MARIO FRESA, Inediti da Bestia divina


(Con la proposta di alcuni testi poetici di Mario Fresa, tratti dal volume Bestia divina, di prossima pubblicazione, inauguriamo una nuova sezione: “Inediti – Anticipazioni”. In futuro essa fungerà anche da breve antologia con testi inediti di poeti italiani e stranieri, uno per poeta)


 

Appena entrati nei versi di Mario Fresa si avverte una sorta di disorientamento, non tanto una sensazione di agitazione e di vertigine quanto di spaesamento, come se venissero a mancare punti di riferimento sicuri, solidi appigli ai quali aggrapparsi. Per fare un paragone, che può forse sembrare azzardato, ci sentiamo come Alice quando improvvisamente si trova immersa e sbalzata nel Paese delle meraviglie dove le cose possono mutare forma e dimensione e il tempo non possiede una durata e una direzione certe.

Eugenio Lucrezi, nella “Presentazione” alla raccolta di Fresa Svenimenti a distanza, scrive: «Si tratta… di un ritrarsi del linguaggio dagli atteggiamenti della compiutezza» e inoltre «Scrittura che, a fine lettura e ascolto, suona e risuona, come in stanze grandi e vuote». Più esplicite le  parole riportate in bella evidenza nel retro copertina della stessa raccolta: «La poesia di Mario Fresa si mostra capace di assommare e di confondere le tonalità più disparate, perché pronte ad accogliere… movenze nervose e sorprendenti che sempre la rendono sospesa e obliqua, ponendola in bilico tra la visione paradossale e l’osservazione lucida, disincantata e quieta della realtà». Questa ultima frase potrebbe fare quasi da guida alla lettura degli inediti, intitolati Bestia divina, che l’autore presenta qui e che fanno parte di un libro di versi di prossima pubblicazione.

Partiamo subito dal titolo che rimane in bilico fra ossimoro e antitesi, titolo che affianca un sostantivo e un aggettivo i quali cozzano fra loro, si confrontano litigando, tentano una strana e impossibile convivenza, si attraggono respingendosi. In questi inediti sono numerosi i casi in cui   parole ed espressioni fra loro inconciliabili si accostano sorprendentemente generando scosse, sommovimenti, scintille, stridori, stupore e sconcerto, una vertigine senza svenimenti. Per esempio “un miracolo disastro”;  “un demente amore”; “cane violentissimo, gentile”; “tavolo e mostro si fissano”; “carnivoro amante”; “peggioro bene”; “li fucilano a salve”; “treno suicida”; “la sete della schiena”; “ragno di speranza”; “stanza vocabolario”; “c’è madre orologio”; “desideri-soldati”. Viene in mente questa celebre frase di Lautréamont: bello come «l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello»; il poeta francese verrà riscoperto in seguito dai surrealisti. Anche il mondo poetico di Fresa è in parte surreale, governato da una logica che non è quella comune e quotidiana. Con un linguaggio privo di tensioni, torsioni e deformazioni espressionistiche, di accensioni liriche e cupezze visionarie e oniriche; con una lingua senza toni eccessivi, quasi discorsiva e a tratti apparentemente, solo apparentemente, dialogante, l’autore si confronta con il paradossale, l’insolito, il contraddittorio, le solitudini, i silenzi, le mancanze di senso e di sentimenti, le assurdità esistenziali e reali.

Frequenti sono le domande o pseudo domande  che tentano o fingono di stabilire un contatto, un rapporto, un colloquio i quali invece continuamente sfuggono consegnandoci all’incomunicabilità, al fallimento (ad esempio: “Sono uguali o mi conviene cominciare?”; “Ma loro lo conoscono,  il terreno scivoloso?”; “Sarà uno sbaglio o no?”).

Nei suoi versi è presente una palese componente umoristica che sposta più avanti e più lontano il dramma ed è presente una evidente componente fantastica; insieme sono in grado di creare metamorfosi immaginifiche, simili a quelle dei  soldati della Regina del Paese delle meraviglie: soldati di carta, carte da gioco (Giancarlo Baroni)

 

* * *

 

Restava lì, quasi un divino contrabbandiere; apre il cervello esofago
e diventa così miracolo, bicchiere.
Insomma, vede tutto come può; e tu, piccina quadrerìa,
che tieni in mano i nervi e ci discuti sopra.
Verità di comando: lui che muore di colpo
e si figura un cubo d’aria, il niente.

 

*

Papà, che somiglianza da tirannia che abbiamo noi,
partendo dalla voce fortuna di un amico mortale.
Ma loro lo conoscono, il terreno scivoloso? I tuoi veri
genitori forse sanno qualcosa, quando aprono grembiuli
o discorsi quasi ufficiali da nemico bastimento;
si salpa sui malumori parvenu.
Ma vi dicevo dei rapporti accumulati tra di noi;
così deciso a tutto, papà rinchiude
nel suo armadio, ben mantenuto,
la buona Anna e i suoi stanotte desideri-soldati.
Rimette ovunque, allora, il primo udito;
e il resto della camera sta fermo
sino al lago. Non lo perdo più di vista, mi assicura;
ma non lo sento più.

 

*

Le carte s’aprono segrete sull’emicrania. Peggioro bene.
Era più vuoto e sosteneva, infine, di essere almeno
un guaio di giornata: uno che ha sempre, con sé, mobili antichi
e fame. La solitudine giura che non è bello ma piuttosto
se ne andava, a nome bianca o Sara, con una certa severa
vitalità. Anzi, una sera, fu come un cane breve
da dimostranti: e spesso, proprio da qui, tra le pareti inganno,
mostrami a dito queste carte da risposta gentile:
mostrami te; cane di vanità, sorpresa della morte.

 

JAVIER

1

Sono uguali o mi conviene cominciare?
Hanno allarmati pesi: forse un parziale viso quando,
in un eccesso di verità, fanno passare
le voci intere in ospedale.
Il respiro comune perde il bicchiere; la ferita la scuso
come un cosmico libro.
Siamo più umani senza una lingua? Il fatto è che
Luisa ha un marito dimostrante; si veste, da sola,
un corpo-orecchio fino a tardi.
È un miracolo disastro: se tutto fosse buono.
Invece ha proprio una fatica da pavimento; così sta lì,
più disperata di un santo.

 

*

Era una lingua, un salto. Mica per noi, mica un insulto.
Invece un asse, un panorama da ripagare presto;
se muore ovunque, starà dritto come un Goya
visto dal vivo; al re delle leggere scienze.
Così la giungla stordisce,
s’alza presto dai ragazzi ed è ben fatta:
una leale rivincita dello spavento,
prossima al colmo o a trasformarsi in un
gemello puro, in un fulmine lavoro di altri tempi.
Oppure che sia fatta, di sicuro,
di un’altra lingua più aceto:
e qui c’è madre orologio, come un istante nervo;
e poi gambe di esclamativi, miracoli di
atomici pittori.
A un solo fischio questi orecchi valanga
non vorranno più nessuna
maniera, più nessun quadro.
Non è una novità. Cadiamo.


Biografia di Mario Fresa


 

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