pur essendo tendenzialmente alternativi ai linguaggi tradizionalmente del passato, gli scritti proposti in questa sezione, anche di critica letteraria e/o di arte, non rappresentano le tendenze letterarie della rivista ma unicamente degli autori)

* * *

Tutti i prodotti della letteratura e delle Arti in genere possono diventare elementi di analisi critica secondo la ricerca metodologica, per individuare il cifrario interno occultato dall’artista.
Nel corso dei secoli, e di pari passo con il mutare della cultura, la critica ha subito innovazioni di diverso profilo, tanto che le verificazioni e le falsificazioni sono state determinanti per ampliare il tetto delle conoscenze estetiche nel campo della semiologia, dello strutturalismo, e della linguistica, tra il sapere quotidiano e il sapere scientifico, tra ideologia e scienza, al fine di rendere capillarmente selettiva l’azione comunicativa della critica, che con la psicanalisi riesce a proporsi attraverso le interpretazioni estetiche di Freud.
In questa casistica non sono pochi i critici che assolvono alla loro funzione mediatrice con la letteratura etichettandola “luttuosa” per la perdita degli oggetti e dei soggetti, una volta amati e poi perduti per sempre. Qui l’azione e i simboli dell’Arte sono elementi unidirezionali per esorcizzare la presenza della morte attraverso i sondaggi più profondi della psiche. A formalizzare questa scuola concorre in maniera determinante Melanie Klein (1882-1960), mentre Charles Mauron (1899-1966), introduce la psicocritica con la quale riesce a puntare la propria ricerca sulla personalità inconscia dell’autore, andando a individuare le immagini e i riferimenti più intrinsechi emergenti dal mito personale del poeta e dalle sue metafore ossessive.
Partendo dalle interpretazioni estetiche di Freud, l’inconscio rimane il punto chiave dove si colloca il linguaggio con una propria struttura trasversale dove Jakobson inserisce anche la metafora e la metonimia attraverso le figure retoriche divise in tropi, similitudine, allegoria, e perifrasi, pervenendo così a individuare i cambiamenti dell’inconscio allo stato occulto. Ma non sono solo questi i codici di cattura del significante da parte della critica. Occorre qui determinare anche l’uso dell’antropologia che si slarga sui fatti sociali visti come ponti di comunicazione e di nuovi modelli culturali dai quali Cassirer, Athusser, Lévi -Strauss e altri strutturalisti americani come Bloomfield e Sapir puntarono la loro attenzione allargando la sfera dell’inconscio con altri interventi chiarificatori.
L’azione dello strutturalismo non fu occasione di semplice novità, ma trovò ufficialmente idoneità con la rivista «Voprosy jazykoznanija» come organo culturale presso l’Accademia Sovietica delle Scienze, coagulando intorno ad essa tutte le dispersioni estetiche nel settore della linguistica strutturale, approdando anche in altri conglomerati delle varie Arti espresse negli anni ’60 con tendenza antistoricistica e antiumanistica.
Ma fu soprattutto la Scuola di Francoforte, fondata da Max Horkheimer, Teodoro Adorno e Habermas, a nuclearizzare filosofia e sociologia mettendo in atto nuove discipline estetiche pur di rimuovere le contraddizioni culturali attraverso l’apporto di una critica rivoluzionaria, puntando al massimo grado il marxismo da cui in seguito trovò spazio la “teoria critica” con diverse localizzazioni dei periodi formativi, puntando sull’uso del linguaggio su cui Habermas trovò altri supporti tra cui la “razionalità del soggetto autonomo e l’intersoggettività”. Non c’è dubbio che l’ipersensibilità critica dei vari operatori abbia contribuito a creare un metodo dialettico contro quello trascendentale, tra teoria sociale di sinistra e il razionalismo critico. Alla Scuola di Francoforte va riconosciuto l’impegno a catalogare i destini che coinvolsero l’umanità e le società industriali, come martello pneumatico a favore della cultura rivoluzionaria degli anni Sessanta, operando in tre Periodi: il Primo, contrassegnato dall’interesse del Gruppo verso i fenomeni sociali, la famiglia e la cultura di massa; il Secondo, più espositivo e storico per la tematica intorno alla Dialettica dell’Illuminismo e in Minima Moralia, dalle quali non si esilia la concezione marxiana della società, il Terzo, frutto dell’esperienza post bellica, intorno agli anni ’50 e ’60, in cui maggiormente la teoria critica affrontò il progredire della civiltà industriale, con tutte le crisi di produzione e di orientamento del lavoro, come collagene del Capitalismo. è qui che la Scuola di Francoforte agita il suo pensiero rivedendo la dialettica negativa sotto una nuova lente a cui Adorno dà tutta la sua personalità filosofico-critica rispetto all’ontologia fondamentale di Heidegger. I principi fondamentali su cui poggia la teoria critica della Scuola di Francoforte tenne in bambagia tutte le altre tesi e ipotesi controdeduttive, influenzando il pensiero critico e di sinistra, tanto che Herbert Marcuse finì con l’essere il vero propositore e teorizzatore della nuova sinistra, trovando nella rivoluzione francese degli studenti del ’68, la loro adesione nella modernizzazione della struttura universitaria paralizzata da una burocrazia lontana dalle esigenze universitarie.
Il concetto di critica ha molti riflessi endogeni e non può essere monotematizzato soltanto verso la letteratura e le arti in genere. La critica di sinistra punta con Marx a detronizzare l’idealismo hegeliano, con un proprio pensiero rivoluzionario nel rapporto tra teoria e prassi, problematiche filosofiche e situazione storica della società e della economia. La coscienza di scrivere pone da subito dei quesiti sulla sua identità. C’è chi si rifiuta che essa possa esistere e chi invece l’ammette. Qui la critica ha un suo ruolo determinante, come nel caso del Pensiero Debole di Gianni Vattimo che affronta la crisi del progetto politico e filosofico degli anni Settanta-Ottanta che istituzionalizzarono una razionalità unica e universale, con una differenza ontologica da parte di Vattimo il quale esordisce mettendo in crisi il Cristianesimo e la scienza moderna come valori assoluti.
Queste in sintesi le strade della critica nei suoi diversi rapporti interpretativi. Diversa è stata la connessione alla letteratura e alle arti in genere. Ma la vera crisi nasce dalla frattura tra la critica ufficiale e i principali editori cui collaboravano i mediatori della informazione libraria, tipo Mondadori ed Einaudi, in nome di una economia aziendale che polarizzava ogni rapporto con l’autore. Da questo momento in poi la frattura divenne enorme e ogni prodotto letterario, autonomo e senza griffe, fu destinato a morire nell’oblio.
Oggi, il fenomeno delle omissioni nelle antologie ha assunto proporzioni tali da modificare completamente il quadro della poesia italiana, con gravi ripercussioni sulla visibilità di molti poeti, in particolare della Campania, che prendiamo come exemplum, numericamente più rappresentativi di quelli delle altre regioni del Centro-Sud, e per di più condannati anche dalla “storia”, che “procede per repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica, e quindi per falsificazioni”, specie quando «il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento sulla contemporaneità»[1]. L’invisibilità, che circonda gran parte di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista, Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni.
Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti Repertori, da più di venti anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, «non si ha il coraggio di farle venire a galla, né si può sperare in un intervento della critica perché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, chiudendosi in se stessa, isterilizzandosi nell’ambito accademico e del microspecialismo, smarrendo il nesso tra filologia e interpretazione, oppure si subordina alle esigenze del mercato e dei mass-media diventando chiacchiera impressionistica, mero intrattenimento»[2], mentre avanzano, a tutto campo, piccole e grandi storie della letteratura italiana con proprie gerarchizzazioni e scale di valori, e per di più con il grave difetto delle omissioni.
Il luogo geografico tenuto presente riguarda una Regione ad alta densità poetica, vale a dire la Campania, con epicentro Napoli, definito da Malaparte non una città, ma un Mondo, con una fiumana di artisti e critici da Luigi Incoronato a Raffaele La Capria, Lanfranco Orsini, Anna Maria Ortese, Mario Pomilio, Michele Prisco, Domenico Rea, Enzo Striano; locus naturale del teatro dialettale di Eduardo De Filippo, della poesia popolare di Salvatore Di Giacomo e dell’Umanesimo meridionale che hanno fatto da lume alla cultura italiana.
Le dimenticanze, purtroppo, non si limitano alla sola poesia e risalgono, probabilmente, al dibattito storico-politico intorno alla questione meridionale che spesso ha cancellato l’altro parallelo filone della componente letteraria, che parimenti contribuisce ad analizzare il problema e a rifletterne i caratteri peculiari. Facilmente si dimentica che nel Mezzogiorno fiorirono romanzi popolari attenti a coglierne la dolente realtà sociale con una narrativa veristica che scopre efficacemente i malanni del Sud con Verga e De Roberto, e una saggistica che denuncia coraggiosamente la miseria e le deformazioni ambientali con Villari, Serao, Fucini e White Mario. Anche alle opere di questi autori, dunque, bisogna far capo se si vuole veramente conoscere il meridionalismo in tutta la sua estensione culturale, letteraria e rappresentativa oltre che politica, storica, sociale ed economica»[3].
Molti sono stati i poeti napoletani che hanno percorso vie diametralmente opposte a quelle della tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico in una prospettiva poetica di work in progress e di febbrile spinta avanguardista. Cosicché la scrittura comprensiva d’ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti un adeguamento al processo d’analisi della forma letteraria, compreso lo sperimentalismo tout court, con tanti curatori che continuano ad essere sempre sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori di un razzismo etnico-culturale simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche, le famigerate scritte: “Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe, anche confermare, in qualche modo, la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti: «I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non-avere degli altri. Ciò che non sopportano e che gli altri godano di un vantaggio»[4].
Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio meneghino o lombardo-veneto, che vuole a tutti i costi, «creare una brutale scissione degli “italiani” al di sopra ed al di sotto del 40° parallelo»[5].
Non sfuggono alla “regola” delle “omissioni” e alla chiamata di “correo”, le antologie di Porta, di Berardinelli e Cordelli, di Mengaldo, di Cucchi e Giovanardi, e i tanti rapporti sulla poesia, sempre più elitàri e riduttivi, che solo per ristabilire la verità si dovrebbe permettere anche agli altri il diritto di rivelare la parola negata. L’etichetta prestige non si addice alle antologie monche e settimine se si toglie visibilità agli altri poeti.
I guastatori di antologie continueranno a disinformarci in ogni caso, attraverso operazioni che nulla hanno a che fare con il concetto di stato poetico generale.
Molto si è mistificato in questi anni di poesia amorfa e atonale, e molti poeti sono stati ridotti al silenzio da assurde pubblicazioni antologiche, che se da una parte hanno spaziato sull’intero Novecento, dall’altra hanno proposto autori già editi dai maggiori editori, accentuando ancora di più i confini della separazione territoriale.
Ha fatto molto bene Giorgio Moio a pubblicare Poeti in Campania, (Bertoni Editore, 2022), inserendo, e quindi aggiornando, nomi di poeti già decodificati, nelle altre antologie, accanto a nomi nuovi e interessanti nella loro esposizione linguistica.
Questo “dossier” vuole ristabilire un percorso di verità e di quanto si è venuto a produrre a Napoli con i poeti della quarta, quinta e sesta generazione che hanno dato maggiore impulso e creatività negli anni in cui Zagarrio li includeva in Febbre furore e fiele (Mursia, 1983), che è l’antologia più chiara, la più pertinente e la meno omissiva scritta fino ad oggi.
La ricerca si è indirizzata agli aspetti esteriori del testo, fino alle autonomie verbali nelle formulazioni linguistiche e metasperimentali, come continuità di un rapporto dialettico tra chi vive la vita di tutti i giorni e chi la traduce emotivamente nei versi. La poesia napoletana nasce con il rifiuto dei moduli ermetici e neocrepuscolari, tramite l’acquisizione di un linguaggio che, pur integrandosi con lo sperimentalismo neoavanguardista, si distacca dalle forme anarchico-marxiste, attraverso la proposizione di un “messaggio ribaltato”, dando vita ad un “rinascimento poetico”, che non esclude l’acquisizione delle figure grammaticali percepite for its own sake and interest.(Hopkins).
Da qui la fusione di stili diversi e di temi sociali, politici, meditativi ed estetico-religiosi; che hanno dato giustificazione anche alle proposte verbo-visive realizzate con personale intuizione da Stelio M. Martini e da Luciano Caruso e alle tante opere di poeti che hanno inaugurato decorose pubblicazioni nei Quaderni della Fenice di Giovanni Raboni, passando addirittura nell’«Almanacco dello Specchio», su «Nuovi Argomenti», nella rivista «Quinta Generazione» fino al complesso lavoro critico, antologico e bibliografico dal titolo La poesia a Napoli (1940-1987)[6], a cura di Matteo D’Ambrosio, con le relazioni di Luigi Fontanella, Mario Lunetta, Armando Maglione, Giuliano Manacorda, Filiberto Menna, Lamberto Pignotti, Vittorio Russo e Gianni Scalia, intorno agli anni Quaranta-Ottanta, con una vasta campionatura di voci consolidate e di poeti emergenti, e un dettagliato percorso storico della rivista «Altri Termini», fondata nel 1972 da Franco Cavallo, che ha rappresentato un punto di riferimento per capire il periodo che va dal ’68 e la neoavanguardia agli anni del boom della poesia, rivelando alcune personalità da G. Bisinger a F. Capasso, da G. Conte a C. Viviani, da J. P. Faye a J. Rothenberg ecc., in una prospettiva di aggancio con le avanguardie storiche.
Sul discorso delle “omissioni” neppure la narrativa ne esce indenne: infatti, nella pagina Cultura del «Corriere della Sera» di mercoledì 12 marzo 2003, Giovanni Raboni, con un titolo a sette colonne, Testori, la voce di un cristiano condannato al silenzio, fa notare un altro caso di ricusazione pregiudiziale nei confronti di un «autore che aveva fatto dell’anticonformismo e dell’integrità la sua regola»[7], come risulta dalla biografia di Fulvio Panzeri su Testori. «Come mai – scrive Raboni – uno scrittore che dalla fine degli anni Cinquanta, ai tempi dei suoi primi grandi libri di narrativa, aveva suscitato molto interesse e non pochi consensi, adesso, che aveva fatto tanta altra strada, che aveva alle spalle dei capolavori come la Trilogia degli Scarrozzanti e Passio Letitiae et Felicitatis, adesso che era nel pieno della sua maturità e genialità espressiva e ci stava consegnando alcuni dei suoi testi più imprevedibili e sconvolgenti si vedeva circondato dalla sordità, dalla distrazione, dall’indifferenza?».
La risposta è nell’intervista data dallo stesso Testori a Fulvio Panzeri: «Davo e do fastidio perché c’è uno scrittore che è cristiano». Questo è un caso particolare, seppure non isolato, che, comunque, non riguarda i poeti napoletani più di tanto.
Ma se poi andiamo a verificare ne la Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno[8], è lo stesso Raboni a praticare le omissioni. Infatti, tra i poeti nati fra il 1920 e il 1928, ne cita ben 31. Nessun accenno per i poeti “napoletani”.
Il Sud si salva solo con Rocco Scotellaro. Basta seguire le pubblicazioni antologiche, che si susseguono a ritmo crescente, per rendersi conto delle arbitrarietà cui spesso si soggiace anche «per l’assenza di poeti graffianti, capaci cioè di esprimere compiutamente e in modi originali il nostro tempo; mentre tornano i modelli del passato, la restaurazione di contenuti idilliaci, sentimentali, solipsistici, liberty, intimistici e guidogozzaniani, in forma chiara, che non è la – claritas – dei leibniziani o del Baummgarten, ma è oggi un mezzo per impedire l’oscurità (come se la chiarezza dei nostri giorni non potesse essere – o non è – anche strumento di oscurità e – dio non volendo – di oscurantismo».
Quando Gaetano Salveti scrisse la suddetta nota sulla rivista «Quinta Generazione» (n. 63-64), era il 1979, non sembra che la poesia sia cambiata sul piano estetico-formale, a meno che non si voglia tornare alla lezione critica di Roman Jakobson che, in merito al testo poetico, recupera «l’uso introvertito dei segni verbali, e l’individuazione dei vari modi di strutturazione dei versi, retti da precise leggi opposizionali, operanti a tutti i livelli del linguaggio – secondo quella grammatica della poesia a proposito della quale Jakobson invoca, a sostegno, le geniali intuizioni pre-strutturaliste di Baudelaire e di Hopkins –»[9].
Non sempre queste indicazioni hanno fatto da guida ai poeti impegnati in una esasperante ricerca del linguaggio, collocato tra esperimenti intersemiotici e sinestesie varie.
In un’intervista a cura di Marisa Papa Ruggiero, apparsa su «Risvolti»[10], Franco Cavallo rispondendo alla domanda postagli sul tema del nonsense, così chiarisce i termini del quesito: «Il nonsense, se praticato da persone dotate – vedi Palazzeschi, vedi Toti Scialoja, o vedi Giulia Niccolai – non invecchia: è uno degli elementi costitutivi della poesia, sia esso inteso in senso spaziale che temporale»[11], aggiungendo subito dopo: «Quanti poeti “seri” si vedono oggi in giro? Nella gran parte dei casi si tratta di gente che, pur di stare in pace con se stessa ma soprattutto con il successo, recupera i linguaggi obsoleti tipici delle epoche di restaurazione: linguaggi che nascono già morti (ed è per questo che riescono a riscuotere successo nella necropoli). L’unico progetto che si può fare oggi in poesia è la salvaguardia del fondamento etico»[12]. Cosa molto difficile da realizzare con le case editrici più importanti, impegnate a consolidare la separazione territoriale nei confronti dei poeti meridionali, ovviamente assenti nelle antologie di Porta e di Majorino, ma presenti in altre Storie della letteratura Italiana, come in Poesia italiana oggi di Mario Lunetta (Newton Compton Editori, 1976); in Otto-Novecento di Lanfranco Orsini (S.E.N. 1980); in Storia della Letteratura Italiana del Novecento di Giacinto Spagnoletti (Newton Compton, 1994), ed altre pubblicazioni settoriali, solo per citarne alcune, anche se i Repertori del Nord prolificano come nidiate di volpi che marcano il proprio territorio, riducendo gli altri poeti “ai margini del giro”, dimenticando che sono “persone che lottano per non soccombere” di fronte a «persone che opprimono e sfruttano»[13].
Di materiale consultivo ce n’è abbastanza per chi veramente voglia fare un’antologia, che non sia soltanto la copia di quella precedente. Se è vero che “all’editore compete di scegliere secondo il suo giudizio di convenienza tra le offerte sottopostegli”, in una politica di mercato, sempre più attenta al bilancio aziendale, è altrettanto vero che su questa linea di basso emporio commerciale non c’è speranza alcuna di vedersi pubblicati al Nord. è, insomma, ciò che riscontriamo anche in altri osservatori come ne Il Paradosso dell’evidenza. Saggi e interventi (1985-2001)[14], con il titolo La poesia si è fermata a Milano, di Alessandro Carandente, il quale si chiede, con estrema sorpresa e ironia: «Possibile che essere poeti in Italia significa pubblicare esclusivamente con Mondadori? Come dire di editori ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno: tutti gli altri poeti sono condannati alla inesistenza». La logica della tolleranza e del rispetto comune, fra chi cura un’antologia, e chi ne è escluso, dovrebbe far riflettere sul – raggiungimento del superlativo inteso come morte –.
Ci sono Autori di varia sensibilità e cultura, che con le loro opere si sono indirizzati verso più significanti, non escluso quello sperimentale, venutosi a determinare nel corso del tempo attraverso, Velso Mucci, le mostre di poesia visiva, le riviste, i raggruppamenti antologici, le performances tra gli scenari liberty di villa Pignatelli, alle serate di lettura poetica sulle terrazze di Castel dell’Ovo[15]. Né mancano le proposte innovative di tipo strutturale: pensiamo, per esempio, alle frammentazioni e forme chiuse di Franco Cavallo, tra surrealismo e simbolo-mito; al tecnicismo neoavanguardista di Ciro Vitiello e alle sue mortali visioni del mondo; alle composizioni verbo-visive e agli esicasmi di Stelio Maria Martini; o ancora alle fratture citazionali e linguistico-intermediali di Tommaso Ottonieri; alla versificazione epico-ironico-satirica di Alberto Mario Moriconi: un citarèdo alla corte della poesia; alle anamnesi metaforiche nei confronti della vita, di Carlo Felice Colucci; al linguaggio perlustrativo e psicoattivo, per interrogare e interrogarsi sugli aspetti dell’inferno-quotidiano di Franco Capasso; alle composizioni ipertematiche intorno alla civiltà contadina e a quella industriale, tra mito e linguaggio pubblicitario di Ugo Piscopo; ai doppi codici strutturali, tra sperimentalismo e linguaggio novecentesco nelle illusioni dell’Eros, come sopravvivenza al vivere quotidiano di Antonio Spagnuolo; ai sussulti poetici di tramatura flegrea con il recupero di figure mitiche di G.B.Nazzaro; all’incalzante surrealismo metaforico di Alessandro Carandente; ai porti sepolti della memoria, di Irene Maria Malecore e Rina Li Vigni Galli; al puntismo cromatico e figurativo di Franco Riccio; fino al teatro di poesia di Aristide La Rocca.
Di fronte a codesti elementi innovativi, non mancano spazi dedicati alle edizioni di libri-oggetti e libri-opera, tra manipolazioni verbali e romanzi verbografici; e qui i nomi sono veramente tanti: da Bilotta, a Perrotta, da Moio a Cepollaro, da Bàino a Ioni, da Voce a Lubrano ecc. «Il linguaggio originario è il linguaggio della creazione poetica. Il poeta, però, non è colui che compone versi su ciò che di volta in volta è l’odierno… La vera creazione poetica corrisponde al linguaggio di quell’essere che già da lungo tempo ci ha in anticipo, rivolto la parola, senza che noi ancora lo abbiamo recuperato. Per tale ragione il linguaggio del poeta non è mai attuale, bensì sempre già-stato e futuro»[16]; nonostante i pregiudizi e i separatismi territoriali dei gruppi editoriali del Nord, la cui unica preoccupazione è quella di ignorare tendenze e sperimentalismo, «sempre mal tollerati da chi è nemico d’ogni innovazione», come rileva Gio Ferri in Annuario di poesia, quando fa notare che «l’editoria… di ricerca non ne fa e non ne promuove certamente. Anzi la ostacola, per gettarsi a corpo morto (“morto” non è qui un modo di dire) giù per la china, là dove ci porta il cuore!». Intanto, il tradimento è stato consumato, messo in sedicesimi nei cataloghi e nei Repertori assieme al giudizio di valore, impossibile da formulare in tempi in cui la massa poetica è così enorme da annullare qualsiasi esposizione critica, come a suo tempo ebbe modo di affermare Luciano Anceschi. Per questo motivo siamo convinti che la verità si collochi in mezzo alle controversie culturali, che coesistono da sempre per la ricerca di un possibile equilibrio, fuori dal concetto di egemonia e di individualismo. In questo senso i poeti qui antologizzati aspirano ad aprire un dialogo a distanza con chi crede che anche il peccato d’orgoglio possa essere superato, nel nome di un imputato, innocuo e innocente, qual è appunto la poesia.
Una volta accettata questa linea di principio si può anche giungere ad una visione non belligerante tra il Nord e il Sud d’Italia in tema di Repertori, senza alcun – annullamento della contemporaneità – e del prodotto poetico. Sarebbe, in ogni caso, un discorso di reintegrazione e di riparazione critica ricondotto nell’alveo legittimo della realtà poetica e non della mistificazione che produce solo malumore e disagio. E se si torna a confermare che la poesia è un prodotto inutile, allora ci si permetta di definire la nostra operazione, come un’anamnesi su un corpo autoptico, per il quale le doglianze non servono a molto, né aiutano a far rivivere chi è già morto o condannato ad essere tale. Ma la poesia esiste e fa parte dell’umanità. Osserva Giacinto Spagnoletti che «se di un sentimento – e non di un metodo ha bisogno fortemente il critico d’oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori»[17]. Il che ci porta a recuperare le voci dei poeti assenti nei Repertori del Nord, come testimonianza di un lavoro poetico in fieri realizzato da alcuni riservisti letterari chiamati ad una difficile operazione di “rianimazione” del testo poetico, specialmente a Napoli, popolata di sperimentalisti, ultimi disubbidienti di una poesia lasciata al libero arbitrio del linguaggio, precedentemente coniato e utilizzato con finalità diverse, dai protagonisti del Gruppo 63, i quali, in un memorandum apparso su «L’Espresso» del 30 aprile 2003, dal titolo Formidabili quei 63, a firma di Enzo Golino, si sono trovati compatti nel sostenere le ragioni delle loro scelte ideologico-linguistiche che, secondo Nanni Balestrini, uno degli esponenti intervistati, vanno inquadrate in un «passaggio generazionale teso a ricostruire la cultura italiana dopo il fascismo, senza pentimento alcuno di aver cambiato le regole del gioco». Non riesco a immaginare, precisa Balestrini, «perché e di che cosa ci si potrebbe pentire. Pentirsi dovrebbero piuttosto quanti, per odio e paura di ciò che è nuovo e vitale, da quarant’anni si sono accaniti contro quell’esperienza», e che in un certo senso riguarda il problema che qui trattiamo – i poeti emarginati del Sud –, in particolare di Napoli, uno dei pochi luoghi culturali, dove si fa ancora poesia, quando l’impegno è veramente tale e fondativo, forse il più rappresentativo, almeno nell’ambito poetico, per la qualità e per la quantità delle opere prodotte.Tuttavia la professionalità applicata all’arte poetica non sempre è stata sufficiente a rimuovere le cause che hanno determinato l’invisibilità dei poeti napoletani, che proprio per il loro individualismo hanno concorso a determinare, anche se in misura minore, il fenomeno della emarginazione.
Nascere a Napoli non è come nascere a Milano dove le fortune poetiche sono migliori rispetto a quelle partenopee. La necessità di una revisione storica della poesia appare oggi necessaria e urgente, cominciando proprio dal Sud, a recuperare voci e opere, rimaste per lungo tempo fuori dal sistema editoriale. Resta, purtroppo, ancora insoluto il problema di un linguaggio, che seppure propositivo non ha prodotto una nuova stagione poetica, per l’assenza di una spinta culturale portata verso il rinnovamento. Troppo tempo si è perso dietro il significante, erroneamente scambiato per poesia. «Per fare importante un poeta – ha scritto Marina Cvetaeva –, basta un’importante dote poetica.
Ma per fare un grande poeta anche un’importante dote poetica è poco, occorre un’equivalente dote di personalità, della mente, dell’anima, della volontà: e l’indirizzamento di tutto questo insieme verso un obiettivo definito, ossia un’organizzazione di tutto l’insieme»[18]. Oggi che non è più tempo di avanguardia, si avverte la necessità di un recupero “totale” della poesia, dopo la kermesse linguistica, cerebrale ed accademica, che ha finito con l’impaludarsi in una strettoia dalla quale è sempre più difficile uscirne fuori per respirare arie nuove o tentare altre vie che non siano quelle del caos della parola e dello sperimentalismo tout court.

1. La critica nelle opere poetiche – Antologizzare un periodo della nostra letteratura, pone ai curatori non pochi problemi di coscienza e di comportamento critico informativo, specie quando l’esame ermeneutico colloca in una zona di invisibilità autori validi e di lunga militanza, esautorati da una regia manageriale rivolta sempre di più al profitto che alla realtà storica presa in esame.
Nel suo fortunato Repertorio della poesia italiana contemporanea: Febbre furore e fiele (Mursia, 1983), Giuseppe Zagarrio pone in essere un principio etico di chiara rilevanza, che dovrebbe funzionare da password per molti critici interessati a redigere – storie letterarie –.
Infatti, nella sua relazione conclusiva, Zagarrio dichiara che «Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come i codici della giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque anche della loro utilità. Sempre che non pretendano di essere strumenti esaustivi della realtà e soprattutto non diventino operazioni politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio». Quindi «no all’antologia per quel che è di elitario, parziale, autoritario, e sì alle tante, tantissime antologie in funzione di quel no».
Purtroppo, a questo lodevole auspicio non sono seguiti segnali di ripensamento e di operatività critica, da rimodulare la topografia poetica del centro e della periferia. Cosicché assistiamo ad un reiterato – vulnus – che esaspera e inganna i lettori più avveduti ed esperti. Ne viene fuori un panorama letterario e poetico, con rifiuti e annessioni, di difficile accettazione. Nella sua opera Eutanasia della critica (Einaudi), Mario Lavagetto non si esime dall’affermare che «Gli anni Sessanta coltivarono l’illusione che si potesse trovare a collaudare un metodo scientifico di analisi dell’opera letteraria; ma quella ipotesi, non trovò una vera conferma, e dopo tanto laboratorio e collaudi di strutture, pian piano si lasciò perdere. La critica non è una scienza nel senso corrente del termine. Si fecero poi le cose più strambe accreditando una critica tematica, che naturalmente svariava ragionando sui temi più strani. Poi è subentrata la moda dei canoni, che sono in fondo classifiche d’alto bordo e comunque territori dai confini incerti e variabili.
L’accademia ha desacralizzato ogni forma di insegnamento, non sa che farsene dei critici, poco funzionale a corsi svelti e a testi di poche pagine possibilmente riassuntive».
Avvenuta la scissione della critica dal potere editoriale, la metodologia pseudo informativa, si è così – istituzionalizzata – inserendosi autonomamente nei mercati librari, vuoti di storia letteraria. «Un’antologia, è pur sempre un arbitrio – secondo il pensiero di Enzo Siciliano – e non c’è criterio di presunta oggettività che possa giustificarlo». Sono molte, infatti, le – premesse – poste ad apertura delle varie storie letterarie, che in vario modo, tentano di supportare l’autore e la sua ipotesi formalistica, spesso attraversata da presunte o pretese – irregolarità – che lasciano nel tempo l’omologazione della imperfezione, attraverso l’ondata delle rassegne di letteratura, dei canoni, della critica monografica, e di quant’altro asservito ai cosiddetti movimenti o periodizzazioni.
«Il critico – scrive Giacinto Spagnoletti nella sua Storia della Letteratura Italiana – non è che un testimone, al quale sono concesse tutte le possibili interpretazioni, anche quelle che denunciano la sua pochezza d’intuito, e l’obbedienza ai luoghi comuni. Ponendosi dal suo punto di vista, sempre incapace di abbracciare l’intero orizzonte, si possono subito stabilire i suoi limiti, culturali, metodologici, di informazioni e di analisi.» Purché, aggiungiamo noi, non si faccia del pregiudizio intorno a coloro che non hanno avuto la fortuna di essere pubblicati da Mondadori o Einaudi, una regola discriminante, tale da farli dimenticare per sempre. In ogni caso c’è l’idea della mistificazione che modula ogni evento critico strettamente legato al business imprenditoriale, che domina su ogni legittima richiesta dei lettori desiderosi di conoscere, ovviamente non in forma enciclopedica, il perché di tante estromissioni e silenzi.
Un’attenta analisi della faziosità che ha spaccato l’Italia, è stata esaminata da Loreto Di Nucci e Galli Della Loggia nel volume edito dal Mulino, Due Nazioni: legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, recensito da Giuliano Gallo sul «Corriere della Sera» del 2 luglio 2004, dove emerge l’esistenza di una contrapposizione ideologica, più che sociale e religiosa. Non a caso lo storico Luciano Cafagna ha definito questo stato di cose con un sorprendente neologismo – la divisività – che non è nata oggi, ma che ci portiamo dietro dall’inizio della nostra storia di paese, apparentemente unito, le cui fratture hanno separato la politica e l’economia, la società e la cultura, e ciò che riguarda più da vicino la poesia, con le sue contraddizioni formali; un problema che esiste e il solo fatto di ignorarlo non aiuta a riportare a galla la verità, ma a far emergere le memorie tagliate, tanto è vero che si continua sulla strada del separatismo culturale, con le recenti operazioni editoriali pubblicate dal settimanale «L’Espresso», in sedici volumi della Storia Generale della Letteratura Italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, che si sperava facessero un po’ di giustizia sui poeti desaparecidos, la cui dimenticanza è stata replicata nella Letteratura Italiana in diciotto volumi editi dal «Corriere della Sera» e nell’antologia La parola plurale pubblicata da Sossella, gestita da un team di otto curatori: Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublema, fino a dividersi la responsabilità e l’arbitrarietà della scelta dei testi e degli autori, affermando che «ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione), è stata decisa collegialmente», con buona pace di tutti gli altri poeti emarginati nel corso del Novecento, in cui non sono mancati modelli letterari oligofrenici, realizzati nel più completo caos della parola, a cui questa antologia tenta di porre rimedio attraverso un – proclama – della Forma, redigendo documenti di critica e di poetica su sessantaquattro poeti di diversa area territoriale, uniti da un criterio di selezione che dovrebbe far riflettere sul concetto di poesia, ridotto a fenomeno da baracchino e da ballon d’essai, da una – comunità ermeneutica che non mostra limiti nell’effetto-massa del pensiero critico e dei reperti testuali, prelevati in un arco di tempo, dal 1975 al 2005, rimandando a future operazioni di omologazione i poeti degli anni Trenta-Quaranta, non antologizzati –.
Ancora una volta siamo di fronte ad una partnership blindata cui vanno contrapposte iniziative coraggiose, come quelle sorte a Nusco, per censire la vasta produzione letteraria del Sud, e rivendicare, giustamente, – spazi e credibilità nella cultura nazionale – reintegrando un patrimonio di voci, disperso da assurde arbitrarietà, «aprendo gli spazi a segnali forti, che provengano dagli intellettuali, dagli editori, dalle istituzioni, dagli amici lettori, se vogliamo essere protagonisti bisogna andare anche alla riscoperta della nostra cultura e della nostra poesia», così come dichiarato da Paolo Saggese nel suo intervento Per la poesia nel Sud[19], che richiederebbe una lettura attenta per la specificità dei temi trattati, relativi anche alla compilazione di una eventuale Storia della letteratura degli esclusi, che non può essere il libro celeste di tutti i poeti vivi e di quelli morti, ma il dossier sui misfatti compiuti impunemente e giustificati da coloro che vivono al Sud e che costituiscono la colonna filonordista celata nelle redazioni dei Giornali per mettere sotto accusa ogni tipo di giaculatoria e di sconcertante meridionalismo critico inutilmente recriminatorio.
«Chi scrive poesie – ha rilevato Adam Zagajewski – si ritrova talvolta impegnato, in una difesa delle medesime», a causa di continue delegittimazioni nel Novecento «che è stato il secolo ammalato di amnesie», secondo un giudizio di Claudio Magris (in occasione della pubblicazione del volume di Barbara Spinelli, L’Europa dei totalitarismi, Mondadori), quando rileva che «la memoria è soprattutto giustizia resa alle vittime di violenza che la falsificazione ideologica cancella dalla coscienza o di cui deforma la verità».

2. Attualità del selfpublishing – Se aspirare ad una pubblicazione griffata diventa, per uno scrittore o un poeta un’avventura impossibile data la strategia programmatica delle Case editrici maggiori, impegnate ad un ritorno più che giustificato dei loro investimenti, allora non rimane che l’attualità del fai da te, o meglio del selfpublishing, che nella definizione letterale significa pubblicare da soli i propri testi.
Il fenomeno può essere definito per alcuni, editoria senza qualità, non avendo a disposizione la distribuzione del prodotto, che rimane l’unico modo per farsi conoscere. Tuttavia non è raro il caso in cui l’operazione porti a soluzioni per il richiedente, davvero ottimali. è il caso di tutti coloro che si autopubblicano, e che vedono coronare il loro sogno nel cassetto, con una modesta somma rapportata al numero di copie richieste.
Una indagine fatta dal «New York Times Book Revev» rileva che in America la «Authorhouse ha distribuito un milione di copie tra il 1997 ed il 2002, grazie alle nuove tecnologie digitali, che propongono edizioni significativamente decorose e a costi molto contenuti. Il meccanismo prevede che la pubblicazione su Internet produca dei commenti favorevoli offrendo all’autore la possibilità di contattare altri editori.
In Italia non sono poche le piccole case editrici a pagamento che offrono una significativa via d’accesso agli scrittori esordienti o di lungo corso con il selfpublishing, che consiste nella pura trasformazione di un manoscritto in volume, lasciando a chi scrive la scelta della sua eventuale vendita».
Certamente i servizi offerti rispetto alla grande editoria sono diversi. Tuttavia se autopubblicarsi significa uscire dal silenzio e da un ghetto non più tollerabili, ricorrervi come approdo ad un’ultima spiaggia non è poi tanto disonorevole. Di questo sistema si sono avvalsi nomi importanti, come è avvenuto per almeno tre best seller: La profezia di Celestino di James Redfeld, Eragon di Christopher Paolini e Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia.
L’avvento di internet ha rivoluzionato il mondo della comunicazione, attuando una vera e propria mutazione antropologica dai risvolti imprevedibili, secondo i più esperti mediologi.
Ovviamente, non mancano voci dissonanti, trattandosi di un orizzonte che sembra dar ragione alle più fosche previsioni, anch’esse formulate negli anni Novanta della fase aurorale di internet dall’urbanista francese Paul Virilio in cui l’autore associa alla rete “l’ultimo atto di una guerra totale”. Al di là di ogni possibile catastrofe informatica e dell’uso improprio che se ne possa trarre, resta il fatto che siamo tutti sotto lo sguardo di «un grande occhio più implacabile di quello del Big Brother orvelliano», e che milioni di persone stanno familiarizzando con l’high tech.
Nasce, come ha affermato lo psichiatra Tonino Cantelmi, “l’homo tecnologicus“, che vive di cellulare, di posta elettronica o di e-mail, ossia il digitalista, che non ha bisogno della linotype, ma della tastiera del computer per collegarsi on line con il resto del mondo, e nel nostro caso, con una community Web che legge, registra, invia messaggi di riscontro, superando così gli obsoleti canali cartacei.
In La lettera che muore, Gabriele Frasca ha affrontato il problema della commercializzazione del libro, soffermandosi sul volume Il Disperso di Maurizio Cucchi, pubblicato da Mondadori, che a fronte di «una tiratura di 2.000 esemplari, di cui 100-200 sono stati distribuiti gratis a critici, amici, ecc e gli altri, presumibilmente, venduti in libreria o nelle biblioteche», pone di fatto un problema già noto, che riguarda la collocazione della poesia nel mercato, dove i lettori interessati non superano le 500 unità. Discorso diverso per internet, dove si stima che l’utilizzo del web sia in continua espansione e che navighino circa «25 milioni di persone, (il 44% della popolazione) per oltre 80 minuti al giorno, con una crescita pari al 12%», come ha evidenziato in una indagine conoscitiva sul web Layla Pavone (AB), pubblicandola su «Affaritaliani.it.».
Il che non è poco, tenendo presente, che la poesia e la vita sono entrambe figlie dell’oblio e che anche in internet i corridoi di informazione sono diversi, secondo il grado di affidabilità. Ma questo è un compito che spetta ad altri: all’uomo colto e tecnologico e alla comunità letteraria.

__________________________

1) Luigi Baldacci, Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Rizzoli, 2000, pp. 18-19.

2) Romano Luperini, Breviario di critica, Guida, 2008, p. 59.

3) Pompeo Giannantonio, Rocco Scotellaro, Mursia, 1986, p. 7.

4) Günther Anders, Linguaggio e tempo finale, in «MicroMega», n. 5, 2002, p. 117.

5) Giuliano Manacorda, Non due ma cinquanta anni di poesia, Caramanica Editore, 2001, p. 12.

6) Nuove Edizioni Tempi Moderni 1992.

7) Giovanni Raboni, cit.

8) Il Novecento, Garzanti, 1987, Volume II°, Poeti del secondo Novecento, p. 213.

9) Nota introduttiva di Giovanni Cacciavillani sul saggio Postscriptum di Roman Jakobson, Almanacco dello Specchio, n. 4, 1975, p. 179.

10) n. 1 ottobre 1998.

11 Marisa Papa Ruggiero, Un’intervista a Franco Cavallo, in ivi, p. 38.

12) Ibidem.

13) Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica, 2001, p. 13.

14) Marcus Edizioni, Napoli, 2002.

15) Cfr. Giorgio Moio, Da «Documento-Sud» a «Oltranza». Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli – 1958-1995, in «Risvolti», n. 9, 2002.

16) Martin Heidegger, Logica, in «MicroMega», n. 5, 2002, p. 203.

17) Giacinto Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton Compton, 1994, p. 10.

18) In «Almanacco dello Specchio», n. 4, Mondadori, 1975, p. 39.

19) In «Secondo Tempo», n. 20, 2003, p. 94.


Biografia di Mario M. Gabriele


/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.